Thriller

Tenet, di Christopher Nolan

Il TEMPO è un concetto astratto generato in epoca ancestrale e, da sempre, oggetto di studi filosofici, prima che scientifici. La maggior parte della nostra esperienza temporale si basa sull’osservazione dei fenomeni intorno a noi, siano essi immediati (la vita quotidiana, il succedersi di giorno e notte, l’alternarsi delle stagioni), macroscopici, come l’universo, o microscopici, come la materia, intesa come sostanza di cui tutto è fatto. Ma la percezione di questi fenomeni viene registrata in maniera diversa sia da soggetto a soggetto sia dalle diverse figure di ricercatori: per un filosofo, ma anche per molti altri, il concetto di tempo è legato ai cambiamenti che un determinato oggetto di osservazione subisce anche stando fermo e presuppone altri concetti astratti come un “prima” e un “dopo”, mentre per un fisico questi concetti sono inammissibili scientificamente come concreti perché un oggetto “è”, “esiste” a prescindere e anche quando avviene una trasformazione il tempo verbale che si usa è al massimo un passato prossimo come “è diventato”.

In questo anarchico contesto ha avuto terreno fertile il terzo “ricercatore”, quello religioso che, senza addentrarci in intricate e pericolose disquisizioni, ha sfruttato da sempre la paura innata della morte e dell’ignoto per fornire al tempo un’importanza morale più o meno strumentalizzata nei secoli con lo scopo, neanche troppo celato, di guidare l’ignorante ad operare per il bene della specie e della sua evoluzione.

Tenet

Prendiamo una cosmogonia fra le più celebri: i greci hanno considerato Kronos come padre di Zeus e degli altri dei dell’Olimpo, ma figlio a sua volta di Urano e Gea, interpretabili come Universo e Terra. Quindi il tempo nasce dall’interazione della terra con il firmamento, quindi è associabile ai moti di rotazione e rivoluzione. Inoltre, sembra che il tempo governi un po’ tutti gli elementi se non si considera una figura mitica ben più importante e al di sopra di tutto per la mitologia greca: il Fato, inteso come la necessaria ed ineluttabile storia già scritta, a volte visto come “destino” dal punto di vista degli esseri viventi. E di questi tempi, in cui siamo costretti a vivere in spazi limitati, cercando di ottimizzare un tempo ristretto o dilatandolo in maniera abnorme rispetto alla frenetica quotidianità a cui eravamo abituati, ci rendiamo molto più conto di quanto sia il Fato a scrivere la storia del mondo, ma non in maniera ineluttabile, questo vuole affermare in maniera energica Tenet.

«La più antica e potente emozione umana è la paura,
e la paura più antica e potente è la paura dell’ignoto»

Howard Phillips Lovecraft

Il nuovo film di Christopher Nolan sembra far tesoro della massima homo faber fortunae suae e dimostrare che ognuno può svolgere un ruolo comunque fondamentale in un progetto che va magari al di là della sua comprensione e svolgere la funzione di eroe, quantomeno della propria storia, e scriverne un finale anche più che soddisfacente. Nolan, con il suo film pronto già in periodo di lockdown forzato, non s’inchina al tempo avverso e abbraccia il fato che, meschino, gli aveva inserito uno scoglio quasi insormontabile sul cammino e diventa l’eroe di cui il cinema aveva bisogno proprio in quel momento, non quello che merita, dato quanto ha dovuto tribolare per poter uscire in sala, come emblema di speranza per un sistema che naviga a vista sull’orlo del baratro.

Tenet

Oggi, portare a termine un progetto cinematografico così complesso e stratificato, dall’intreccio così intricato – non la trama che è, di per sé, abbastanza semplice e “lineare” – è da considerarsi impresa davvero leggendaria.

Il fatto è che un bel film come Tenet, per quanto sorprendentemente raffinato e storicamente importante, da solo non può salvare tutto un mondo ancorato a logiche commerciali anacronistiche, ormai da rivedere e innovare quasi totalmente. Scusate il piccolo excursus.

Ma intanto Tenet può essere considerato il film più significativo di questo funesto 2020 per il momento storico della sua uscita, per la speranza che rappresenta e per le ore di intrattenimento altamente intelligente che ha fornito a chi aveva alle spalle mesi di frustranti bollettini medici e palinsesti che iniziavano a raschiare il fondo del barile dei b-movie.

L’intreccio di Tenet assorbe gran parte delle energie, dicevamo, per la sua complessità, ma ciò nonostante è impossibile non rendersi conto che la sceneggiatura costruisce personaggi degni di nota, memorabili, che potrebbero benissimo godere di nuova vita in seguiti, prequel o spin-off.

Tenet

Addirittura le battute non sono mai dei semplici riempitivi, utili solo a giocare con l’attenzione della sala. Ogni linea di dialogo è densa di significato e ottiene d’incollare allo schermo anche le orecchie, oltre che gli occhi e i neuroni.

A tal proposito è significativo l’uso dei volumi: gli effetti sonori di Tenet e le musiche composte per l’occasione da Ludwig Göransson [Creed, Creed II, Black Panther] disturbano o addirittura sovrastano le conversazioni, fornendo un ulteriore motivo di attenzione oltre che rendere maggiormente reale la messa in scena. Per non parlare della chicca veramente sbalorditiva di eseguire le partiture al contrario quando il Protagonista – proprio questo è il nome con cui viene identificato il protagonista! – è in viaggio nel tempo in modalità reverse. Un vero tocco di genio, ciliegina su una torta deliziosa.

Tornando all’esperienza vissuta dallo spettatore e alla sua attenzione “ferrea” calamitata dal film, si nota che persino l’immancabile spiegone nolaniano sembra una lezione oltremodo interessante su di un argomento per cui il regista pare sfidare chiunque a far di meglio: la base della trama è immersa dalla testa ai piedi, senza talloni d’Achille, nelle teorie più dibattute di fisica quantistica, una materia pressoché intrattabile dai mass media fino a pochissimo tempo fa. Discorsi intricatissimi ad appannaggio di un’élite veramente ristretta di menti supreme.

Tenet

Tenet è un’enigmatica variazione sul tema del controllo del tempo, giocata un po’ in stile James Bond, con tanto di femme fatale [Elizabeth Debicki: Everest, Macbeth, Guardiani della galassia Vol. 2] e un po’ in stile heist movie, sofisticata come Inception, ma dotata di una concretezza molto più solida. A conferire questa credibilità alla trama non è tanto la spiegazione pseudoscientifica, che mescola fisica quantistica, algoritmi fisici e paradossi temporali, quanto più la messa in scena realistica, senza fulmini, dissolvenze e portali luminosi. A questa asciuttezza scenica va abbinato il continuo ricorso al gergo militare, che contribuisce non poco fornendo consistenza ai discorsi e tangibilità a quanto avviene di straordinario nel film: ricordate l’insegnamento di The prestige?

«[…] Il secondo atto è chiamato “la svolta”.
L’illusionista prende quel qualcosa di ordinario e lo trasforma in qualcosa di straordinario. Ora voi state cercando il segreto… ma non lo troverete, perché in realtà non state davvero guardando. Voi non volete saperlo. Voi volete essere ingannati. Ma ancora non applaudite. Perché far sparire qualcosa non è sufficiente; bisogna anche farla riapparire.
Ecco perché ogni numero di magia ha un terzo atto, la parte più ardua, la parte che chiamiamo il prestigio

The prestige

Della colonna sonora si è già parlato. Anch’essa concorre abilmente a puntare un grosso riflettore sull’ordinario per distrarre e poi sorprendere, ma per mandare davvero tutti fuori rotta fin dall’inizio, il regista sceglie il metodo hitchcockiano del macguffin, che ha rappresentato, in pratica, lo scheletro stesso su cui è stata orchestrata la trama, solo fintantoché il film non è approdato in sala: quello che viene definito il quadrato magico del Sator. Si tratta di un’iscrizione latina ritrovata nel 1925 a Pompei, per poi “scoprirla” da sempre presente su vari monumenti nel mondo. L’appellativo “magico” deriva dalla disposizione delle parole a formare un quadrato di 5×5 in modo che le scritte si leggano in più direzioni. È un palindromo molto complesso che ha scatenato non poche interpretazioni, finanche quella religiosa, che anagramma le lettere fino a costruire una croce con le parole “paternoster” più un paio di alpha e di omega a decorazione sui lati. Un codice studiato durante le persecuzioni dei paleocristiani? Tutto è possibile. Anche che Nolan lo abbia sfruttato come specchietto per le allodole in modo da depistare le spie cinematografiche che, così, hanno avuto un bel macguffin su cui fondare le loro illazioni sul film, senza rovinare la sorpresa.

Tenet

Nolan riesce addirittura nell’impresa di tenere all’oscuro tutti della trama. Persino il suo fedele Michael Caine [Interstellar, Youth] ha dichiarato di aver recitato conoscendo solo lo stretto indispensabile per portare a termine le sue scene. Non sembra nemmeno un’esagerazione se si devono fare i conti con giornali fondati su scoop e leaks che hanno a cuore il loro tornaconto, non certo i vantaggi di una visione priva di spoiler.

Tornando allo sfruttamento del quadrato come macguffin nel film di Nolan, Sator [Kenneth Branagh: Assassinio sull’Orient Express, Dunkirk] è l’antagonista del Protagonista – è questo il nome del personaggio interpretato da John David Washington [Blackkklansman]. Rotas è la ditta che Sator adopera per i suoi nefasti scopi (non aggiungerò altro per ovvi motivi).

«Non ho idea di quali armi serviranno per combattere la terza guerra mondiale, ma la quarta sarà combattuta con pietre e bastoni»

Albert Einstein

A questo punto permettetemi di aggiungere la mia personale interpretazione: i termini SATOR e ROTAS sono ai margini del quadrato, o meglio al confine, che in latino si direbbe FINIS, parola sempre di 5 lettere guarda caso! Con questa parola si possono coprire le tre funzioni narrative del binomio SATOR-ROTAS perché FINIS è “limite” o confine, rappresentato dalla lotta contro il tempo, ma vale anche per “scopo, obiettivo”, che rimanda alla missione dell’organizzazione denominata TENET che vuole scongiurare la fine (sempre FINIS) del mondo, obiettivo dei nemici. Per concludere – e metterci una croce su 😊 – TENET è al centro del quadrato magico formando proprio una croce (in hoc signo vinces??), è il cuore che opera dall’interno infiltrandosi nelle maglie del piano nemico. E nessun nome è casuale, a questo punto Neil [un convincente Robert Pattinson: The Batman, Le strade del male] ha la stessa pronuncia di nihil che è “niente” e, infatti, non se ne sa niente, ma a volte basta un niente, no 😉? Kat invece equivarrebbe all’inglese “cut”, il taglio che serviva per risolvere l’arcano, per dirla in maniera criptica.

«Posso darti solo una parola: Tenet. Può aprire molte porte, ma alcune di queste saranno sbagliate»

Nel tempo – sarebbe proprio il caso di dire – ma è meglio dire… Nella storia del cinema e della letteratura di genere abbiamo vissuto fantastiche avventure su locomotive e DeLorean volanti, siamo stati coinvolti in cacce all’uomo avanti e indietro nel tempo, ci siamo abituati a dubitare dei flashback e a riordinare intrecci annodati stretti dalle solite menti intricate. Sappiamo poi che non bisogna cambiare il passato se non si vogliono avere ripercussioni di varia natura sul futuro, o bisogna farlo, se il cambiamento si profila necessario, magari per la salvezza dell’intera umanità. Ma quello che accomuna tutte queste esperienze straordinarie è la ferma consapevolezza che l’uomo non potrà mai dominare appieno il tempo. Il tempo governa l’universo. Così, Nolan, mitico eroe dei nostri giorni, dopo aver domato proprio l’universo con Interstellar e aver saggiato la forza del tempo, si è posto un nuovo obiettivo di altissimo profilo: dominare quella che è per noi simultaneamente la bestia più indomabile e il nostro bene più prezioso, ossia il tempo.

