viaggio dell'eroe

Sette minuti dopo la mezzanotte, di Juan Antonio Bayona

Sette minuti dopo la mezzanotte [A monster calls nella versione originale] è un film intenso, dalla grande potenza emotiva, che coinvolge e intenerisce, mentre sullo schermo una realtà diegetica avversa al giovane protagonista si alterna con una dimensione parallela in cui si perde il confine fra sogno e realtà.

Si tratta della trasposizione del romanzo ideato da Siobhan Dowd e portato a termine da Patrick Ness, vincitore nel 2012 della Carnegie Medal per la letteratura (dall’infanzia allo young adult) e della Kate Greenaway Medal per le illustrazioni di Jim Kay, un disegnatore fortemente voluto anche da J. K. Rowling per illustrare i suoi Harry Potter.

ShakeMoviesStandard06
Un doppio nodo lega la trama del libro con la genesi del romanzo: la malattia, che non ha permesso all’autrice di concluderlo, e la ferma volontà di chi le era accanto di non scrivere la parola “fine” su un progetto che ne avrebbe perpetuato la memoria. Un legame che non è sfuggito al regista Juan Antonio Bayona che è stato da subito fortemente attratto dal romanzo, trovando nelle sue pagine argomenti che aveva già esplorato in The Orphanage e The Impossible, «personaggi che si trovano in una situazione particolarmente intensa, su cui incombe la morte». Una morte che non è intesa come fine di un percorso, ma come inizio di una nuova avventura ad un livello ulteriore, concetto che rimanda all’origine ancestrale della fiaba come rito d’iniziazione delle comunità primitive e che è una delle prerogative del film.

ShakeMoviesStandard10

«Questa storia inizia come tante altre storie con un bambino troppo grande per essere un bambino e troppo piccolo per essere un uomo… e con un incubo».
Conor O’Malley [Lewis MacDougall] ha 12 anni e l’adolescenza, si sa, è un periodo cruciale della vita. Per lui ancora più difficile, costretto com’è a crescere troppo in fretta per la separazione dei genitori e la malattia visibilmente degenerativa della mamma [Felicity Jones]. In questo contesto già avvilente si aggiunge la beffarda mano del destino che mette il ragazzo nel mirino dei bulli della scuola. Diviso fra il sopportare e il reagire, ma conscio di dover risolvere i propri problemi in qualche modo, Conor rimane suggestionato dalla visione di King Kong, la versione originale del 1933, e così immagina che il tasso secolare che domina la collina di fronte casa loro, posto proprio al centro del cimitero, prenda vita e si trasformi in un gigante dall’anima di fuoco. Sette minuti dopo la mezzanotte, proprio mentre Conor finisce di disegnarlo, il mostro entra nella sua vita per stravolgerla completamente: gli racconterà tre storie e ne pretenderà un’altra da lui, una verità che custodisce gelosamente dietro un muro di paure e rabbia repressa.

ShakeMoviesStandard07

In Sette minuti dopo la mezzanotte ritroviamo tutta la poetica di Bayona: i legami familiari indissolubili e il soprannaturale che separa e unisce, il disegno artistico, che ha la funzione di tramite fra il mondo reale e l’immaginario, sia che si tratti degli schizzi su carta di Conor sia che si tratti dei racconti del mostro, acquerelli animati, la tecnica attraverso la quale il ragazzo esprime la sua fantasia, i suoi desideri, le sue angosce, come accade nei sogni, con rimossi, proiezioni astratte di paure concrete, ricostruzioni interiori di stimoli esterni e precognizioni.

Il sogno, altro elemento poetico molto caro al cinema di Bayona, svolge l’antica funzione di guida e mediazione con il mondo esterno, strettamente legato ai miti arcaici, a situazioni riconducibili a fiabe e leggende popolari. Entrambi, sogni e miti, sono il risultato di una complessa elaborazione e deformazione delle fantasie di desiderio: più individuali nei sogni, collettive in quei “sogni” ancestrali delle comunità primitive che hanno il nome di miti. Quella forma primitiva di pensiero è stata sempre presente nell’inconscio umano ed è chiamata archetipo. Presenti indistintamente in tutte le civiltà, e culture del nostro pianeta, sono gli archetipi a costituire la base del mito e di tutti i suoi derivati. Queste sono gli elementi essenziali che compongono il simbolo che assieme ad altre forme ed altri simboli vanno a formare ciò a cui le società hanno dato il nome di mito.

