Tom Hanks

The Circle, di James Ponsoldt

Se non lo condividi non è mai accaduto. Che sia un evento speciale o un giorno come un altro, ogni istante della tua vita vale la pena di essere immortalato, incorniciato da un commento ammiccante e pubblicato sui social network per raggiungere quante più persone e consensi possibile. Se non lo fai o hai una vita troppo noiosa da nascondere o peggio stai egoisticamente privando qualcuno di un’esperienza che altrimenti non potrebbe vivere mai. E no, non è una puntata di Black Mirror o il racconto di un futuro distopico, ma la realtà del nostro secolo, la dittatura di Facebook, Instagram, Twitter, che hanno lentamente preso il controllo delle nostre vite con la promessa di annullare le distanze e rendere la comunicazione più semplice.

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Il principio su cui si basa The Circle è essenzialmente lo stesso: l’utopia di una società trasparente in cui la privacy è completamente annullata in virtù di una vita più sana, produttiva e sicura. Dopo tutto chi non mostrerebbe una versione migliore di se stesso se sapesse di essere osservato 24 ore al giorno? La teoria del fondatore della società Eamon Bailey (Tom Hanks) non fa una piega, ed è talmente convincente da persuadere anche la nuova assunta Mae (Emma Watson) a rinunciare totalmente alla propria privacy per vivere la sua vita in un regime di trasparenza assoluta. Catapultata dalla provincia nella la più grande azienda di tecnologia e social media del mondo, Mae è disposta a tutto pur di non perdere il suo lavoro ed entrare a far parte della comunità di The Circle e, senza pensare troppo alle implicazioni che la sua scelta avrà sulla sua vita privata, si fa cucire una mini telecamera sul taschino e accende i riflettori su se stessa.

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Improvvisamente Mae non è più sola. Ogni sua azione viene spiata, scansionata e commentata da migliaia di utenti, che sentono il bisogno spasmodico di affacciarsi sulla sua vita e comunicare con lei a qualsiasi ora. The Circle è l’esasperazione della socialità in una dimensione in cui la privacy si è dissolta, per continuare ad esistere solo nell’intimità della mente, ma ancora per poco. Quando Dave Eggers nel 2014 ha pubblicato The Circle, il romanzo che ha ispirato il film, questa operazione di controllo sull’essere umano sembrava un incubo, ma lentamente sta diventando una realtà sempre più tangibile, basti pensare al rapporto simbiotico che le nuove generazioni hanno con youtube e i suoi miti e al piacere voyeuristico che traggono dall’osservazione costante della loro vita privata.

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Oggi The Circle non è più un film di fantascienza, ma rappresenta l’orrore del progresso che ci insegue ansioso di cannibalizzare la nostra privacy, e basta questo a generare la paura. E James Ponsoldt ne approfitta affidandosi al lavoro di Dave Eggers senza cedere a guizzi d’ingegno, visto che il romanzo contiene già in se stesso il nucleo scottante della questione. Eppure rimane il dubbio che questo romanzo meritasse un adattamento più puntuale, più calato nella storia, invece di un passaggio a volo d’angelo sulle vite dei personaggi, leggero come un drone che li osserva da lontano.  L’ansia per un futuro dominato dalla tecnologia è presente dalla prima all’ultima inquadratura, così come l’impossibilità di sfuggire al controllo, ma declinare all’infinito lo stesso tema non basta a fare un buon film, ed è qui Ponsoldt delude le aspettative, limitandosi a trascrivere Eggers sullo schermo, ma in una versione molto più scialba.

Sully, di Clint Eastwood

Basato sul libro Highest Duty di Chesley “Sully” Sullenberger

“Niente ha precedenti quando accade per la prima volta”. L’ironia del capitano Sullenberger strappa un sorriso all’algida commissione investigativa che lo sta interrogando. Un sorriso amaro: quello di un uomo che ha salvato la vita a 155 persone, grazie a una decisione diventata, però, immediatamente oggetto di una lunga e severa indagine del National Transportation Safety Board (NTSB), agenzia indipendente del Governo degli Stati Uniti deputata alla conduzione di indagini su incidenti che coinvolgono aeroplani, gasdotti, oleodotti, navi e treni.

15 gennaio 2009, New York, aeroporto LaGuardia, ore 15:20 ora locale: sta per decollare l’Airbus A320 della US Airways, volo 1549. Nella cabina di pilotaggio sono seduti il capitano, Chesley Sullenberger, e il co-pilota, Jeff Skiles. Nomi, numeri, combinazioni, dettagli, destinati a rimanere nella storia: a soli 2800 piedi uno stormo di uccelli colpisce l’aereo e causa un’avaria ad entrambi i motori. Quello che succederà nei 208 secondi successivi sarà ricordato come “il miracolo dell’Hudson”, e Sully, il capitano, salutato come un eroe e come un potenziale scriteriato. Eroe per i 154 passeggeri del volo e per il resto del mondo, e oggetto di severe investigazioni da parte dell’NTSB, incaricato di portare alla luce i dettagli di una decisione apparentemente ingiustificata oltre che mortalmente rischiosa. Eppure, solo pochi minuti dopo il mayday, le ali di un aeroplano ammarato nel bel mezzo di un fiume che scorre tra il New Jersey e la West Side di Manhattan cominciano ad affollarsi di gambe, giubbotti di salvataggio, braccia che si cingono e volti increduli ma consapevoli di essere ancora nel pieno della vita. Tutti salvi. Una storia mai raccontata prima.