Tenet

Tenet, con il coraggio e l’innovazione, inverte l’entropia di un’industria cinematografica sempre più votata – o dovrei scrivere “vuotata” – al vuoto cosmico, permeata com’è di trame spegnicervello e di prodotti sempre più minimali dal punto di vista tecnico-artistico, per privilegiare un percorso di fruizione più immediato e veloce che privilegia la serie TV e il film pensato esclusivamente per il mercato homevideo. Non ci sono note di biasimo in queste affermazioni, solo la constatazione del cambiamento di un mondo dell’intrattenimento che si è adattato al pubblico di riferimento, stressato e quindi desideroso di sentirsi appagato nel vedere qualcosa che non sia troppo impegnativo e che ben si adatti alla resistenza media all’abbiocco sul divano dopo cena. Per tutti gli altri esistono quelle serie che hanno fatto da apripista a Tenet, permettendone la comprensione e il conseguente apprezzamento. Uno su tutti? Dark! Lo spettatore-target del film di Nolan è presumibilmente lo stesso della serie tedesca e, per dirla con un sillogismo aristotelico: se Dark è la miglior serie TV mai realizzata e Tenet tratta argomenti simili ad essa, il pubblico non può non apprezzare il film. Quello che però va premesso è che il pubblico-target va inteso come insieme di persone che hanno ben radicato in loro il desiderio di cimentarsi nella soluzione di un enigma cinematografico. Che poi potremmo benissimo definirlo il pubblico tipico di Nolan, anzi, dei Nolan, vista la predilezione dei due fratelli per le trame ad incastro e cervellotiche che procedono su più linee narrativo-temporali. È come una missione che si sono tacitamente assegnati: quali novelli Prometeo si adoperano in ogni frangente per intrattenere sì ma anche per istruire la massa e dare una spinta all’evoluzione della specie “spettatore”.

Tenet

Rispetto a Inception, Tenet perde un po’ in spettacolarità, è chiaro, ma guadagna un sacco in fascinazione: l’essenziale, insegna Il piccolo principe, è invisibile agli occhi e l’amore che Nolan dissemina nel film è un amore titanico per l’enigma. I suoi film sono sfingi da decifrare, oracoli da interpretare, codici da decriptare. Con buona pace di chi non ce la fa e che sceglie di comportarsi poi come la volpe con l’uva se non li capisce, i film di Nolan sono ad un livello superiore d’intrattenimento. Non sono adatti per chi è assuefatto alla società dei consumi, del “cotto e mangiato”, del visto e subito dimenticato. Si tratta di opere stratificate dove ogni successiva fruizione porta sempre lo spettatore ad una riflessione a posteriori e ad una consapevolezza in più rispetto a prima. Un’evoluzione. E questa spinta evolutiva è stata ben ponderata da altri che, inconsapevolmente – mi riferisco sempre a Dark, ma anche a Black Mirror – hanno educato il pubblico a non dare per scontato nulla e a seguire invece con attenzione qualsiasi elemento, pure l’oggetto apparentemente più insignificante, per non perdere nessun nesso logico.

Tenet ha, quindi, come target uno spettatore istruito, non tanto sulla fisica quantistica, quanto più sulla scienza da film, quella che già sa piegare il tempo ai suoi voleri, che sa viaggiare oltre la fantasia in uno spazio plausibile, che sa entrare e (forse) uscire dai meandri della psiche umana senza perdere coerenza. Inception, Interstellar e ora Tenet godono di questa maturità nel narrare e narrare cose che voi umani – un tempo si sarebbe detto – non potete neanche immaginare.

«L’ignoranza è la nostra arma»

Tenet

The Lodge, di Severin Fiala e Veronika Franz

Freddo. Un freddo che entra nelle ossa, nel sangue, nel cervello, che offusca la ragione e porta alla pazzia. Il freddo è l’elemento dominante di The Lodge, tagliente come le inquadrature di Severin Fiala e Veronika Franz. Squadrate, pulite, vuote, bianche come la neve che domina la scena. Gli elementi scenografici sono ridotti al minimo, creando la paura dal vuoto, dall’assenza più che dalla presenza.

Stanze e corridoi vuoti, congelati nel tempo, immobili, così come Richard e i suoi due figli, Mia e Aiden, intrappolati in una dimensione sospesa tra la vita e la morte, quasi fantasmi di loro stessi, dopo il suicidio della loro mamma. Ora il papà ha una nuova compagna, Grace, che i ragazzi faticano ad accettare, non solo perché la mamma si è tolta la vita a causa sua, ma anche per un oscuro episodio del suo passato, legato a uno spaventoso caso di suicidio di massa, in cui lei era stata l’unica a sopravvivere.

Sembra che la morte segua Grace come un’ombra, che la perseguiti e non la abbandoni mai, neanche di notte, quando gli incubi la fanno vagare in preda al sonnambulismo. Eppure Richard, curandosi solo del suo amore per Grace, non esita a lasciarla sola con i due ragazzi per passare le vacanze di Natale in uno chalet di montagna, perso nella neve, a chilometri di distanza da qualunque forma di vita. Prigionieri di una tormenta di neve inarrestabile, e da una casa dall’ossatura gelida, i tre si trovano costretti a combattere con il gelo interiore ed esteriore che li divora.

L’orrore di Severin Fiala e Veronika Franz è più vicino all’inquietudine che serpeggia sotto la superficie di una quotidianità ordinaria, che a un evento straordinario, paranormale. Ma non per questo la paura è smorzata, se mai il contrario. Quando l’elemento perturbante arriva inaspettato, l’impatto sullo spettatore è ancora più devastante. Ed è proprio sull’inaspettato che The Lodge punta tutto, dando più spazio ai colpi di scena che alla narrazione effettiva degli eventi, che spesso rimangono offuscati, nascosti da una spessa coltre di neve che ne fa intravedere solo i contorni.

BlacKkKlansman, di Spike Lee

Vincitore del Grand Priz della Giuria a Cannes 2018, BlacKkKlansman di Spike Lee rappresenta una nuova maturazione della poetica del regista di Atlanta. Dopo le prove non certo idilliache degli ultimi anni – è sufficiente ricordare Red hook summer o Il sangue di Cristo, senza arrivare al povero remake di Old boy, mai perdonato dai veri fan del Maestro – con BlacKkKlansman, si ritorna alle tematiche sociali raccontate attraverso storie solo all’apparenza banali e ad un’estetica non più esasperata fino all’insopportabile eccesso, ma funzionale alla trama e, soprattutto, al messaggio che si vuole veicolare attraverso il film. Un messaggio che ha l’effetto di uno schiaffo ben assestato in un turbinio di risate: zittisce ogni superficiale commento populista e fa riflettere anche dopo i titoli di coda. Purché si abbia un cervello, logicamente.

La storia di un poliziotto che deve sgominare i complotti di un’organizzazione criminale è un plot come tanti, tantissimi film, forse migliaia.

Ma aggiungiamo che il poliziotto in questione sia afroamericano e che il Male da sconfiggere sia il famigerato Ku Klux Klan (KKK): ecco che il materiale che può far gola allo Spike Lee di capolavori come Fa’ la cosa giusta e Clockers inizia a prendere forma e a risvegliare quella coscienza forse sopita a causa di un’ispirazione non pervenuta.

Poniamo, poi, il caso che questo detective senta in sé una missione, frutto di un mix di inconscia ambizione e di assurda incoscienza:

Per combattere in prima linea la discriminazione razziale, Ron Stallworth [John David Washington] non è solo determinato ad essere il primo afroamericano ad entrare nel corpo di polizia di Colorado Springs. Vuole realizzare un’impresa mai neanche tentata prima di quel fatidico 1979: ottenere la possibilità di infiltrarsi tra le fila del KKK per smascherare le loro macchinazioni sotto traccia e la copertura politica di cui hanno sempre tacitamente goduto. Per uno come lui, dalla parlantina spigliata e dalla battuta pronta, basta una telefonata, ma una volta ottenuta telefonicamente la fiducia come può presentarsi di persona? Occorreva inventarsi qualcosa di valido ed il colpo di genio, in realtà vecchio come una commedia di Plauto o Terenzio, è la sostituzione, il classico scambio di persona. Così ad entrare in scena al posto suo sarà il collega Flip Zimmerman [Adam Driver], ebreo non praticante, innescando un crescendo di tensione man mano che si disinnescano gli equivoci e si scoprono i piani del nemico.

«Mi sento continuamente come fossi due persone».

Nel frattempo, su un fronte che più parallelo e in contrasto non si può, Ron è impegnato ad indagare sui piani di “rivoluzione” del comitato studentesco del Colorado College, dove una bella quanto forte presidentessa, Patrice Dumas [Laura Harrier], promuove attivamente il Black Power e i comizi di Stokely Carmichael [Corey Hawkins], il leader carismatico del gruppo. Un’organizzazione “alla luce del sole” per la rivendicazione dei diritti della popolazione afroamericana contrapposta ai fautori del White Power, della supremazia bianca, del nazionalismo bianco o come lo si voglia chiamare per dire “razzisti anacronistici e ignoranti”, con il loro cosiddetto “impero invisibile”, capeggiato da un David Duke che, nell’interpretazione di Topher Grace, risulta non meno misero, goffo e insignificante dell’originale dietro quella sua maschera da semplice e pacifico cittadino americano. Il David Duke di BlacKkKlansman è un personaggio che si fa portavoce di tutta quella retorica della politica di Donald Trump, criticata anche nelle immagini di repertorio presenti nell’inserto che conclude il film.

«L’America non eleggerebbe mai uno come David Duke».

Se a questo punto vi svelassero che il film è tratto da una storia vera, che la sceneggiatura è stata costruita a partire dal libro del detective Ron Stallworth, pubblicato nel 2014 proprio con il titolo Black Klansman? Da non credere? No. Ormai, dopo tante esperienze di biopic, mockumentary e meta cinema ci siamo desensibilizzati al punto da non lasciarci impressionare più di tanto. Ma questo, in fondo, più che alla trama giova al messaggio, veicolato ovviamente dall’intero film ma reso esplicito soprattutto da un inserto cinematografico, inteso come insieme d’immagini estraneo allo spazio e al tempo diegetico.

«This joint is based upon some fo’ real, fo’ real shit».

Questa trama, già di per sé estremamente pregna di significanti più o meno evidenti e spunti di riflessioni da trascorrerci ore, è infatti racchiusa in due inserti collegabili “solo” ideologicamente ad essa ed al messaggio insito in essa. Nell’incipit Spike Lee propone un cameo molto particolare: Alec Baldwin [The cooler, Zona d’ombra, Getaway], che ha già abbondantemente ridicolizzato Trump con la sua imitazione da antologia al Saturday Night Live, interpreta un senatore razzista ripreso in stile mockumentary nell’atto di registrare un discorso di propaganda elettorale: mentre esalta i presunti «valori dei bianchi protestanti» e demonizza parità, integrazione e matrimoni misti, viene proiettata sulla sua figura qualche scena del film Nascita di una nazione, di David Wark Griffith, una delle opere più importante della storia del cinema mondiale per aver introdotto e diffuso le regole del montaggio analitico con i suoi raccordi sull’asse, sullo sguardo, sugli oggetti e sui movimenti creando quello che poi è diventato un vero e proprio linguaggio tecnico. Il caso, o più probabilmente, un’assurda macchinazione alle spalle del regista, ha voluto che proprio quando le scene si facevano più dense sul piano tecnico-formale, la trama – si tratta, infatti, del primo film narrativo della storia – deviasse verso un risvolto nichilista, sottolineato dal primo montaggio alternato in parallelo, ponendo i membri incappucciati del KKK nella parte dei cavalieri salvatori della patria in contrapposizione ai neri visti come delle bestie senza regole e senza cultura. Sin dalle prime proiezioni il film ispirò proteste, disordini, persino omicidi. Si dice addirittura che da allora il KKK sia rinato a nuova vita. Profondamente turbato Griffith girerà subito Intolerance che condannava ogni forma di violenza e intolleranza, ma ormai il potere del medium di massa aveva avuto i suoi effetti devastanti.  In BlacKkKlansman, Spike Lee prende coraggiosamente posizione nei confronti di chi continua a strumentalizzare i media e diffonde un nuovo messaggio In questo senso potrebbe essere considerato il capolavoro assoluto del regista, il film della maturità acquisita, come avremo modo di analizzare tra poco. Tornando agli inserti, quello finale, invece, è un vero e proprio schiaffo che risveglia le coscienze: un montaggio giustapposto di immagini di repertorio in cui si documentano gli scontri di Charlottesville che hanno portato alla morte di Heather Heyes e i commenti imbarazzanti e fuoriluogo di Donald Trump e David Duke, quelli reali, ed è davvero il caso di aggiungere un “purtroppo”.