ShakeMoviesStandard11

Dal mito deriva poi la fiaba, una sintesi di archetipi sociali, psicologici e onirici, nonché chiave di lettura del nostro argomento principe, Sette minuti dopo la mezzanotte. Il film, ambientato in una Manchester non troppo caratterizzata, resa anche più gotica di quello che in realtà è, presenta molte caratteristiche in comune con la struttura del mito e, soprattutto, della fiaba: nell’inverosimiglianza dei fatti e nell’indeterminazione spaziotemporale, dove il “qui e ora” diventa un modello universale di “qualsiasi luogo e tempo”, si muovono personaggi classici come un principe, una matrigna-strega, accanto a figure meno frequenti, come lo speziale e il pastore ecclesiastico, ma tutti contribuiscono a veicolare un messaggio che possa fornire a Conor gli elementi per poter reagire agli eventi che lo hanno colpito. La madre buona [Felicity Jones, la Jyn Erso di Rogue One: A Star Wars Story e candidata agli Oscar® 2018 come protagonista] non è necessariamente da contrapporre alla nonna che appare fredda e distante [Sigourney Weaver, la Ellen Ripley di Alien e candidata agli Oscar® 2018 come non protagonista]; se suo padre [Toby Kebbell; Ben Hur, Warcraft – L’inizio] si è rifatto una vita in America non necessariamente è un dramma; la fede cristiana e la fiducia nella medicina non per forza comportano un ritorno concreto secondo i propri desideri.

ShakeMoviesStandard08

«Le storie vere spesso sono fregature».

Non come un golem difensore degli oppressi (mosso anch’esso dalla verità), non come un jinn che debba esaudire i desideri del suo padrone, l’antropomorfo Tasso secolare, quale saggio maestro di vita, guida Conor in un viaggio dell’eroe all’insegna del coraggio, della fede e della verità, virtù cavalleresche che sembravano ormai appannaggio dei soli supereroi, ultimamente. In molti hanno riscontrato una certa somiglianza fra il Groot de I guardiani della galassia e il Mostro di Bayona animato in animatronic, motion capture e CGI, ma in pochi avranno notato le assonanze con i Giganti mitologici, i Titani, tra cui troviamo Prometeo che dona la conoscenza all’uomo e Cronos che governa il tempo. Dall’alto della sua figura di fantastico mentore, il Mostro – una creatura alta 12 metri al quale è Liam Neeson [Taken, Silence], con il motion capture, a dar vita e voce – mette in guardia il ragazzo («stai usando male il tempo che ti è stato concesso») e gli fornisce, attraverso le fiabe e i loro ambigui personaggi, la giusta chiave di lettura per interpretare la propria coscienza e, in una sola parola, crescere.

ShakeMoviesStandard13

«La maggior parte della gente è una via di mezzo».

Le origini della fiaba si perdono nella notte dei tempi. Teorie su teorie, quali quella mitica, indianista, antroposofica, poligenetica, ancora non hanno trovato un bandolo comune della matassa. Quello che è certo è che la tradizione orale, attraverso riduzioni e semplificazioni di antichi miti, stratificati nel tempo e rielaborati in età successive, ha operato una contaminazione di figure tratte dalla fantasia popolare in modo da poter rendere i racconti fiabeschi uno strumento educativo prezioso per tutti, in barba all’opinione pubblica che ritiene che le fiabe siano pensate ad uso e consumo esclusivamente del divertimento dei bambini.

ShakeMoviesStandard12

Sette minuti dopo la mezzanotte è un film che possiamo definire, senza incorrere in obiezioni, fiabesco, che è stato realizzato combinando l’estrema lucidità della sceneggiatura di Patrick Ness con la fervida fantasia scenografica di J. A Bayona, mantenendo una coerenza estetica con il resto della filmografia grazie ad una fidata crew di tecnici: il direttore della fotografia Óscar Faura [The Orphanage, The Impossible], lo scenografo Eugenio Caballero [Oscar® per Il labirinto del fauno], i montatori Bernat Vilaplana [Crimson Peak, Penny Dreadful e premio Goya per The Impossible e Il labirinto del fauno] e Jaume Martì [Penny Dreadful e Gaudì Award per Transsiberian], il costumista Steven Noble [La teoria del tutto, Una, Trainspotting 2], il compositore Fernando Velásquez [The Orphanage, The Impossible]. Oltre alla già citata animazione mista, il regista impreziosisce le riprese con virtuosismi tecnici che in pochi ormai utilizzano: raccordi sull’oggetto e inquadrature reverse che meravigliano come le acrobazie di un abile circense.