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In soli 24 minuti si radunano intorno al volo 1549 le migliori squadre di soccorso di New York: Sully, in quei tre minuti prima dell’impatto, era riuscito a calcolare anche che i traghetti in servizio sull’Hudson avrebbero avvistato immediatamente il velivolo e sarebbero intervenuti tempestivamente. Nonostante il successo di un’impresa mai riuscita prima, però, le notti del capitano sono infestate dai fantasmi di ciò che sarebbe potuto accadere se avesse seguito la procedura di rientro a LaGuardia, o al vicino aeroporto di Teterboro: un altro 11 settembre, un’altra tragedia di proporzioni incalcolabili. Di giorno, invece, Sully deve affrontare un processo, le domande a tratti lusinghiere a tratti insolenti dei giornalisti, una vita poco prima “normale” e ora completamente stravolta, il dilemma interiore: era davvero sicuro di potercela fare? L’ammaraggio sull’Hudson era davvero l’unica alternativa?

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Clint Eastwood, regista e produttore del film, affida al premio Oscar Tom Hanks l’affascinante personalità del capitano Chesley Sullenberger, portando fedelmente sullo schermo il suo contegno, la forza, la certezza di essere un uomo normale, né eroe né incosciente, che ha saputo dominare la paura nonostante nessuna simulazione, nessuna scuola, nessun istruttore lo insegnino, mai. Lui, Il fattore X dell’equazione, diviene, addosso a Tom Hanks, un marito e un padre affettuoso, dedito al proprio lavoro svolto con assoluta professionalità da 42 anni, un uomo profondamente scosso dalla responsabilità di aver salvato la vita dei suoi passeggeri tramite una manovra tanto azzardata: questo è l’”Highest Duty”, il dovere più alto, titolo del libro scritto dallo stesso capitano Sullenberger e da Jeffrey Zaslow, e da cui è stata tratta la sceneggiatura di Todd Komarnicki. Con un punto di vista originale, alternativo: non solo quei 208 minuti prima dell’impatto; non solo il tempo necessario per i soccorsi e per la constatazione che non era stato perso nessuno. Il centro di gravità è fatto di quegli incubi, degli impatti catastrofici allucinati, delle telefonate tra un marito che attende di essere processato e una moglie che ne raccoglie i silenzi smarriti e le crisi, nelle pause che separano un servizio e l’altro al telegiornale e l’assedio dei giornalisti appena fuori il portone di casa.

Tra i meriti del film, c’è sicuramente quello di non aver lasciato piede al sentimentalismo: nonostante più di qualche scena muova all’empatia, il tratteggio dei personaggi tradisce la mano salda di chi non vuole banalmente commuovere, bensì mettere di fronte al dilemma, alla responsabilità, alla scelta.

Un consiglio: non abbiate troppa fretta di alzarvi dopo i titoli di coda.

RomaFF11 – Premio alla carriera a Tom Hanks

Nel corso della Festa del Cinema di Roma è stato assegnato il premio alla carriera a Tom Hanks, ora al cinema con Inferno di Ron Howard, ed è stata dedicata all’attore una retrospettiva che comprende tutti i film che lo hanno reso più famoso, dalle commedie romantiche Insonnia d’amore e C’è post@ per te, fino a Forrest Gump, Cast Away e Prova a prendermi. Non penso ai film del passato – ha commentato Tom Hanks – perché anche se li rivedo non cambiano, e mi ricordano solo che sono invecchiato. Ad oggi mi reputo davvero fortunato perché ho fatto un di lavoro imponente e nonostante il passato del tempo continuano ancora a coinvolgermi in nuovi progetti, quindi vuol dire che il mio lavoro viene ancora apprezzato. Poi ogni film è diverso, ogni esperienza è nuova e ogni qualvolta mi viene proposta una sceneggiatura cerco sempre di seguire l’istinto, e non me ne sono mai pentito. Non è facile dire no a un film perché ti pagano, puoi baciare una bella ragazza, viaggiare o lavorare con un direttore della fotografia che ammiri, ma a volte ci sono aspetti che non ti interessano e non richiedono la passione assoluta che dovrebbe esserci. Quando non sei felice di alzarti la mattina per girare non vale la pena accettare”.