«Mi serve il fascicolo di un “ROSPO».

A parte il cameo del regista, l’ambientazione a Brooklyn e gli end credits evocatici, che stavolta si sarebbero rivelati fuoriposto, tutta la poetica, lo stile e le ossessioni di Spike Lee tornano in questo memorabile BlacKKKlansman. E la maturità sta nel fatto che ogni cifra stilistica o elemento poetico è funzionale alla trama o all’intreccio.

Per quanto riguarda la POETICA:

  • tematiche sociali, in questo caso alleggerite dai temi del doppio, dello scambio di identità e della loro negazione, il mimetismo (da attribuire forse più ai coproduttori Jordan Peele (regista di Scappa – Get out) e Jason Blum della Blumhouse Production (La notte del giudizio – Election year, The visit);
  • lotta al razzismo;
  • personaggi femminili forti;
  • attenzione ai dialoghi, mai banali, ma casomai referenziali o autoreferenziali;
  • attenzione nella scelta della musica, sempre ricercata e significativa (Too late to turn back now, per fare un esempio su tutti)
  • citazioni culturali, cinematografiche, metacinematografiche e riguardanti l’attualità.

Le SCELTE STILISTICHE prevedono:

  • fotografia caratterizzata da colori saturi, senza eccedere stavolta;
  • contrasti marcati, stavolta meno “rumorosi” rispetto al solito.

Fino ad arrivare alle cosiddette “CIFRE STILISTICHE” che diventano delle firme personali dell’autore:

  • attori che parlano verso la mdp e relativo sfondamento della parete “proibita”;
  • la famosa “wake-up-call”, la telefonata che sveglia, immancabile;
  • il “double-dolly-shot”, anch’essa immancabile: si tratta di una sequenza in cui il personaggio è inquadrato con un piano ravvicinato, mentre è immobile sul carrello in movimento. Il risultato è uno straniamento dello spettatore che percepisce l’immobilità del soggetto rispetto al cambiamento dello sfondo intorno.

John David Washington [The Old Man & the Gun, Love Beats Rhymes, Malcolm X], ex giocatore di football americano ma, soprattutto, figlio di quel Denzel Washington [Barriere, The equalizer, I magnifici 7] che è stato protagonista di parecchi Spike Lee’s Joint [Malcolm X, Inside man, He got game], ha conquistato pubblico e critica, donando al suo personaggio la spavalderia tipica della sua gente e il posato raziocinio dell’eroe senza macchia e senza paura che occorreva per rendere più evidente il contrasto tra tematica e messa in scena e tra i toni della commedia e la realtà drammatica dei fatti.

«Improvvisa! Come nel jazz!».

Oltre ai già nominati Adam Driver [L’uomo che uccise Don Chisciotte, Star Wars: Il risveglio della forza, Star Wars: Gli ultimi jedi], Topher Grace [Interstellar, Truth – Il prezzo della verità, Spider-Man 3], Laura Harrier [Spider-Man: Homecoming, Fahrenheit 451 serie tv], Corey Hawkins [Straight outta Compton, Iron Man 3, Kong: Skull Island], del cast, fra new entry e vecchi amici, fanno parte anche Ryan Eggold [La scomparsa di Eleanor Rigby, Padri e figlie, 90210 serie tv], Jasper Pääkkönen [Vikings serie tv], Robert John Burke [Miracolo a Sant’Anna, Person of interest serie tv], Ken Garito [S.O.S. – Summer of Sam], Paul Walter Hauser [Tonya], Ashlie Atkinson [The wolf of Wall Street, Inside man].

A completare il cast due fratelli d’arte. Uno è Michael Buscemi [Animal factory, Insieme per forza] il fratello del più famoso Steve Buscemi. L’altro è una vecchia conoscenza del regista e presente in Fa’ la cosa giusta, Mo’ better blues, Jungle fever e Malcolm X. Si tratta di Nicholas Turturro, fratello di John Turturro, che ha quel ruolo che sin dalla tragedia greca viene definito deus ex machina, ovvero un personaggio, il più delle volte una divinità, che compare improvvisamente sulla scena per dare una risoluzione ad una trama ormai irrisolvibile secondo i classici principi di causa ed effetto; tale espressione è ora, di fatto, assunta per indicare un evento o un personaggio che risolve inaspettatamente la trama di una narrazione, al punto di apparire altamente improbabile o come il risultato di un evento fortuito.

Cameo fondamentale inoltre quello affidato ad Harry Belafonte su un montaggio alternato che crea un parallelo tra il suo intervento all’incontro con gli studenti afroamericani ed il “battesimo” dei nuovi adepti suprematisti del KKK. Un montaggio alternato che può scolpirsi nella memoria come quello de Il padrino, sempre con un battesimo di mezzo, stavolta il rito cristiano è per un neonato, abbinato all’ascesa al potere del nuovo boss.

Dopo la standing ovation di sei minuti, e il premio ovviamente, a Cannes 2018, BlacKkKlansman ha ricevuto un’ottima accoglienza anche negli Stati Uniti, complice anche la scelta di farlo uscire il 10 agosto, anniversario di Charlottesville.

«– Test della verità? Colpi di pistola? Volete coglionarmi? è un dannatissimo bordello! Aaah… teste di cazzo! Mi prendete per il culo? Tu mi stai intortando, tu mi stai intortando, il capo me lo sta mettendo in quel posto: è una grande inculata collettiva! Vi fa ridere? perché se Bridges lo viene a sapere, tutta questa cazzo di operazione verrà chiusa. Sì, fa ridere… E io verrò mandato davanti a una scuola del cazzo nel fottuto ghetto di Five points!
– Ma lo verrà a sapere, Sergente?
– Verrà a sapere che cosa? (buttando il fascicolo in un cassetto)».

BlacKkKlansman è una black comedy dove il riso diventa amarissimo con lo schiaffo della realtà dei fatti di Charlottesville. Per l’intero film si può ridere con le lacrime agli occhi ma sui titoli di testa, viceversa, non ci è permesso piangere con il sorriso: è un pianto di rabbia.

«Non volevo certo che la gente uscisse dal cinema ridendo».

Quello che per altri film di genere costituirebbe l’obiettivo finale, in BlacKkKlansman si trasforma in pochi secondi nel setting di un’altra storia ben più profonda (il riferimento è all’accettazione senza precedenti di un afroamericano nella polizia di Colorado Springs). Il tema del razzismo, tanto caro a Lee, si unisce a quello dell’emancipazione, creando una fitta rete di rimandi. Così il discorso non si limita all’accettazione di un nero nella polizia, ma diventa lotta contro quell’impero invisibile che, celato dietro una maschera da rispettabili membri di una società in giacca e cravatta che non ammette intrusioni esterne, estranee – nemiche, ostili come si tramanda nel termine latino hostes – al loro circolo chiuso, che reputano virtuoso così com’è. Nemmeno le donne vi sono ammesse. Le loro donne. La critica di Spike Lee alla società attuale passa attraverso quest’ambientazione anni ’70, prende come pretesto la storia di Ron Stallworth e poi la trascende, spingendosi a sovrapporre parallelismi forti: l’ebreo non praticante che si trova a dover difendere le proprie origini in un ambiente ostile; l’afroamericano che viene emarginato dai suoi stessi fratelli in quanto poliziotto; il poliziotto nero che deve sentirsi bullizzato nel suo ambiente di lavoro dai suoi stessi colleghi; la donna che non risulta mai abbastanza credibile come sesso forte o che non avere pari opportunità reali sulla scena politica – o terroristica, per giunta! – se non in ruoli secondari, da gregario.

«Sono abbastanza rispettoso per te, agente “ROSPO”?».

BlacKkKlansman è una black comedy dove l’aggettivo non indica il colore della pelle: dietro la farsa, dietro le risate, seppur spesso amare, si fa largo una riflessione profonda sul senso di appartenenza ad una comunità e ad una nazione che finalmente siano unite ed emancipate da ogni forma di intolleranza, sul confine che deve esistere tra rivendicazione dei diritti e terrorismo e su tanti elementi che sembrano insignificanti se non si guarda il quadro generale: la blaxploitation operata dal cinema negli anni ‘70/’80 [si citano Cleopatra Jones, Coffy, Superfly e Shaft, complici, come Tarzan e Via col vento, nella diffusione di dinamiche sociali sbagliate o distorte] o i luoghi comuni che stentano a scomparire sono additati da Lee alla stessa stregua dei discorsi assurdi dei suprematisti bianchi, perché contribuiscono a diffondere immagini che danneggiano il popolo afroamericano. La critica non si limita, quindi, a demonizzare il succitato Nascita di una nazione di Griffith, ma si allarga a puntare il dito sul potere che i media esercitano sulla massa, sulla politica, che è troppo spesso un ulteriore modo di vendere odio, sull’irrazionalità che c’è dietro certi discorsi, certe spiegazioni, sulla giustizia che non esiste senza la verità e su una verità soggettiva che non può generare una giustizia violenta e sommaria. Mai.

Curioso che Adam Driver sia contemporaneamente nelle sale cinematografiche italiane con L’uomo che uccise Don Chisciotte di Terry Gilliam, che tocca alcune tematiche simili: la ricerca di una reale verità e il forte condizionamento – un rumore, un disturbo sarebbe meglio dire – dei mass media sull’opinione del pubblico e sui suoi desideri di felicità.

Skyscraper, di Rawson Marshall Thurber

Estate. Tempo di sole, spiagge, magari squali… Troppo ovvio, e la Universal figurati se non ne è a conoscenza! Quindi perché non cercare i brividi e l’adrenalina equivalenti nel nuovo film di Rawson Marshall Thurber: Skyscraper?

Will Sawyer [Dwayne “the Rock” Johnson] è un ex agente FBI che, dopo aver perso parzialmente una gamba in un negoziato con ostaggi finito malissimo, si è costruito una nuova vita: ha sposato il medico chirurgo che l’ha salvato [Neve Campbell], ha due splendidi bambini che adora e una piccola compagnia privata che si occupa di sicurezza. Il suo nuovo lavoro lo porterà a Hong Kong, nel grattacielo più alto del mondo [the Pearl], in qualità di ispettore alla sicurezza e da quel momento niente sarà più lo stesso. Quando un delinquente senza scrupoli saboterà la torre per ricattarne il proprietario, Sawyer sarà in cima alla lista dei sospetti per la polizia… perciò di chi potrà fidarsi per salvare la sua famiglia bloccata nell’edificio? Su cosa potrà fare affidamento per entrare in una trappola di acciaio e cristallo e uscirne vivo insieme a chi ama? Sul fatto che «conosce l’edificio meglio dell’architetto che lo ha progettato»? Andiamo, siamo seri. Sulla sua preparazione militare? Beh, sì, ma ancora non ci siamo. Muscoli, ragazzi, era ovvio: parliamo di the Rock!

«Il Pearl è l’edificio più alto e più sofisticato del mondo! Lei ha costruito una città verticale! Ma così facendo lo ha esposto ad ogni sfida alla sicurezza che possa venirmi in mente»

Chi bazzica il genere disaster movie, condito con un pizzico di azione di grana grossa, sa che non deve aspettarsi grandi sorprese dalla trama. Quello su cui invece il regista può lavorare è la forma che il contenuto assumerà. Nel caso di Skyscraper non si bada a spese e gli effetti speciali sono davvero mozzafiato: le vicine di poltrona sono letteralmente saltate sui sedili come gatti di fronte ad un cetriolo (ma poi si sarà scoperto perché?) quando salti, scalate e sospensioni nel vuoto le hanno sorprese, e bisogna ammettere che spesso ne avevano ben donde.