ShakeMoviesStandard04
Magari potrebbe sembrare prematuro parlare di nomination agli Oscar® 2018 ma questa avventura gotica in bilico fra sogno e realtà finora è l’opera migliore sotto ogni aspetto. Non a caso ha vinto 9 premi Goya su 12 ai quali era candidato!

Un aneddoto e una curiosità a margine, per concludere.
L’aneddoto: il regista ha scelto di non dare al suo giovane protagonista la pagina del copione che descriveva l’ultimissima scena di Sette minuti dopo la mezzanotte perché voleva che MacDougall avesse la reazione più naturale possibile e autentica possibile. Il risultato è stato davvero notevole.
La curiosità è, invece, per gli spettatori attenti: non rilassatevi durante l’epilogo e fate caso sulla parete alle fotografie raffiguranti il nonno di Conor.

«Chi ci dice che il sogno non sia tutto il resto?».

ShakeMoviesStandard03

Kubo e la spada magica, di Travis Knight

Quarto lungometraggio per Laika Entertainment, con i suoi oltre 145.000 fotogrammi, Kubo e la spada magica è un capolavoro di animazione in stop-motion che insidia il primato di Alla ricerca di Dory nella classifica del miglior film di animazione dell’anno e non solo, potrebbe addirittura competere con le migliori pellicole dell’anno.

Perfetta la sceneggiatura di Marc Haimes [Collateral, Transformers] e Chris Butler [ParaNorman, La sposa cadavere, Coraline e la porta magica], basata sul formidabile soggetto di Shannon Tindle [Coraline e la porta magica, I Croods] e Marc Haimes: nucleo narrativo da romanzo di formazione, struttura che richiama il viaggio dell’eroe, innestando elementi desunti dalla cultura nipponica, come origami, bunraku, samurai, cerimonie antichissime al fascino della lanterna magica, l’origine del cinematografo.

«Non battere ciglio… da ora! Presta attenzione a tutto ciò che stai per vedere e ascoltare, per quanto strano possa sembrarvi. E vi avverto: se distoglierete lo sguardo, se vi distrarrete o se dimenticherete anche una sola parte della storia, il nostro eroe di sicuro perirà!».

ShakeMoviesStandard04

Nell’antico Giappone un ragazzo senza un occhio di nome Kubo si prende cura di sua madre in una grotta su una scogliera isolata e si guadagna da vivere raccontando storie agli abitanti del vicino villaggio costiero sfruttando il potere magico di famiglia che permette di animare gli origami come in uno spettacolo bunraku, accompagnato dal suono del suo fedele shamisen, uno strumento a tre corde. Protagonista delle sue storie è il leggendario guerriero Hanzo, suo padre, che morì per difendere lui e sua madre dall’ira del nonno Raiden. Da allora madre e figlio vivono celati dalla luce della luna per non essere trovati, ma una notte, nel tentativo di comunicare con lo spirito del padre durante l’obon, la tradizionale cerimonia delle lanterne, Kubo rimane fuori dal rifugio dopo il tramonto e le malvagie zie lo trovano e faranno di tutto per strappargli l’altro occhio. Intraprendere un viaggio alla ricerca dei tre pezzi dell’armatura del padre è l’unica soluzione per salvare se stesso e la propria famiglia. Fortunatamente con lui ci sono Scimmia e Scarabeo, due insoliti aiutanti per una “quest” che va ben oltre gli oggetti in sé: la spada indistruttibile, la corazza impenetrabile e l’elmo invulnerabile sono solo una piccola parte dei segreti che Kubo dovrà scoprire.

«Sicuro non sia la spada “introvabile”?».

ShakeMoviesStandard01

Gli elementi dell’epopea avventura e della leggenda popolare si mescolano ai sentimenti che sono l’energia vitale della trama, della storia che in questo film è, a maggior ragione, l’equivalente stesso della vita. Scheletri giganti, occhi scrutanti, malvagi mascherati dovranno vedersela con la loro nemesi per antonomasia: l’amore indistruttibile, impenetrabile, invulnerabile.

«I ricordi hanno un grande potere».

La voce di Kubo, nella versione originale [Kubo and the two strings], è di Art Parkinson, che ha interpretato Ingeras, l’amato figlio di Dracula Untold, mentre a doppiare gli altri personaggi sono le star Matthew McConaughey, alla sua prima volta, Charlize Theron, Rooney Mara [Carol, Prometheus] e Ralph Fiennes [Spectre, A bigger splash]. A cotante stelle corrispondono fortunatamente grandi nomi italiani, molto esperti nel doppiaggio di film di animazione, Neri Marcorè, Domitilla D’Amico, Chiara Colizzi, Stefano Benassi, a sostegno della voce italiana di Kubo, Giulio Bartolomei.