In una carriera così lunga capita di restare legati a un certo tipo di personaggio? “Spesso ho interpretato il ruolo del buono della situazione, pur avendo un un modo di pormi che potrebbe funzionare anche da cattivo. Come attore non ho intenzione di interpretare il tipico cattivo che digrigna i denti, però ci sono dei ruoli in cui sarei credibile anche come cattivo. A me piacciono i film in cui protagonista e antagonista si sorreggono su basi solide, quindi avrei il piacere di fare l’antagonista avendo motivazioni sensati, senza diventare un archetipo”.  Quindi potrebbe essere considerato l’ultimo erede di una tradizione americana di ruoli fortemente morali? “Non metto moralità nei miei ruoli. Con Spielberg ho lavorato su Salvate il soldato Ryan e non so se in questo caso si possa parlare di moralità. Per Prova a prendermi invece mi sono relazionato con degli agenti dell’FBI a cui piaceva mettere i cattivi in carcere per fare del bene e in quel caso sì c’è una moralità. Poi in The Terminal e volevo rendere omaggio a mio suocero fuggito dalla Bulgaria e in Il ponte delle spie volevo esplorare la storia politica. Quindi non decido quale film fare in base alla moralità del mio personaggio ma inbase al desiderio di interpretare personaggi diversi ed entrare in vite diverse. Oggi potrei essere qui a promuovere Forrest Gump 8,  e forse sarebbe anche economicamente vantaggioso, ma non avrebbe senso, perché la cosa più interessante è ripartire sempre da zero. Dopotutto Il bello è andare al cinema e vedere qualcosa che non ci si aspettava di vedere”.

Il ponte delle spie – di Steven Spielberg

Siamo a Brooklyn nel 1957 e Rudolf Abel (Mark Rylance) viene arrestato con un’accusa infamante: essere una spia sovietica attiva sul suolo U.S.A.Gli emendamenti della carta costituente americana impongono che chiunque, anche se considerato colpevole senza ogni ragionevole dubbio da giudice, avvocato o persona comune che sia, ottenga un regolare processo. Un processo breve, quasi una farsa, ma pur sempre un processo. James B. Donovan (Tom Hanks), esperto illustre di cause amministrative e mai coinvolto in processi penali, viene scelto come avvocato difensore.

In virtù degli stessi principi che l’hanno chiamato in causa, Donovan non prende sottogamba il processo e tiene una difesa irreprensibile fino a giungere all’appello alla Corte Suprema. Nessuno capisce i suoi gesti e la sua tenacia; la sua famiglia, i suoi colleghi e tutta la popolazione lo arrivano a disprezzare. Proprio la sua condotta, però, lo fa balzare all’attenzione dei vertici diplomatici di URSS, Repubblica Democratica Tedesca (RDT) e Stati Uniti: il pilota americano Francis Gary Powers (Austin Stowell) viene abbattuto sui cieli sovietici durante un’operazione di spionaggio e immediatamente catturato. Chi coinvolgere in qualità di negoziatore civile per finalizzare lo scambio tra le due spie se non l’uomo “giusto” James. B. Donovan?

Il ponte delle spie tiene incollati sulla poltrona del cinema per una serie di diversi motivi, tra cui non spicca l’originalità del messaggio ideologico alla base: come nelle migliori pellicole Hollywoodiane che si rispettano, si vedono contrapposte una causa buona (e se macchiata da crimini, questi saranno sempre compiuti a fin di bene) e una causa un po’ meno buona, di avversari russi incapaci di adeguarsi alle norme più elementari di civiltà ed etica.
Dimenticando la manichea opposizione, è la sceneggiatura la carta vincente in The Bridge of spies. Non è un caso se a tessere la trama della storia ci siano i fratelli più pazzi e geniali dell’universo cinematografico mondiale: ai fratelli Ethan e Joel Coen (A proposito di Davis, Il grande Lebowski) si deve un racconto dai fili ben giostrati, che incuriosisce minuto dopo minuto, lasciando col fiato sospeso sulla sorte dei protagonisti, in un mix ben bilanciato tra azione e dialoghi, al punto che 140 minuti passano senza sforzo.

II ponte delle spie - Tom Hanks e Mark Rylance

Altro elemento prezioso è la performance di Tom Hanks, everyman onnipresente in tutta la pellicola, già alla sua quarta interpretazione (Salvate il soldato Ryan, Prova a prendermi e The Teminal) diretto dal il regista de Il colore Viola. L’attore incarna perfettamente l’immagine di chi fa dell’etica il suo chiodo fisso (non riesce a mentire alla moglie nemmeno sull’acquisto di un vasetto di marmellata!) e un attore di diversa statura e spessore recitativo non avrebbe retto il tiro di una tematica così densa di racconto e che vira velocemente verso la leggenda. Da ricordare anche la performance di Mark Rylance, che con i suoi occhi buoni ed espressivi stempera il dualismo USA-URSS altrimenti troppo forte.

Dopo il denso Lincoln, Steve Spielberg torna dietro la mdp con il piglio solito che lo contraddistingue. Inquadrature, giochi di rimandi speculari (che in questo caso hanno a che fare con un muro saltato da giovani ragazzi), ritmi di racconto, colori della fotografia (curata dal fido Janusz Kaminski, premio oscar per Schindler’s list e Salvate il soldato Ryan) e soggettive non possono che essere spielberghiani. Dopo Munich e Schindler’s list, tuttavia, innovare e sorprendere in film storico risulta difficile anche a un maestro come lui e, forse, l’onore più grande da aspettarsi è quello di risultare riconoscibile.