«Sono solo un po’ nervoso»

Non è Natale, come invece accade in Die Hard – Trappola di cristallo, e il personaggio di Johnson, per quanto massiccio, per quanto calzante, non ha né la spavalderia né la battuta pronta che hanno reso il John McClane di Bruce Willis qualcosa di inarrivabile. Neanche lontanamente paragonabili.

Skyscraper si vede, ma non si rivede, è un film da arena estiva a prezzo ridotto, non vale certo un biglietto intero, magari insieme alla famiglia e the Rock vincerà pure ma non convince in queste parti drammatiche, scritte più per fungere da collante fra un gesto eroico e un salto nel vuoto. Eppure qualcosa di diverso si sarebbe potuto fare, vedere per credere The foreigner, con un Jackie Chan che picchia tutti come al solito ma lo fa con un personaggio fortemente caratterizzato, distrutto nel profondo dell’animo da una vita sfortunata e costellata di lutti.

Sarebbe stato interessante parlare di risvolti filosofico-religiosi con la solita tracotanza umana, ὕβϱις (hybris) se piace nominarla in greco, di puntare a conquistare un cielo che è prerogativa esclusiva delle sole divinità. Nessuna sottotrama, nessun messaggio implicito. Nemmeno riguardo uno scimmione che volle sfidare il drago, signore del cielo…

Citazione scena finale de La signora di Shanghai (guarda un po’ che caso…) modernizzata sostituendo i famosissimi specchi con una miriade di LCD che permettono la duplicazione infinita dei personaggi e un caleidiscopio di illusioni, ma anche questa trovata, purtroppo, è esclusivamente a scopo spettacolare, priva di una qualsiasi motivazione o di una funzione che elevi la scena e con essa l’intero film.

Skyscraper è un’americanata molto spettacolare punto, girata quasi interamente a Vancouver, e costata circa 125 milioni di dollari. Gli effetti visivi del film sono curati dalla Industrial Light & Magic, utilizzando anche la tecnologia Imax per un maggior coinvolgimento nell’azione.

Oltre a Dwayne “The Rock” Johnson [Jumanji – Benvenuti nella giungla, Doom, Il Re Scorpione, Rampage – Furia animale] e Neve Campbell [Scream, Sex crimes, The company] fanno parte del cast Noah Taylor [La fabbrica di cioccolato, Predestination], Roland Møller [Land of Mine – Sotto la sabbia, Atomica bionda, L’uomo sul treno – The Commuter] e l’interessantissima attrice-modella taiwanese e australiana Hannah Quinlivan [S.M.A.R.T. Chase].

 

A Quiet Place – Un posto tranquillo, di John Krasinski

Quando si dice “iniziare in media res”, ossia nel bel mezzo del racconto, senza introduzioni e preamboli-spiegoni noiosissimi, ma gettando subito lo spettatore nel vivo della suspense da slasher horror moderno, s’intende proprio questo tipo di film che ha un incipit giocato sulle inquadrature ravvicinate, e soprattutto di dettaglio, e sulle soggettive sonore che, dato il tema trattato, diventato un leit motiv indispensabile per creare quel clima di angoscia e terrore che un silenzio forzato, la cui pena sarebbe la morte certa.

Nel 2020, la popolazione della Terra è stata quasi completamente sterminata da una razza aliena giunta da non si sa dove, come e quando. I mostri – ibridi tra il Saturno dipinto da Francisco Goya, gli Xenomorfi parassiti di Alien e il collaudato Demogorgone di Stranger Things – sono completamente ciechi, ma dotati di un udito sensibilissimo e divorano qualsiasi cosa produca il seppur minimo rumore. Gli Abbott, una famiglia composta da madre, padre e tre figli, sembrano gli unici superstiti umani al mondo. Cercano di sopravvivere in una fattoria isolata, nel più completo silenzio, comunicando solo con il linguaggio dei segni.

Se questa loro competenza è giustificata dal fatto che la figlia maggiore è sorda, nulla spiega in maniera soddisfacente la presenza dei mostri e la loro fame incontrollata, irrispettosa delle regole di equilibrio biologico: si tratta di creature fameliche tanto veloci quanto spietate, che non hanno nessuna intenzione di lasciare in giro qualche essere vivente per non rischiare di morire di inedia. Sopravvivere dignitosamente si può a vedere gli Abbott. Basta non emettere mai alcun suono, ma … ci riusciranno?

A quiet place – Un posto tranquillo è un horror particolare che, nonostante la sua semplicità strutturale e formale, sa far trattenere il fiato dall’inizio alla fine. Essendo abituati all’ecatombe che possono produrre creature come gli Xenomorfi di Alien, potrebbe essere di notevole aiuto non porsi troppe domande, altrimenti il labile patto di sospensione dell’incredulità, che è alla base del film, decadrebbe come un castello di carte davanti ad un ventilatore (non domandatevi, nemmeno quando i personaggi ve lo sbatteranno in faccia, perché non rifugiarsi in un luogo come una cascata, dove il rumore assordante permetterebbe di parlare liberamente passandola sempre liscia). Se non ci si ferma troppo a pensare, la calamita funziona e lo spettatore si ritrova attratto al centro della scena a tremare o a tramare per la sorte dei protagonisti, a seconda che si parteggi per le vittime o per i carnefici, come spesso accade ai fan degli horror.

La sceneggiatura di Bryan Woods e Scott Beck, inizialmente pensata per aderire al franchise di Cloverfield, contiene una sola linea di dialogo, il film ne presenta un paio in più. Questa carenza di comunicazione verbale non deve far pensare ad un’attenzione minore nella recitazione: John Krasinski, in A quiet place – Un posto tranquillo al suo debutto da regista, nasce come attore [Qualcosa di straordinario, Licenza di matrimonio] e ha fatto della comunicazione visiva, della mimica facciale e della gestualità teatrale uno dei punti di forza della pellicola, curando nei minimi particolari la colonna sonora e il montaggio sonoro, nonché la recitazione del cast, scritturando persino un’attrice realmente sorda, la bravissima Millicent Simmonds [La stanza delle meraviglie], per la parte della figlia maggiore. L’attore-regista, per questo suo esordio, ha completato il cast scegliendo Emily Blunt [I guardiani del destino, Edge of Tomorrow – Senza domani, Il ritorno di Mary Poppins], sua moglie nel film e nella vita reale, Noah Jupe, il protagonista eccezionale di Wonder, e Cade Woodward alla sua prima fugace apparizione cinematografica.

Negli Stati Uniti A quiet place – Un posto tranquillo è stato vietato ai minori di 13 anni non accompagnati da adulti per via della quantità di sangue e di terrore, mentre in Italia è vietata ai minori di 14 anni.

It: Capitolo uno, di Andrés Muschietti

Feroce, crudele, macabro e violento nella misura richiesta dal pubblico, apprezzato in ogni suo aspetto formale, l’It: Capitolo uno di Andrés Muschietti si eleva a capolavoro indiscutibile del genere horror adolescenziale. Il Pennywise che Bill Skarsgård [Allegiant, Atomica bionda] si è cucito addosso, ammalia e terrorizza con i suoi occhi penetranti e taglienti, con le sue movenze scattose e una verve che fa quasi impallidire il generoso Tim Curry che da solo, letteralmente da solo, salvava la ormai dimenticabile produzione televisiva degli anni ‘90.

Il Male innominabile, nascosto nel profondo di ogni comunità, per quanto piccola, e nel profondo del subconscio di ogni essere umano, per quanto coraggioso, si manifesta principalmente nelle sembianze di un clown che indossa un costume dal design molto ricercato e studiato nei minimi particolari. Per riassumere in un unico capo d’abbigliamento tutte le generazioni in cui It ha portato a termine il suo bisogno di sangue, la costumista Janie Bryant ha ideato una tuta sagomata che include contemporaneamente reminescenze medievali, rinascimentali, elisabettiane e vittoriane, con tanto di plissettatura fortuny che contribuisce a rendere ancora più barocco, e quindi enigmatico, per anacronia, tutto l’insieme.

Una sorta di “lasciate che i bambini vengano a me”, ma con un epilogo contrario al messaggio evangelico-cristiano. Pennywise rappresenta il baratro della paura più profonda, il buio denso dove ogni cosa può perdersi per sempre, persino la più pura delle innocenze. Il Male nel suo stato più beffardo: orditore di inganni, come il Diavolo delle leggende popolari. Una creatura mutaforma che vive del dolore e delle sofferenze altrui e si nutre di sangue innocente, non prima di averlo annegato nella paura più soffocante.

«Galleggerai quaggiù! Tutti galleggiamo quaggiù! Sì! Galleggiamo!»

A sorprendere piacevolmente, se così si può dire anche in un horror, sono anche le molte trasformazioni di It, ben bilanciate tra citazioni letterali del romanzo e nuove idee che scavano nell’immaginario collettivo. L’essere senza forma che vive nelle acque nere e che, come l’acqua per mostrarsi in forma tangibile assume le sembianze di qualsiasi recipiente che possa scatenare sgomento, la bestia che sopravvive nei secoli dei secoli grazie ad un tacito tributo di carne fresca, fornito da vittime innocenti, non è che la naturale evoluzione di un archetipo che ha origine nella notte dei tempi: non c’è bisogno di scomodare trattati di antropologia per riconoscervi la paura allo stato puro, quella che i primi uomini esorcizzavano disegnando nelle grotte, protetti dal fuoco. È scritto nel nostro stesso DNA. Basta solo che ciascuno di noi ricordi. Stephen King ha solo dato voce a quello che abbiamo vissuto, per diretta esperienza, figurata o reale che sia, e che torna virtualmente negli incubi notturni, quando siamo più fragili e indifesi. O nel buio di una sala, come ha fatto egregiamente Muschietti.

L’opera più corposa di Stephen King (1986) è diventata negli anni il prototipo di tutta una sequenza di storie, nella sua stessa bibliografia come in quella di altri scrittori e sceneggiatori successivi. Da Stand by me a Cuori in Atlantide, se si vuole rimanere tra le pagine kinghiane, da I Goonies al più vicino, per ordine di tempo e per le sue molte affinità, Stranger things, tutti hanno raccolto spunti a piene mani, imparando la lezione che una ricetta perfetta è il risultato di una successione di ingredienti ben ponderati e pesati.


Un pizzico di Goonies, una bella dose di Stand by me, tanto Nightmare on Elm Street e, per finire, una spolverata quanto basta di Stranger things e la ricetta per il successo del nuovo It è pronta, basta infornare in una grande sala buia, ben climatizzata e dall’audio avvolgente e aspettare solo che la storia faccia il suo corso. E che storia! Una rivisitazione della fiaba gotico-grottesca tipica dei Grimm con tanto di utilizzo del sottotesto allegorico: sono tantissime le allusioni ai rituali d’iniziazione, alla perdita dell’innocenza, alla crudeltà amorale dell’infanzia, ai patti di sangue e ai tributi e sacrifici ad una divinità latente. Ma se sono una presenza costante nel romanzo, non lo sono così tanto nel film, per non appesantirne troppo la fruizione, probabilmente. Alla luce di questo, per quanto sia entusiasta di It: Capitolo uno, rimango dell’opinione che, per mettere ben in evidenza questi interessanti aspetti nascosti del romanzo, la forma perfetta sia una serializzazione di più ampio respiro. Netflix, pensaci tu!

«Prenderò tutti voi e mi nutrirò della vostra carne come mi nutro delle vostre paure!»

Resta scritto negli annali, comunque, che il più famoso romanzo di King ha finalmente avuto il degnissimo adattamento che meritava, con buona pace dei fan più integralisti. La Warner Bros, dopo ben due defezioni che avrebbero potuto minarne alle fondamenta la progettazione, ha coraggiosamente affidato il film ad un regista emergente ed è stata ripagata davvero a peso d’oro. Andrés Muschietti, argentino di chiare origini italiane, aveva diretto in precedenza solo un altro film: La Madre, un horror-thriller ben giudicato dalla critica internazionale, che ha come protagonista la Jessica Chastain che, quasi sicuramente, interpreterà la Beverly adulta in It: Capitolo due.