ShakeMoviesStandard02

Kubo e la spada magica segna il debutto alla regia per Travis Knight, che non è il fratello di Michael Knight, il pilota della Supercar K.I.T.T., anche se la macchina meravigliosa che ha tirato su è altrettanto super e in quanto a fama non scherza neanche lui: ex rapper, con lo pseudonimo Chilly Tee, è da qualche anno il presidente e CEO della Laika Entertainment, nata dalle ceneri dei Will Vinton Studios, realizzatori di animazioni in claymation che hanno fatto la storia degli anni ‘80 e ’90: i cortometraggi The Creation e The Great Cognito, nominate agli Oscar rispettivamente nel 1981 e nel 1982; le animazioni di Nel fantastico mondo di Oz, sfortunato seguito de Il mago di OzSpeed demon, una delle sequenze animate di Moonwalker, e alcune trovate pubblicitarie tanto seguite da raggiungere una seppur minima serializzazione televisiva, come The California Raisin Show, da noi erroneamente intitolato Le prugne della California, ma i più famosi al momento sono i testimonial animati della MM’s, attualmente in uso.

Travis, muove i suoi primi “passo uno” come animatore proprio presso i Vinton Studios e, quando la società inizia ad aver bisogno di fondi esterni, Phil Knight, padre di Travis, nonché presidente e cofondatore della Nike, s’inserisce come azionista di maggioranza nel 2002 e in pochi anni, nel  2005, viene fondata la Laika con un supervisore d’eccezione, Henry Selick (The nightmare before Christmas, Coraline e la porta magica).

ShakeMoviesStandard13

Da allora la casa di produzione di Portland, patria di un’altra gemma come I Simpson, ha inanellato una serie di successi che, per chi conosce il lavoro maniacale che c’è dietro questo genere di animazione, sono vere e proprie opere d’arte: da La sposa cadavere a Kubo, passando per BoxTrolls, ParaNorman e il citatissimo Coraline, quest’ultimo battuto di un minuto nel primato di stop-motion movie più lungo al mondo.

«Tutte le storie hanno una fine».

Ad impreziosire un prodotto già di per sé fantastico, è stupendo poter evidenziare, per stima prima che per campanilismo, le musiche originali, studiate nel dettaglio, del pisano Dario Marianelli, premio Oscar® 2008 per Espiazione e compositore anche di BoxTrolls, Il solista, Everest, V per vendetta, Anna Karenina, Il pescatore di sogni, Agora, Jane Eyre, Orgoglio e pregiudizio, Quartet, Stanno tutti bene, Mangia prega ama, solo per citare le colonne sonore di maggior successo.

End credits da applausi con una While my guitar gently weeps di George Harrison, in una nuova versione cantata da Regina Spektor, e qualche chicca imperdibile, perciò non alzatevi immediatamente dalle poltrone, le vostre quest quotidiane possono attendere qualche altro minuto per godere fino alla fine di questo prezioso gioiello d’animazione che è Kubo e la spada magica.

«You are my quest».

ShakeMoviesStandard09

La ricompensa del gatto, di Hiroyuki Morita

Un film ideato un po’ per gioco, non per modo di dire: il soggetto originale era stato ideato dallo Studio Ghibli per un’animazione di appena venti minuti come intrattenimento per un parco a tema. Ma lo storyboard di Hiroyuki Morita impressionò talmente tanto Toshio Suzuki che lo spinse a chiedere a Hayao Miyazaki di poterlo realizzare come lungometraggio. In tre anni Neko no ongaeshi, La ricompensa del gatto,  vide la luce nel buio di una sala. Distribuito sin dal 2002 con il titolo internazionale The cat returns e presentato la prima volta in Italia nella versione originale con sottotitoli in italiano al Future Film Festival del 2005, questa leggiadra favola giapponese sarà distribuita da Lucky Red finalmente con un doppiaggio encomiabile, che privilegia i professionisti invece di cedere alle lusinghe delle comparsate illustri. Al cinema, ma solo il 9 e il 10 febbraio.

Animatore nel 1989 per Miyazaki in Kiki consegne a domicilio, Hiroyuki Morita lavora successivamente per Satoshi Kon, con il quale collabora per quasi tutti gli anni ’90 animando il suo episodio di Memories e poi anche il thriller hitchcockiano Perfect blue. Tornato in seguito allo Studio Ghibli, lavora per Isao Takahata (My neighbors the Yamadas) e passa a dirigere la sua prima e unica pellicola, The cat returns. Il film è tratto dal manga di Aoi Hiragi, a sua volta spin-off di un altro suo racconto dal quale nel 1995 era già stato tratto il già citato I sospiri del mio cuore di Yoshifumi Kondo.