Dopo l’enorme successo ottenuto da It: Capitolo uno, per Muschietti si vocifera già di un nuovo ambizioso progetto da tramutare in oro: la trasposizione live-action di Robotech, la risposta datata 1985 agli anime giapponesi della Tatsunoko, di genere sci-fi war, che ha per protagonista un’intera fanteria di giganteschi robot. Nell’attesa, analizziamo quello che è a tutti gli effetti da considerare il nuovo horror campione d’incassi della storia del cinema.

I sette “Perdenti” [“Losers” in originale, come si può notare dalla scritta sul gesso di Eddie] hanno ottimamente interpretato i loro ruoli coinvolgendo non poco un target molto ampio di spettatori. Jaeden Lieberher [Midnight special, St. Vincent] è BILL DENBROUGH, che non ha mai superato la scomparsa del fratellino Georgie, finita nelle fauci di It. Il chiacchierone dalle mille voci RICHIE TOZIER è interpretato da Finn Wolfhard [protagonista di Stranger Things], Jeremy Ray Taylor [42, Geostorm] è l’architetto in erba BEN HANSCOM; Jack Grazer [Tales of Halloween, e prossimamente Shazam!] invece è il cagionevole EDDIE KASPBRAK. A completare il cast Wyatt Oleff [Guardiani dellae Galassia] alias STANLEY URIS, Chosen Jacobs, ossia MIKE HANLON, e Sophia Lillis, attrice estremamente fotogenica che sembra già di un altro pianeta mentre interpreta il personaggio di BEVERLY MARSH, e ha ancora solo 15 anni.

Al momento non è stata annunciata ufficialmente la lista completa degli attori chiamati ad interpretare i teenager ormai divenuti adulti in It: Capitolo due. Vi terremo aggiornati!

Maze runner – La rivelazione, di Wes Ball

Giunge a conclusione la saga cinematografica di uno dei romanzi young adult più seguiti della decade in corso. Ambientata in un futuro distopico, l’opera di James Dashner è stata adattata per il grande schermo dalla 20th Century Fox. Per mantenere una coerenza concettuale, fondamentale per la buona riuscita della trasposizione, il progetto è stato portato avanti sempre dal regista Wes Ball, che per il momento è conosciuto solo per i film della saga. Ma il soddisfacente lavoro di adattamento gli ha permesso di ricevere l’offerta di dirigere un’altra traduzione dalle pagine sfogliate alle immagini in movimento: il graphic novel Fall of Gods, un progetto crowfunding, lanciato nell’autunno del 2014 dallo studio creativo danese MOOD Visuals, che narra le gesta di un guerriero in un’epoca di guerre in cui gli dei della mitologia norrena sono scomparsi. Questo significa che non dirigerà la saga-prequel di Maze runner, già prenotata dalla Fox? è presto per dirlo.
Intanto, sicuramente, continuerà l’ormai inesorabile scempio dei titoli – per chi non lo sapesse Maze runner in origine è il titolo solo del primo volume – e di alcuni elementi importanti della trama, tradotti in maniera improbabile per venire incontro al grande pubblico: la malvagia società W.I.C.K.E.D. diventa la C.A.T.T.I.V.O. nell’edizione italiana dei romanzi, ma per fortuna il film e, con grande coraggio, il doppiaggio italiano adotta il termine W.C.K.D. molto più performante. Grazie!

Tornando al presente, Maze runner – La rivelazione [titolo originale The Death Cure] è, come dicevamo, il terzo ed ultimo capitolo della saga originaria, lungamente atteso dai fan. In seguito al grave incidente occorso al protagonista Dylan O’Brien proprio sul set, infatti, l’uscita del film, prevista dalla produzione per il 17 febbraio 2017, è stata posticipata inizialmente al 12 gennaio 2018 e poi posticipata ancora al 26 Gennaio negli Stati Uniti e al 1° Febbraio in Italia. Giusto riconoscere la tempra di O’Brien attore che, alla luce di quanto avvenuto, risulta uno dei pochissimi personaggi stoici di un panorama cinematografico infarcito di bellini sempre più pompati ma sempre meno avvezzi agli sforzi atletici e ai rischi del mestiere. Applausi!

Nel nuovo film, le vicende di Thomas [Dylan O’Brien, American assassin, Deepwater – Inferno sull’oceano] e delle altre cavie umane sopravvissute al “parco esperimenti” della WCKD riprendono da dove si erano interrotte in Maze runner – La fuga. Teresa [Kaya Scodelario, Moon, Pirati dei Caraibi- La vendetta di Salazar] aveva tradito i suoi “compagni” di viaggio per tornare al suo lavoro dietro ai microscopi e aveva permesso la cattura di molti immuni fra cui Minho [Ki Hong Lee, Wish upon, The public].

Proprio da una missione di salvataggio on the road parte il nuovo e ultimo capitolo della saga. Si tratta proprio della scena di assalto al convoglio blindato, stile western postapocalittico, che ha spedito O’Brien in ospedale e il regista, furbescamente, se la gioca subito, pronti via, tirando notevolmente su il tasso adrenalinico e spedendo subito il cuore dello spettatore al centro del nuovo gruppo di ribelli del Braccio Destro.

«Il tuo problema è che non riesci a lasciarti alle spalle qualcuno. Nemmeno quando dovresti».

Sacrificabili e cavie umane, con la loro rabbia e il loro desiderio chi di rivalsa, chi di vendetta e chi di salvezza, diventano il nuovo problema della WCKD. Thomas e gli altri Radurai intendono andare alla fonte del problema. La missione impossibile è penetrare all’interno dell’ultima città rimasta in piedi, sede dell’organizzazione, per liberare Minho e gli altri e ottenere le risposte alle loro legittime domande sull’epidemia, gli esperimenti e il presunto antidoto. Verità o bugie che siano, si celano dietro un nuovo dedalo di strade e palazzi (Blade Runner style ma senza pioggia o neve) protetti da mura altissime (stile World War Z). Nel frattempo gli Spaccati non stanno di certo a lustrarsi i denti con il nastro adesivo! E se Thomas e gli altri possono trovare una faglia nella difesa della città, quanto potranno metterci degli zombie affamati a fare altrettanto? A chi spetterà il dominio sulla Terra alla fine dei giochi?

«Vorrei potervi dire che I guai sono finiti»

L’allusione sottile alle mura di confine di Trump con il Messico ha il sapore nostalgico di quel cinema di fantascienza che sapeva narrare una storia e contemporaneamente celare un messaggio sotteso a smuovere le coscienze in maniera recondita, basti pensare a Essi vivono o La cosa di John Carpenter o ai morti viventi di Romero. Rispolverare questa vena moralistica non sarebbe male.

Dal punto di vista tecnico, invece, non si può passare sotto silenzio il lens flare sotto le luci al neon nelle scene di massa in città: se può essere visto come una scelta stilistica in un esterno giorno tenendo il riflesso della luce solare sulla lente sotto controllo, in questo specifico caso, il flare suona proprio come un errore non rilevato in fase di ripresa e camuffato in postproduzione. Male.

Tornando alla storia, il primo capitolo, Maze runner – Il labirinto, proponeva riflessioni filosofiche sul mito del buon selvaggio e sulla bestialità insita nella natura umana, sull’istinto di conservazione della specie anche a scapito di sacrifici umani, sulla crescita degli adolescenti, sulla concezione della vita come un gioco crudele, come un labirinto difficile da risolvere che rappresenta sia la fitta trama di relazioni sociali sia la complessità della mente umana. Ma tutto questo si perde, neanche gradualmente, nell’inutile seguito Maze runner – La fuga, che praticamente non fa che menare il can per l’aia, indisponendo e non poco lo spettatore.
Questa caduta nel vuoto, però, giova a Maze runner – La rivelazione che risulta ben al di sopra delle aspettative, pur presentando difetti strutturali e tecnici palesi: nessuna necessità narrativa impellente giustifica l’abnorme durata; la sceneggiatura risulta scontata per colpa dei soliti cliché che il genere young adult volenti o nolenti si porta con sé, croce e delizia a seconda dei gusti (La quinta onda, Hunger Games); a parte un paio di svolte inaspettate che, però, sono colpi bassi al patto di credibilità con lo spettatore (per non spoilerare bisogna accontentarsi di un “chi non muore si rivede”!), la trama si dipana risolvendo problemi in maniera troppo facile e banale o con stratagemmi visti e rivisti.

Maze runner – La rivelazione ha, però, il merito di concludere dignitosamente una storia che ha comunque interessato e tenuto con il fiato sospeso e che in fin dei conti si distacca dalla tipica adesione degli young adult all’archetipico nucleo narrativo del boy meets girl per privilegiare lo splendore dell’amicizia, corredata da valori come lealtà, spirito di sacrificio, altruismo, comunione d’intenti e condivisione di qualsiasi sorte. Una rivalutazione di valori che tentano di risollevare le sorti della trilogia senza, però, spingersi mai verso un’epicità formale, a cui le generazioni che rappresentano il target fondamentale sarebbero probabilmente allergiche.

Nel cast molti attori che i fan di Game of Thrones conoscono benissimo: Thomas Brodie-Sangster è Newt, Aidan Gillen interpreta il perfido Janson e la bellissima Nathalie Emmanuel, già presente nel secondo capitolo, è Harriet. A completare il cast altri volti noti: oltre al nuovo personaggio di Lawrence, che Walton Goggins interpreta magnificamente inossando uno stupendo make up che lo rende quasi irriconoscibile, i veterani Barry Pepper, Giancarlo Esposito, Patricia Clarkson e la starlet Rosa Salazar (Brenda), che sarà la protagonista di Alita – Angelo della battaglia, trasposizione del famosissimo manga diretta da Robert Rodriguez.

Blade Runner 2049, di Denis Villeneuve

Chi siamo? Da dove veniamo? Cos’è la vita? Cosa ci rende “umani”? Qual è la fonte dei nostri ricordi? Che ruolo abbiamo nella vita del mondo? Quanto conta davvero la nostra volontà? Domande esistenziali fondamentali che difficilmente uno spettatore può trovare in un film che non sia un documentario estremamente soporifero! Chi conosce e ha apprezzato la densità di tematiche, riflessioni filosofico-religiose, allegorie e l’ambientazione distopico-paranoide del capolavoro di Ridley Scott, ritroverà in Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve tutto questo materiale declinato in maniera paradigmatica. Sviluppando e raffinando la trama fino ad ottenere la naturale evoluzione del precedente, il regista di Arrival e Prisoners remixa e attualizza per il nuovo target il profondo lavoro di Scott, pur mantenendo una rispettosa fedeltà allo spirito dell’originale. «Il mio obiettivo – ha confessato Villeneuve – era quello di onorare l’estetica da film noir del primo, pur dando al nuovo film una propria identità». Il connubio di noir, sci-fi e azione è riuscito alla perfezione lasciando comunque spazio alla riflessione. Per ogni domanda che trova una risposta, un’altra ne deriva che scaturisce nuovi percorsi meditativi. Da vedere e, soprattutto, rivedere per godere appieno della stratificazione delle tematiche.

Denis Villeneuve traduce divinamente la riflessione antropologica di Philip K. Dick in uno spettacolo sublime per forma e contenuto. Se Blade Runner è basato sull’archetipica figura collodiana del burattino che vuol far valere i propri diritti alla vita, in una rilettura che va ben oltre la scrittura sofisticatamente filosofica del più antico Frankenstein di Mary Shelley, per il seguito, intriso della visionarietà sentimentale di Villeneuve, bisogna scomodare in parte il complesso registro di personaggi racchiuso nei sapienti versi delle tragedie, con le loro leggendarie figure, mosse da emozioni forti e schiacciate dalla loro stessa piccolezza, dinnanzi ad un disegno di vita che l’altrui volere desidera diverso dalle proprie aspettative, lontano anni-luce dai sogni che li hanno spinti ora alle più alte vette della gloria ora sull’orlo dell’abisso senza possibilità di ritorno.