Una liceale di nome Haru salva un gatto che sta per essere investito da un camion. Il gatto ringrazia nel linguaggio umano, fa l’inchino e se ne va. Da quel momento la vita di Haru non sarà più la stessa: il gatto salvato è il principe ereditario e l’eccelso re dei gatti farà di tutto pur di dimostrarle la sua infinita riconoscenza. Ma un eccentrico re non può che avere idee bislacche e così Haru si troverà subito in un mare di miao – pardon! – di guai. Come farà a sbrogliare questa intricata matassa e tornare alla sua vita di tutti i giorni?

ShakeMoviesStandard5

L’insieme delle avventure/disavventure di Haru possono essere viste come un percorso di formazione che la porta dall’adolescenza alla maturità. Si tratta di un viaggio dell’eroe un po’ particolare che può essere diviso in due fasi con due protagonisti che alternativamente si pongono al centro della storia. Dapprima è Haru a combattere e sconfiggere il drago-camion con tanto di spada-racchetta da lacrosse, per salvare l’innocente in pericolo e grazie a questo ricevere la ricompensa per poi poter far ritorno a casa, migliorando magari la situazione di partenza. Ma la ricompensa si dimostra non conforme alle esigenze dell’eroe e la situazione precipita quando il re dei gatti si mette in testa di dare la ragazza in moglie al principe. È a questo punto, quando è Haru ad essere in pericolo, che occorre un nuovo eroe. Ad aiutarla sarà il barone Humbert von Gikkingen, detto Baron, una statuetta di gatto vestito da gentiluomo inglese che prende vita al tramonto, di cui abbiamo già fatto la conoscenza in un altro capolavoro dello Studio Ghibli, I sospiri del mio cuore [titolo originale: Mimi o sumaseba, letteralmente “Drizzando le orecchie”], diretto da Yoshifumi Kondō, direttore dell’animazione e character designer dell’anime cult Conan il ragazzo del futuro, e scritto da Hayao Miyazaki. È Baron l’eroe della seconda parte, quando le cose si mettono decisamente male per Haru. Ad aiutare la ragazza, oltre a lui ci sono anche il gatto Muta, altro personaggio preso dal film del 1995, e il corvo-gargoyle Toto, creatura capace di trasformarsi come Baron in quel luogo magico che è l’Ufficio del Gatto, una specie di Baker Street, con il protagonista che ricorda molto da vicino lo Sherlock Holmes versione antropomorfa di Miyazaki, guarda caso.

ShakeMoviesStandard4

La narrazione filmica è ricca di elementi del folklore giapponese: il profondo rispetto verso i gatti, considerati spiriti saggi e portatori di fortuna, ma soprattutto la credenza che anche le cose abbiano un’anima. Quest’ultimo elemento, personificato da Baron e Toto, oggetti in cui alberga un’anima, fornisce una connotazione ecologica alla favola animata. Gli oggetti che accompagnano la nostra vita e le nostre attività non si devono considerare mere cose da sfruttare per poi disfarsene senza un motivo valido, è il concetto del mottainai 勿体無い “non sprecare”, non trattare male, non buttare un oggetto che può ancora mostrare la sua utilità, piuttosto bisogna cercare di riciclarlo, per permettergli così di dar vita a un nuovo oggetto. Senza giungere a casi-limite come la coperta di Linus, il concetto che sta alla base dell’elemento magico del film è che gli oggetti hanno una loro essenza, fedeli compagni di lavoro, stimoli per nuove idee ancore di conforto, che teniamo strette a noi perché ci danno sicurezza, ci aiutano ad affrontare le nostre paure, e ci seguono per parte della nostra vita, come compagni di viaggi silenziosi su cui poter sempre fare affidamento. Ed è nello scorrere del tempo che si animano di vita fino a diventare degli spiriti. Si chiamano tsukumogami 付喪神 [“gli spiriti delle cose”], e secondo una credenza giapponese hanno origine da un qualunque utensile che abbia compiuto almeno 100 anni. Raggiunta tale età, tutti gli oggetti diventano spiriti, il cui aspetto può variare molto, sia in base al tipo di oggetto da cui viene originato, sia in base all’uso che ne è stato fatto e alle sue condizioni. Se l’utensile è stato gettato via senza alcun rispetto, perché ritenuto ormai inutile, oppure trattato male o rotto, diventerà uno spirito maligno in cerca di vendetta, e anche il suo aspetto sarà terrificante; in caso contrario, avrà un aspetto benevolo e si manifesterà solo per apparizioni inoffensive.

Anche i nomi dei personaggi principali sono stati pensati per inserire un ulteriore strato di significazione. Sul piano etimologico, Haru sta per “primavera” e Muta significa “insieme” e ha la stessa radice della parola “muteki” che vuol dire “invincibile”. Sul piano dei riferimenti crossmediali, invece, non si può non notare che la leggenda di Renaldo Moon sia simile alla storia di Moby Dick o che il nome Toto richiami alla mente il fedele compagno di viaggio di Dorothy ne Il meraviglioso mago di Oz di L. Frank Baum, fiaba e allo stesso tempo romanzo di formazione, come il film stesso o. Una circostanza analoga la si può riscontrare con un’altra “fiaba di formazione”, Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll, per la quale i riferimenti si sprecano. Solo per citarne alcuni: Haru è curiosa, attratta dal mistero, non si fa scrupoli a dialogare con gli animali e segue un gatto bianco, invece di un coniglio, in un posto lontano dal suo spazio-tempo, l’Ufficio del Gatto, una sorta di anticamera al Regno dei Gatti, «il posto dove va chi non riesce a vivere il proprio tempo», dove subisce una trasformazione dimensionale proprio come Alice. Un’ulteriore elemento a sostegno di questa tesi è la conoscenza del trio di amici composto da Baron, Muta e Toto che corrispondono al gruppo Cappellaio Matto, Lepre Marzolina e Ghiro, con tanto di degustazione di chiffon cake, bacche di gelso e tè, fatto con una «miscela speciale che ogni volta cambia lievemente gusto», come fosse una delle speciali caramelle di Willy Wonka.

ShakeMoviesStandard2

Disseminati per la città sono veramente tanti i riferimenti nascosti sottoforma di insegna di negozio, ad esempio La rosa di Versailles, traduzione letterale dell’originale Berusaiyu no bara, da noi famoso come Lady Oscar, diventa il nome di un salone di bellezza, oppure l’occhio volante della sorveglianza sono simili a quelli della serie Chobin e poi gli occhi strabici e di differenti colori dell’eccelso Re dei Gatti ricordano quelli del Dr. Zero, nemico di Fantaman, tutti elementi che presumibilmente provengono dal bagaglio culturale televisivo del regista stesso e dello staff dello Studio Ghibli. A completare questo gioco enigmistico con lo spettatore attento e perspicace, una crittografica firma del regista Morita che campeggia su di una scatola di biscotti…

Il legame con il testo di Carroll, la passione per gli enigmi e il rapporto con la cultura pop è confermata anche dalla citazione cinematografica del percorso dedalico che, in Labyrinth, la protagonista deve affrontare, insieme a tre amici incontrati lungo la strada, per raggiungere il castello multidimensionale di Jareth, posto al centro del labirinto e ispirato alle opere di M. C. Escher. Come il Re dei Gatti, anche il personaggio interpretato da David Bowie chiede alla protagonista di diventare la regina di quel mondo dove non sarà mai costretta a crescere.

ShakeMoviesStandard1

Un po’ quello che accade allo spettatore di questo come di ogni altro film fantastico: tutti per qualche minuto veniamo trascinati in un mondo che è fuori da quello reale, fatto della stessa materia di cui sono fatti i sogni, e viviamo le avventure come se fossimo dentro quei personaggi a cui ci siamo affezionati, per poi, alla fine del percorso, tornare ad essere gli adulti più o meno responsabili che è necessario che siamo.

Ma come non si può dimenticare la canzone finale Kaze ni naru, davvero bella e orecchiabile, non dobbiamo mai dimenticare il bambino racchiuso in ognuno di noi, che è il motore della nostra voglia di vivere, di inseguire sogni e di essere felici. Perciò guardiamo La ricompensa del gatto e diventiamo tutti Alici… ehm, gatti… insomma, non nascondiamo quella sana curiosità che ci muove all’avventura e ci rende capaci di essere gli eroi delle nostre vite!