«Sognare un po’ non è sbagliato, non credi?»
«Per noi lo è»

Blade Runner 2049 ha rispettato l’universo creato da Ridley Scott e ha annodato ogni filo lasciato in sospeso dal predecessore ad una nuova ragnatela di sottotrame che ascendono a nobile rappresentazione dell’antica tendenza alla ricerca dell’identità, delle origini dell’amore nella sua forma più pura. Perché non può esserci futuro senza conoscere il passato o almeno non un futuro degno di essere vissuto senza un passato che ne giustifichi i meriti o possa correggerne i difetti.

Era il 1982 quando il Blade Runner di Ridley Scott vedeva la luce nella buia sala di un cinema. Nella Los Angeles del 2019, luogo e tempo in cui si svolgevano le vicende del film, pioveva e si respirava un’aria decadente, nonostante un’ambientazione distopica in cui la tecnologia sopperiva alle necessità quotidiane che la natura non riusciva più a soddisfare appieno. Alcuni androidi, soprannominati “replicanti” o in senso maggiormente dispregiativo “lavori in pelle” e costruiti per essere schiavi in colonie dell’extramondo, si erano ribellati e un agente speciale, Rick Deckard [Harrison Ford], doveva stanarli e terminarli. In Blade Runner 2049, di Denis Villeneuve, un nuovo cacciatore di replicanti, l’agente K [Ryan Gosling], ha il compito di… riportare lo spettatore laddove era stato lasciato: un origami a forma di unicorno innestava il seme del dubbio sulla natura di Deckard in un contesto in cui la ricerca della verità è diventata un labirinto di domande senza una risposta. Il labirinto permane anche nel nuovo capitolo con l’ulteriore difficoltà per l’agente K: il suo viaggio alla ricerca dei replicanti riporterà alla luce un segreto nascosto da tempo sotto un cumulo di terra morta. Un segreto che può cambiare il destino dell’intera umanità.

«L’umanità non può sopravvivere… La Terra sta morendo… i Replicanti sono il futuro della specie».

L’agente K [Ryan Gosling] non è immune alla crisi esistenziale che già aveva contagiato il cuore del collega Deckard [Harrison Ford]. Per il presunto bene dell’umanità fino a che punto ci si può spingere? Per mantenere un ordine arbitrariamente stabilito, quali crimini è lecito commettere? Vivendo in un mondo ingrigito dall’abuso tecnologico e dalla subordinazione della natura e dei sentimenti agli interessi economici e politici, camminando troppo spesso a cavallo dell’ipotetica linea che divide il Bene dal Male, il bianco dal nero, la luce dalle tenebre, i personaggi di Blade Runner 2049 devono fare i conti più che altro con la propria coscienza e quell’innata predisposizione che ci spinge a scegliere da che parte stare della Forza, per dirla come la direbbe Lucas.

Il 5 Ottobre 2017 – il 6 negli U.S.A. – è uscito nelle sale, attesissimo, Blade Runner 2049. Un sequel di un classico intramontabile, si sa, fa sempre discutere, specialmente se l’originale è da sempre considerato uno dei migliori film di fantascienza che siano mai stati prodotti. L’opinione pubblica ha accolto la notizia dividendosi come in un preparativo di guerra fra pro e contro, se non addirittura fra delusi a prescindere e rassegnati al peggio. Non delude le aspettative, invece, il film di Villeneuve, anzi gioca con esse, divertendosi a gettare arbitrariamente luci ed ombre sui personaggi, senza sciogliere definitivamente i nodi cruciali che li legano gli uni agli altri. Non è rimasto deluso nemmeno Ridley Scott – che non ha diretto ma ha prodotto la pellicola – e, consapevole delle notevoli capacità autoriali del collega, gli ha concesso la totale libertà creativa e fornito la piena disponibilità in caso di bisogno.

In 35 anni di attesa, e parafrasando goliardicamente il monologo del replicante Roy, ne abbiamo viste “cose” che sembrava dovessero scalzare di classifica uno dei migliori film di fantascienza di sempre: robot da combattimento in fiamme uscire dallo schermo grazie agli occhialini 3D, e abbiamo visto serie tv e sequel di film altisonanti balenare dal buio e spiaggiarsi davanti al monumento funebre di Ray Harryhausen. E tutti quei momenti è giusto che vadano perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di iniziare un nuovo percorso per il pubblico esigente di Blade Runner, ed è tempo di affidarsi completamente al fascino del sequel, consapevoli della competenza e del coraggio di Denis Villeneuve, un regista che sa coinvolgere oltre che intrattenere e non è nuovo nel trattamento di sceneggiature filosoficamente complesse con risvolti sentimentali nono scontati. Per giunta candidato agli Oscar® nel 2011 con La donna che canta come Miglior film straniero e nel 2017 per la Miglior regista con Arrival. Di certo non una seconda scelta!

«Cazzo! Ma sono l’unica a vedere l’alba?»

A dimostrazione del desiderio di connubio perfetto fra vecchio e nuovo che è alla base di questo ambizioso progetto, la sceneggiatura di Blade Runner 2049 è stata scritta da Michael Green, autore dei recenti successi Alien: Covenant e Logan – The Wolverine, con la partecipazione indispensabile di Hampton Fancher, cioè l’ideatore del soggetto originale del 1982. Lo stesso Fancher ha firmato le sceneggiature dei cortometraggi che hanno “scaldato” i fan nei mesi precedenti l’uscita del film. Villeneuve ha, infatti, delegato a tre cortometraggi di sviluppare alcuni eventi importanti intercorsi nel tempo filmico tra i due lungometraggi:

il primo in ordine di uscita, intitolato 2036: Nexus Dawn, è diretto da Luke Scott e presenta il carismatico nuovo guru della cybertechnology Niander Wallace, interpretato egregiamente da Jared Leto;

un secondo cortometraggio, diretto sempre da Luke Scott e intitolato 2048 Nowhere To Run, si concentra sul personaggio di Sapper Morton, interpretato da Dave Bautista;

il terzo cortometraggio, Black Out 2022, invece, è un fondamentale prequel di animazione diretto da Shinichirô Watanabe che permette di capire cosa ha accentuato il degrado nella Los Angeles distopica del film e ha permesso la riapertura della produzione di replicanti e la conseguente ascesa di Wallace, trattata nel primo cortometraggio.

Per quanto riguarda la fotografia, il regista si è avvalso di un collaboratore di cui ha già apprezzato composizione, esposizione e sensibilità cromatica in precedenti lavori come Prisoners e Sicario: si tratta del 13 volte nominato agli Oscar® Roger Deakins [Le ali della libertà, Ave, Cesare!]. Anche se non faceva parte della crew di Arrival, Deakins ricostruisce benissimo quel mood fotografico dettato dal grigio dominante. Questa base di decadente quotidianità trova netti contrasti nelle scene che si svolgono in interni e, soprattutto, nella città morta, dove il cromatismo tematico che guida tutto il film si fa più forte.  Come in un percorso iniziatico, il protagonista viaggia attraverso luoghi fortemente caratterizzati e passa dall’indaco dell’incipit al rosso dell’ultima parte con un epilogo legato al bianco della neve che, nel 2049 ha sostituito la pioggia costante che fungeva da leitmotiv nella Los Angeles del 2019. La composizione dei fotogrammi rispolvera l’omaggio a Edward Hopper dell’originale ma preferisce un vintage revival più contemporaneo con riferimenti alla pop-art e al dadaismo rispetto al citazionismo vermeeriano-fiammingo di Blade Runner. Quando, poi, cita La finestra sul cortile [Rear window] di Alfred Hitchcock è forte il desiderio di disturbare la visione del film con un applauso a scena aperta!

«Sono tutto quello che vuoi. JOi. Tutto quello che vuoi sentire. Tutto quello che vuoi vedere».

L’editing, non troppo complesso da seguire, è molto vicino al modello del cinema classico americano. Una scelta saggia, probabilmente per non appesantire ulteriormente la comprensione, viste le notevoli incursioni nella filosofia postumana e nelle riflessioni antropologiche sulla vita e sul trascendente. È affidato ad un altro habitué della crew di Villeneuve, il Joe Walker di Sicario e Arrival. A capo del reparto scenografico, un esperto dalla vena creativa molto caratterizzata sul visionario, Dennis Gassner [Big fish – Le storie di una vita incredibile, The Truman Show], premio Oscar® per Bugsy.

Delle scenografie, tutte memorabili – dal casino con il teatro dove possono esibirsi all’infinito icone pop come Elvis Presley o Marilyn Monroe, o il bar con vista panoramica dove un juke-box proietta l’ologramma di Frank Sinatra, all’immensa discarica che nasconde un ingente numero di suggestive fornaci, dalle serre di periferia alla città inscatolata in forme regolarissime che velano un sottostrato di quartieri dominato dalle solite luci ai neon delle incombenti quanto illusorie pubblicità – ma una è quella che rimane maggiormente scolpita nella memoria: le megalitiche statue femminili in posizioni dall’evidente erotismo in una Las Vegas in cui tutto è semisommerso da un deserto di matrice apocalittica.

«Stiamo tutti cercando qualcosa di reale».

I costumi non presentano niente di troppo futuristico ma sono comunque fortemente caratterizzati. Molto curato il make up, invece. La stessa cura offerta dal reparto effetti visivi. Laddove possibile, la squadra di realizzatori ha evitato di usare la CGI e i green screen a favore di un’interpretazione emotivamente verosimile delle reazioni dei personaggi. Tutti gli attori sono risultati ben all’altezza della situazione. Un cast davvero eccellente.

Blade Runner 2049 ha per protagonista Ryan Gosling [The nice guys, La La Land] e un cast che comprende Dave Bautista [I guardiani della galassia, Spectre], il premio Oscar® Jared Leto [Suicide Squad, Mr. Nobody, Dallas Buyers Club], Mackenzie Davis [Sopravvissuto – The martian, Breath in], Robin Wright [Wonder Woman, Everest], Sylvia Hoeks [La migliore offerta], Ana de Armas [Knock Knock, Trafficanti] e i camei di alcuni attori del primo capitolo, uno su tutti Edward James Olmos [Cani sciolti, La forza della volontà], che interpretava il fondamentale personaggio di Gaff, anche stavolta tanto estremamente importante quanto mai laconico con i suoi origami velatamente esplicativi. Di certo non poteva mancare all’appello chi ha reso immortale Blade runner nel 1982, Harrison Ford [Star Wars: Il risveglio della Forza, Adaline – L’eterna giovinezza], che riprende uno dei tre ruoli che l’hanno reso una celebrità cult, quello del cacciatore di replicanti Rick Deckard (per quanto raffinato, le icone pop Han Solo e Indiana Jones non saranno mai superabili).

Significativa anche la musica. Ormai è assodato che la colonna sonora è da considerare un’ulteriore cifra stilistica di Villeneuve. Già Blade Runner, a suo tempo, aveva puntato molto sulle suggestive musiche di Vangelis, che aveva appena ottenuto l’Oscar® per Momenti di gloria. Per Blade Runner 2049, il regista, come già accaduto in Arrival, per la musica extradiegetica sceglie una partitura minimal cui possano legarsi i rumori e i suoni diegetici, in modo da costruire un ponte virtuale fra la realtà filmica e lo spaziotempo della fruizione spettatore. In aggiunta Villeneuve sceglie di legare all’agente K una musica particolare, il tema del protagonista di Pierino e il lupo, l’opera di Sergej Prokof’ev.

L’insistenza nell’utilizzo di questo quartetto d’archi suggerisce di approfondirne le motivazioni. Si tratta di un parallelismo che magari non genererà le stesse elucubrazioni mentali dell’unicorno della famosa Director’s Cut, ma che può sicuramente tener banco almeno fino al prossimo capitolo: la fiaba sinfonica concepita per intrattenere l’infanzia nasconde, in realtà, ben sottotraccia, un inneggiamento alla ribellione nei confronti della dittatura staliniana. Risulta evidente, quindi, il parallelismo con la condizione dei replicanti, ribellatisi al controllo dei loro padroni. Meno palese il relativo ruolo che assumerebbero alcuni personaggi secondo questa ipotesi, e questo è un altro punto a favore dell’imprevedibilità della trama e della stratificazione delle tematiche.