Il viaggio di Norm, di Trevor Wall

Il Polo Nord è in pericolo? Ci pensa Norm, un simpatico orso bianco che non sa cacciare, ma sa comunicare anche con il linguaggio umano e, soprattutto, sa ballare divinamente! Questi suoi interessi che esulano dal tradizionale modus vivendi dei suoi simili, lo rendono triste e solo, specialmente da quando è scomparso il nonno. Le potenzialità di Norm, come accade per la maggior parte dei “multipotentialite” come lui, vengono soffocate per paura di un fantomatico disordine sociale o assurde ragioni simili. Anche il padre, sovrano dell’Artide, gli ricorda le regole di un regno, dove «si caccia, si regna, si dorme» e dove non c’è spazio per nient’altro, salvo delle buffe esibizioni occasionali per turisti organizzate da Stan, fratello di Norm, anche lui attratto dal palcoscenico, anche se da dietro le quinte. Chi come Norm, invece, aveva il dono della parola era il nonno che, oltretutto, rappresentava un modello di re istintivo e perspicace che «sente la sofferenza dei ghiacci».
Quando Greene, un magnate senza scrupoli, cerca di realizzare, a dispetto del suo nome che rimanda alla natura e alla green economy, un immorale progetto di urbanizzazione del Polo Nord, infischiandosene dell’impatto ambientale e dei potenziali danni che il surriscaldamento della calotta polare può provocare all’ecosistema artico e al mondo intero.
Su consiglio del gabbiano Socrate e dell’orsa Elizabeth, Norm va a risolvere il problema all’origine: a New York. E così, tra rivisitazioni etimologiche della “pole dance”, esibizioni di twerk, brani pop famosi ed orecchiabili, sofisticate operazioni di marketing, tra cui un flash mob a Times Square, e rocamboleschi inseguimenti per le strade trafficate di Manhattan, l’eroe dei ghiacci del Nord mette in atto il suo piano per salvare la sua casa e il mondo intero.

ShakeMoviesStandard2

Impresa impossibile? Forse, ma Norm non è da solo! Ad aiutarlo ci sono Olympia, una bambina prodigio, figlia della direttrice marketing di Greene, e i tre lemming, roditori artici di piccole dimensioni, i perfetti compagni di team per un multipotentialite, specialisti di missioni impossibili, pronti a tutto e praticamente indistruttibili, grazie alla loro speciale costituzione fisica, tanto leggera e soffice da essere a prova di urto. I lemming svolgono egregiamente sia la macrofunzione comica sia una microfunzione di coro, in tutti i sensi! Il pubblico viene letteralmente calamitato dalle loro gesta, eroiche e non! Un po’ come accaduto in passato con i pinguini di Madagascar o i Minions di Cattivissimo me. Chissà che non possano un giorno avere anche loro uno spin off incentrato su di loro. Sarebbe un bel risarcimento per la loro reputazione, meschinamente ridicolizzati da un “documentario” del 1958 della Disney intitolato White wilderness, che include varie scene di lemming che sembrano buttarsi da un’alta scogliera. In realtà, le scene in questione sono state costruite ad arte in Manitoba. Una farsa che ha affibbiato ai lemming la nomea di animale con la tendenza al suicidio di massa, cosa che non ha alcun fondamento scientifico. L’unico dato di fatto che può, in qualche modo, aver contribuito alla creazione di questo falso etologico è che i lemming sono soliti migrare in gruppi numerosissimi e, di conseguenza, molti di loro possono morire per cause accidentali oppure per la pressione degli altri individui che può provocarne la caduta in corsi d’acqua e dirupi. A causa della loro associazione con questo bizzarro comportamento, la sindrome del lemming è una diffusa espressione utilizzata per riferirsi in maniera metaforica a persone che seguono acriticamente l’opinione più diffusa, con conseguenze pericolose o addirittura fatali. Forse non a caso è stato scelto questo tipo di animale per affiancare un orso polare con problemi da multipotentialite.

ShakeMoviesStandard3

Per chi legge il termine per la prima volta, per multipotentialite s’intende una persona che nella vita ha molti interessi, diversi tra loro e spesso neanche interconnessi. Non ha un’unica vocazione, ma il suo percorso segue molti sentieri in sequenza o contemporaneamente, o entrambi. Spugna dalla straordinaria capacità assorbente per quanto riguarda l’apprendimento, intellettualmente e artisticamente curioso e pronto all’esplorazione di tutto, il multipotentialite riesce in poco tempo ad aver padronanza di nuove competenze ed è eccellente a produrre idee in modo creativo che connettono le diverse materie di cui si interessano. Sarebbe un incredibile innovatore e risolutore di problemi, se non fosse ostacolato dal tradizionale modo di vedere il mondo. Ma, come molto, troppo!, spesso accade il “diverso”, che in realtà è solo “divergent”, come Norm, in quanto anticonvenzionale ed eccentrico, viene emarginato dalla comunità di orsi, preso in giro dai caribou di turno, costretto a nascondere la propria identità, unica ed irripetibilmente magnifica.