«Non avete visto un miracolo»

Di tematiche in Blade Runner 2049 è possibile rilevarne un gran numero. Senza scendere nei dettagli è possibile radunarne alcune in un elenco, giusto per confermare l’altitudine del progetto. Permangono il tema del doppio che può essere inteso come lettura tipologica dei personaggi o anche vera e propria replica o simulacro – che, se vogliamo andare per il sottile, è simulacro di un simulacro –,   quello della ricerca dell’identità che diventa anche ricerca del trascendente fino a stimolare interpretazioni di matrice messianica e il tema del ricordo che va declinato in ogni caso, dal ricordo che diventa sogno e viceversa all’evento che si vuole rendere indimenticabile fino al desiderio di fare qualcosa di leggendario che rimanga impresso nelle memorie altrui. Tutti temi mutuati dal primo capitolo,  condensabili in un elemento particolare, ossessivamente utilizzato da entrambi i film, l’occhio. Oltre ad intrecciare il romanzo di Dick a 1984 di George Orwel, l’occhio assume una valenza simbolico-religiosa quasi universale e trasmette qualcosa che le linee di dialogo non dicono: il test di controllo dei replicanti, ad esempio, avviene tramite la pupilla, mentre Wallace ne è privo e per sopperire alla sua cecità si serve di alcuni “occhi” volanti che non sono altro che le miniature dei “gusci” che Villeneuve ha usato come astronavi in Arrival. Sarà nato prima l’uovo o la gallina?

«In ogni opera un artista mette una parte di sé».

I “gusci” che Villeneuve impianta in Blade Runner 2049 non sono l’unico elemento della sua poetica a frapporsi nelle maglie di una ragnatela già particolarmente fitta. I temi della memoria, dell’interpretazione, dell’amore genitoriale, del miracolo della vita e del destino di morte fanno di Arrival un gemello semi-identico di Blade Runner 2049 con quel grigio molto insistito che diventa colore simbolo dell’umanità, ottenuto com’è dalla rappresentazione di Yin e Yang, un contrasto fortissimo da molti visto come manicheo, ma che ad un osservatore non superficiale apparirà come l’armonia di opposti che è uno degli archè studiati dai filosofi dell’età classica: qualunque ruota bianca e nera sui faccia girare, fosse anche quella della vita, è un grigio che si otterrà.

«Le ha dato un nome, deve essere speciale»

Per tirare delle conclusioni, Blade Runner 2049 è un percorso iniziatico che va dal sacrificio dell’innocenza all’ammissione in una società ulteriore passando per la conoscenza di grandi segreti? È frutto del desiderio di essere speciale, di potersi elevare al di sopra degli altri e della propria condizione iniziale, di sentirsi per la prima volta vivi, di essere amati e poter amare liberamente? È la storia di scelte sofferte e destini ineluttabili? È la lotta dell’emarginato, dell’estraneo, del diverso, considerato al pari di un mostro da cui tutti debbano sentirsi minacciati? Durante il suo cameo Gaff crea un nuovo origami per K, a forma di pecora; cosa gli avrà voluto dire?

È tutto questo? Niente di tutto questo? È nella natura stessa del racconto di Dick Ma gli androidi sognano pecore elettriche? fornire spunti di riflessione pressoché infiniti senza fornire chiavi di lettura univoche. Perciò sta allo spettatore trarre o meno le debite conclusioni, poter riflettere a margine e discutere a tuttotondo fino a perdere di vista il punto di partenza, ma quello che è certo è che l’enigmatico progetto portato avanti dalle geniali menti di Scott e Villeneuve non andrà perduto come lacrime nella… neve!

«Non ho mai ritirato qualcosa di “nato”».

Nota curiosa a margine.
Nel frattempo è stato ufficialmente annunciato il progetto di riportare nelle sale cinematografiche un altro grande classico della fantascienza: Dune, il romanzo epic sci-fi che ha ispirato Guerre Stellari e che è già stato portato sul grande schermo da David Lynch nel 1984. Denis Villeneuve sarà il regista di questo remake o reboot, a seconda di come vorrà sviluppare l’ampio materiale a disposizione. Un altro compito estremamente delicato per il regista canadese, che si dovrà di nuovo confrontare con le attese dei moltissimi appassionati della saga.

Valerian e la città dei mille pianeti, di Luc Besson

Sono stati necessari più di dieci anni di lavorazione per realizzarlo, ma Valerian e la città dei mille pianeti, non tradisce le aspettative, neanche quelle del suo fan più esigente: il regista stesso. Sì, perché il nuovo film di Luc Besson, adattamento cinematografico della serie sci-fi a fumetti Valérian et Laureline, ideata dallo scrittore Pierre Christin e illustrata dal disegnatore Jean-Claude Mézières, è stato progettato per far conoscere al grande pubblico un’opera in 22 volumi che dal 1967 al 2010 ha ispirato e continua a influenzare la narrativa di fantascienza di ogni settore.

«Siediti, rilassati e goditi lo spettacolo»

2174. il maggiore Valerian ed il sergente Laureline sono due agenti speciali incaricati di mantenere l’ordine nell’universo. I migliori. L’uno [Dane DeHaan; Chronicle, La cura del benessere] è un soldato valoroso, anche se un po’ approssimativo e svogliato quando si tratta di procedure e regole d’ingaggio, libertino in amore, ha paura solo d’impegnarsi sentimentalmente, cosa che, ovviamente, non è gradita alla sua partner, con la quale ha in piedi una relazione. L’altra [Cara Delevingne; Suicide Squad, Città di carta] è una stratega eccezionale dal temperamento burrascoso, ligia al dovere e ben ferma nelle proprie convinzioni. Il loro rapporto non è, però, la trama principale del film. La loro missione è recuperare un oggetto preziosissimo, l’ultimo trasmutatore esistente, e consegnarlo al comandante Arün Filitt [Clive Owen, Inside man, I figli degli uomini] sulla stazione orbitante Alpha. Scesi dall’Intruder, la loro astronave-factotum, s’imbattono, però, in un difficile intrigo che ha a che fare con una minacciosa Red Zone che, dal nucleo di Alpha, si allarga come un tumore destinato a distruggere la stazione stessa e tutto ciò che essa rappresenti per l’intero universo.

«Chi sapeva è stato ucciso».

Conosciuta come “la città dei mille pianeti”, Alpha è una megalopoli in continua espansione, in cui vivono migliaia di specie provenienti da galassie diverse, anche distrutte dal tempo o dalle guerre. È un vero e proprio cluster intergalattico la cui silente storia è tracciata durante i titoli di testa, accompagnati “soltanto” dal brano Space oddity di David Bowie, che rappresenta non solo un sentito omaggio al camaleontico cantautore britannico e ai suoi futuristici alter ego, ma anche un forte intento di caratterizzazione della stazione orbitante come punto di riferimento privilegiato per ogni pioniere dello spazio e come simbolo supremo di condivisione, unità, fratellanza e pace tra popoli. Questo incipit, molto curato sotto ogni punto di vista, ha la particolarità tecnica di abbinare le immagini del passato con l’aspect ratio tipica dell’epoca (immagini di repertorio in 4:3 per la storica sequenza dell’incontro fra la navicella americana Apollo e la sovietica Soyuz nel 1975; formato 16:9 per la sequenza a episodi che parte dal 2020; fullscreen quando si arriva al 2150).


Il messaggio stesso che è alla base di Valerian e la città dei mille pianeti è veicolato da Alpha che «raccoglie tutta la conoscenza dell’universo – spiega Besson – c’è Wall Street, la Città della Scienza, le Nazioni Unite, Broadway. C’è tutto. E questo la rende il luogo più importante dell’intero universo, dove tutte le razze s’incontrano, portano conoscenza e condividono culture da ogni parte, ma soprattutto hanno imparato a convivere. Se alcuni credono che sia complicato vivere accanto a cinesi o afroamericani, che ne penseranno dei miei alieni? Un proverbio che amo dice “puoi scuotere un albero quanto vuoi, se il frutto non è maturo non cadrà”. Quello che possiamo fare noi artisti è inserire idee qua e là, sta poi al pubblico coglierle. Con i miei cinque figli mi comporto nello stesso modo, cerco di stimolare la loro ricettività».

Insomma, per Besson vale lo stesso concetto che muove i personaggi di Inception di Christopher Nolan: piantare semi di idee nel subconscio dello spettatore stimolando la sua ricettività in maniera implicita. E questa non è l’unica analogia possibile tra i due autori. Entrambi, infatti, lavorano meticolosamente ad un film anche per moltissimo tempo, soprattutto in fase di preproduzione e amano circondarsi di una crew ampiamente collaudata e affiatata, “famigliare” se consideriamo che per loro le figure di moglie e produttrice coincidono perfettamente. Oltre a lei, Virginie Besson-Silla [Lucy, Revolver], Besson si è avvalso di un team di collaboratori storici come il direttore della fotografia Thierry Arbogast [Lucy, Il quinto elemento], il compositore premio Oscar® Alexandre Desplat [Grand Budapest Hotel, The imitation game], lo scenografo Hugues Tissandier [Lucy, Taken], il montatore Julien Rey [Lucy, Cose nostre – Malavita], il costumista Olivier Bériot [Lucy, Taken] e il supervisore degli effetti speciali visivi, il premio Oscar® Scott Stokdyk [gli Spider-man di Sam Raimi, Il grande e potente Oz, La quinta onda].

«Visivamente è un film mozzafiato – ha dichiarato Cara Delevingne – il pubblico sarà travolto da tutti i personaggi che vede. La quantità di sforzi che sono stati compiuti in ogni singolo aspetto – i costumi, il design, l’arte – hanno dato vita a un film incredibile».

Rispetto ai film precedenti Valerian e la città dei mille pianeti è un progetto molto più personale per Luc Besson, tanto da volerlo dedicare al padre, venuto a mancare durante il periodo di lavorazione: «perché è lui che mi ha dato il fumetto a dieci anni». L’idea di trarre un film dal fumetto Valérian et Laureline è nata fin dai tempi della collaborazione tra il regista e uno dei suoi autori, Jean-Claude Mézières, per la realizzazione del mondo visionario in cui si svolge l’azione de Il quinto elemento.

Per poter ideare le migliaia di specie aliene diverse necessarie per Valerian e la città dei mille pianeti Luc Besson ha iniziato sei anni fa a mandare mail ad artisti in giro per il mondo, senza rendere noto né il titolo del film né di cosa trattasse né, ovviamente, che fosse lui a dirigerlo. «Abbiamo chiesto di mandarci disegni di un alieno, di una nave spaziale e di un mondo. Ci sono arrivate circa seimila proposte, da queste ne abbiamo selezionate venti, sei dei quali hanno lavorato con me personalmente per sviluppare altro materiale. Gli ho dato una lista con descrizioni molto vaghe e poi ho permesso loro di creare in libertà per mesi. Hanno prodotto materiale incredibile, io alla fine ho solo dovuto scegliere i pezzi più adatti per comporre il mio puzzle. Il livello di creatività che ho ottenuto dando loro libertà, non ponendo schemi o confini, è stato semplicemente pazzesco».

Alla fine di queste libere fasi creative, è stato necessario un lento e accurato processo di finalizzazione per adattare tutto il materiale artistico in uno stile unico, quello molto ben caratterizzato e inconfondibile di Luc Besson.«Sarà il percorso più breve ma non è certo il più semplice»

Ispirandosi all’artista di videogame Yoji Shinkawa e al famosissimo disegnatore francese Mobius, l’artista concettuale Ben Mauro [Lucy, The Great Wall] ha basato le sue specie spaziali sulla fisiologia degli animali: «Una volta che hai capito come funziona la biologia, prendi queste leggi fondamentali e le trasformi in qualcosa di completamente diverso. Alcuni alieni del film sono basati su rinoceronti o elefanti. Li studi nel loro ambiente naturale e pensi a come ottenere qualcosa di strano e insolito… mantenendo quel qualcosa che li rende familiari».

In un turbinio di colori, di oggetti futuristici ed elementi disseminati ad arte per favorire il desiderio di una o più visioni successive gli artisti concettuali che hanno lavorato al film hanno creato un fantastico bestiario: dai Doghan Daguis – una rivisitazione deformata di Qui, Quo, Qua – agli organismi acquatici che sembrano disegnati dalle parole di Jules Verne; dai mastodontici bromosauri alle meduse mylea; dal criminale alieno Igon Siruss – che nella versione originale ha la voce di John Goodman [10 Cloverfield Lane, The artist, Kong: Skull Island, Argo, Boston – Caccia all’uomo] – ai freddi e spietati K-Tron.

Le inquadrature sono spesso affollate di creature che si vedono anche solo per un attimo: il Grande Mercato sul pianeta Kirian, che ricorda moltissimo il pianeta Naboo di Star wars; le strade e le architetture della stazione Alpha che citano Blade runner e, di nuovo, Star wars ma la trilogia originaria con un inseguimento all’esterno tra corridoi angusti su navicelle ultraveloci – non vi ricorda qualcosa? Vedere per credere.
Le citazioni cinematografiche di Valerian e la città dei mille pianeti non sono finite qui, ovviamente, trattandosi di un maestro del postmodernismo: senza scendere troppo nella pedanteria da nerd o da otaku, mi limito a segnalare una sala riunioni in cui i sedili sono a forma di monoliti neri di kubrickiana memoria; il saluto che Laureline rivolge al maggiore Gibson è tratto da Plan 9 from Outer Space (del 1959, regia di Edward D. Wood Jr.), un supercult per veri appassionati; uno skyjet monoposto che ricorda la moto di Tron ma viaggia seguendo le “traiettorie” di decoupage del miglior George Lucas, di nuovo; non poteva mancare nemmeno un rimando alle fantasie di Philip K. Dick e quindi ecco gli interni in cui dominano i contrasti scenografici con ambienti naturali in luoghi artificiali come nelle trasposizioni di Total recall e gli esterni notturni pieni di insegne al neon e macchine volanti come in Blade runner.

A buona ragione Rutger Hauer, che interpretava il replicante Roy nel film del 1982, è stato coinvolto nel progetto da Luc Besson per un cameo di prestigio con tanto di monologo di fondamentale importanza per il setting del film, che non diventerà un cult come il celebre «Io ne ho viste cose che voi umani…», ma sa scaldare ad hoc il pubblico con il suo grande carisma.
Molto suggestiva e raffinatissima è poi la citazione di uno dei massimi capolavori del cinema francese degli anni ’30, L’Atalante di Jean Vigo: come Jean, il protagonista di quel classico, si tuffa nel fiume per verificare la credenza secondo cui nell’acqua si vede il volto della persona amata (e così accade grazie ad una delle prime sovraimpressioni della storia), così Laureline può “vedere” per osmosi, attraverso il fluido corporeo di una medusa mylea, dove si trova il partner disperso. Una vera chicca per cinefili!

«Voglio una spiaggia!»

Una menzione particolare, infine, va inserita per un riferimento che va ben oltre il gioco di ammiccamenti al fanatico di fantascienza. Oltre al comune desiderio di pace e tranquillità rappresentato dal sogno di una spiaggia incontaminata da parte dei protagonisti maschili, in Valerian e la città dei mille pianeti sono presenti alcune tematiche che sono già state analizzate dalla mente geniale di Terry Gilliam e rielaborate sottoforma di riflessione visionario-filosofica in The Zero Theorem. La virtualità, prima di tutto, è rappresentata in maniera differente dai due registi ma risulta simile la riflessione sul contrasto tra verità presunta e finzione latente ma, soprattutto, la funzione metacinematografica che assume nel momento in cui lo spettatore viene coinvolto in prima persona con sparatorie da gamer in soggettiva o con la stuzzicante performance di trasformismo mimetico della glampod Bubble, interpretata egregiamente da Rihanna [Battleship, Home]. Questa tentazione erotica virtuale ricorda moltissimo quella operata dalla cyberfatina Bainsley ai danni di Qohen Leth nel film di Gilliam, ma lo spettacolo della cantante, come in un Moulin rouge all’ennesima potenza, calamita l’attenzione e diventa un cult da vedere e rivedere all’infinito… e oltre!

Rihanna firma, così, di diritto il voluminoso guestbook delle protagoniste femminili di Luc Besson, pur avendo un ruolo secondario nella trama di Valerian e la città dei mille pianeti e si va ad inserire in un firmamento di stelle che il regista ha contribuito a trasformare in fenomeni del glamour: Milla Jovovic, Natalie Portman, Scarlet Johansson e, da ultima, l’astro nascente Cara Delevingne, che dalle passerelle dell’alta moda è passata con nonchalance sul grande schermo. Come la Jovovic ne Il quinto elemento, Cara ha il phisique du role per indossare un vestiario da applausi a scena aperta, dei costumi stupendamenti assurdi che ben si abbinano alla sua bellezza sofisticata.

«Hai ragione. È uno schianto!»

La popstar Rihanna non è l’unica ospite estirpata dal panorama musicale mondiale. Ad interpretare il Ministro della Difesa è stato chiamato nientepopodimenoché Herbie Hancock, una leggenda del jazz, che ha saputo dire la sua anche nel fusion, nel funk e nell’elettronica a cui va aggiunto il cantante cinese naturalizzato canadese Kris Wu, un volto conosciuto per il target adolescenziale. La partecipazione di cotante ugole famosissime potrebbe aver contribuito a ben disporre i Beatles superstiti ad accordarsi per l’utilizzo della canzone Because nel trailer ufficiale del film. Una concessione senza precedenti. «Ho scoperto in seguito che Paul McCartney è un grande fan della fantascienza, penso ci sia stato un pizzico di fortuna quindi» ha poi spiegato Besson.

Una curiosità a margine, i cammei di alcuni cineasti francesi, amici del regista, in ruoli di ufficiali dell’esercito di Alpha: sono Louis Letterier de L’incredibile Hulk, Olivier Megaton autore di Taken 2 e Benoît Jacquot di Addio, mia regina. Segno evidente di una produttiva relazione professionale senza invidie, segno di una cinematografia in salute che sa creare ogni anno prodotti di eccellente fattura.

Alla luce di tutto questo, Valerian e la città dei mille pianeti è un film meraviglioso in cui la tecnologia 3D diventa un valore aggiunto che amplifica notevolmente le emozioni. Un’indimenticabile spettacolo che sa risvegliare il bambino interiore che è dentro ognuno di noi. Un fantasmagorico caleidoscopio sognante in perfetta armonia fra avventura spaziale e fiaba ecologico-morale.

«Il tempo vola quando ci si diverte»

Dunkirk, di Christopher Nolan

Il rigore stilistico di Christopher Nolan si confronta con un genere inedito per la sua filmografia: con Dunkirk il cinema di guerra viene smontato e riassemblato in un thriller magistrale, un prodotto originale che trascende la classificazione stessa di genere, interessando ogni tipologia di spettatore, mantenendo fede, sempre e comunque, ai marchi di fabbrica della famiglia Nolan, alle cifre stilistiche e alla poetica ormai consolidata di un autore che sa strabiliare con qualsiasi progetto.

In Dunkirk ogni storia ha il suo epilogo predestinato come da copione storiografico, ma i sentieri vitali dei suoi personaggi s’intrecciano fino a coinvolgersi, concatenarsi e annodarsi in modo che il destino dell’uno dipenda dalla sorte dell’altro in un crescendo di suspense ritmato dal ticchettìo di un meccanismo ad orologeria, il suono ideale di una sceneggiatura perfetta. Partiamo proprio da quel filo conduttore sonoro, una registrazione dall’orologio sincronizzato dello stesso Nolan, sapientemente mescolato da Hans Zimmer [Interstellar, Il cavaliere oscuro, Inception] con i rumori dei motori delle barche e dei velivoli autentici catturati dal vivo sul set. «L’energia dell’insieme è pazzesca!» esclama il montatore Lee Smith [The Prestige]. La colonna sonora, poi, è arricchita dall’adattamento, elaborato da Zimmer su suggerimento del regista, del tema crescente “Nimrod” di Edward Elgar che, secondo Nolan, è «amato dagli inglesi quanto la storia di Dunkirk stessa».

Ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale durante la leggendaria Operazione Dynamo che doveva portare in salvo i 400 mila soldati in ritirata, braccati dai nazisti e bloccati sulle coste francesi a 10km dal confine con il Belgio. Seguendo uno stile ormai ben formato, Nolan propone un montaggio non lineare, o meglio un intreccio che segue più linee narrative, montate in maniera tale da dilatare o accorciare a proprio piacimento i tempi narrativi. Giocare con il tempo è uno dei marchi della sua filmografia, ma stavolta si sfiora la perfezione: i personaggi si muovono su tre scenari diversi legati indissolubilmente all’elemento naturale che rappresenta il loro sfondo – l’aria, dominata dagli Spitfire in lotta contro il tempo per difendere la fuga degli uomini intrappolati sulla spiaggia o sulle navi disponibili a tentare l’impresa impossibile – mentre il fuoco, degli aerei, dei fucili e dei sottomarini, divide e sottolinea i gesti epici.


-Bravi!
-Siamo solo sopravvissuti
-È abbastanza. Ben fatto!

Quando Dunkirk inizia, lo schermo sparisce e hai la netta sensazione di sentirti abbracciare il cuore da emozioni avvolgenti, che però non arrivano dirette, ma prendono strade tortuose e per questo più interessanti da scoprire. Si tratta di un altro espediente, ormai classico, del regista, mai diretto, mai scontato, che spinge lo spettatore a tenere viva l’attenzione sul particolare, in tensione dall’inizio alla fine per svelare l’enigma, per risolvere ogni mistero e vivere un’avventura, come del resto è giusto che sia in una sala cinematografica.

Non manca di certo nemmeno un’immersione profonda nel tema del doppio che, come da filmografia, è basato su una divisione per niente manichea tra il Bene e il Male, come accadeva per i protagonisti di The Prestige, di Insomnia o Inception. Un evidente parallelismo con The Prestige, poi, si può notare nel finale, quando gli elmetti sulla spiaggia di Durkirk, riecheggiano la moltitudine di lampadine, cappelli e vasche del film sui prestigiatori e sul costo umano della loro guerra.

«È stato un momento fondamentale per la Seconda Guerra Mondiale. Se l’evacuazione non fosse andata a buon fine, la Gran Bretagna sarebbe stata costretta ad arrendersi. Il successo permise a Churchill di imporre l’idea di una vittoria morale e di galvanizzare le truppe. Se dal punto di vista militare è stata una disfatta, sul piano umano è stato un successo colossale». Un momento fondamentale della Storia che Nolan racconta quasi esclusivamente per immagini – spettacolari, sotto ogni punto di vista, e senza ricorrere alla CGI, sotto la supervisione di Hoyte Van Hoytema [Interstellar] – lasciando uno spazio esiguo ai dialoghi che risultano ridotti all’osso ma sicuramente intensi, affidati a Kenneth Branagh [Jack Ryan – L’iniziazione, Hamlet, Frankenstein di Mary Shelley], Mark Rylance [Il ponte delle spie], Cillian Murphy [Batman Begins, Inception, Il cavaliere oscuro] e Tom Hardy [Mad Max: Fury Road, Revenant – Redivivo, Locke].

«Ho passato molto tempo a vedere e rivedere molti film muti – ha rivelato il regista – in particolare Rapacità, Intolerance e Aurora, per studiare le scene di massa, il modo in cui si muovono le comparse, come è sfruttato lo spazio, i punti di vista usati». Gran parte dei 400 mila soldati bloccati sulla spiaggia erano dei ragazzi giovanissimi, praticamente dei bambini trascinati a forza in un inferno di fuoco. Per trasmettere al pubblico il loro disorientamento, Nolan ha scritturato «attori giovan e freschi, senza un curriculum particolarmente ampio alle spalle, in modo che gli spettatori potessero immergersi completamente nel film senza riconoscere personaggi famosi». Giovani leve da affiancare ai suddetti “mostri sacri”. Unico strappo alla regola Harry Styles degli One Direction.

Durkirk non è solo un film. È un monumento alla determinazione dell’uomo, quella determinazione dettata dall’istinto di sopravvivenza e dalla voglia di rivalsa, nonchè una bandiera della solidarietà, del coraggio e del senso di unità di un’intera nazione. Spettacolare. Monumentale. Magistrale.