Come magnifica è stata l’originale tecnica di filmare lo storyboard con artisti che recitano e ballano dal vivo, per poi passare il materiale al team di illustratori e animatori, per rendere più realistiche possibile le espressioni, le emozioni e la gestualità dei personaggi del film. Mentre per l’ambiente artico il regista Trevor Wall e la crew, che lo segue dai tempi della televisione e del successo Sabrina: i segreti di una vita da strega, hanno preferito un design più da cartone animato che superrealistico, per le sequenze di Manhattan e i vari grattacieli hanno utilizzato immagini computerizzate in modo da costruire uno spazio urbano stilizzato, modellato direttamente su edifici reali, ad esempio il Walt Disney Concert Hall di Los Angeles ha fatto da modello di riferimento per minacciosa casa futuristica dell’immobiliare Greene. Di nuovo la Disney. Un’altra allusione negativa nascosta nel sottotesto? I nomi derivati dalla cultura greca, Socrate e Olympia, e la scelta di fare di un orso bianco il re dell’Artide confermano la presenza, quantomeno, di un sottotesto ben studiato: la parola Artide viene dal greco ἀρκτικός (arktikos), ossia “vicino all’Orsa”, cioè a Nord, e deriva a sua volta da ἄρκτος (arktos), che significa proprio “orso”. Il riferimento è sia alla costellazione dell’Orsa maggiore, che si trova nell’emisfero settentrionale della volta celeste, sia alla costellazione dell’Orsa minore che contiene Polaris, la stella polare, fin dall’antichità punto di riferimento fondamentale perché stabilmente fissa al Nord geografico, secondo la percezione umana. Non poteva, quindi, che essere un Ursus maritimus, come lo chiamerebbe Olympia, il simbolo della difesa di un ecosistema il cui stato di salute è il fulcro del destino dell’intero pianeta.

«Sta arrivando qualcuno! Siate naturali!»

ShakeMoviesStandard1

Originariamente realizzato per il mercato home cinema, Il viaggio di Norm è anche e soprattutto questo: una favola ambientalista che tocca il tema della diversità come valvola di innovazione, attraverso una forma divertente e scanzonata, ma soprattutto molto semplice, in modo che i contenuti possano arrivare dritto al cuore anche degli spettatori più piccoli, senza alcuna difficoltà di comprensione. Il viaggio dell’eroe è più che mai di natura formativa, spirituale, educativa, alla scoperta di sé – e della rivoluzione a cui porta il “think different” –  e alla ricerca di quel coraggio che serve per credere nelle proprie capacità, anche se sono fuori dalla norma. Tanto, in fondo, chi decide cosa è “normale” e cosa non lo è?

Creed di Ryan Coogler

Epico. Monumentale. Eppure al passo coi tempi. La leggenda di Rocky continua per altre strade vincendo contro il suo nemico più forte: il tempo, che ha piegato il fisico del personaggio ma non la sua morale, la sua tenacia, quel suo modo di essere vero. Grazie alla freschezza di un sognatore determinato, in cui rivede se stesso, Rocky e il suo stesso interprete si convincono a riprendere quello che era stato dichiarato concluso, per farne qualcosa di nuovo con un retrògusto che sa di classico senza tempo.

Ryan Coogler, al suo secondo lungometraggio dopo il premiatissimo Prossima fermata Fruitvale Station, ha piazzato un bel “colpo d’incontro”, e con lui anche Sylvester Stallone che, impegnato, questa volta, solo come attore, e non come sceneggiatore e regista, può seriamente puntare ad ottenere il riconoscimento principe come non protagonista.

«Un passo alla volta. Un pugno alla volta. Una ripresa alla volta.»

Adonis Johnson [Michael B. Jordan] non ha mai conosciuto suo padre, Apollo Creed, e la madre è morta che ancora era piccolo. Adottato dalla vedova Creed, esce dal riformatorio e finalmente ottiene tutto dalla vita, ma successo, carriera e ricchezza non riescono a colmare un vuoto. Il desiderio di conoscenza di sé, di comprendere la figura paterna e conoscere lo sport per cui Apollo è morto ma anche la passione per cui ha vissuto, lo spingono verso la boxe. Dalla villa extralusso di Los Angeles inizia un viaggio dell’eroe che è un mettersi alla prova fisicamente ma anche e soprattutto un percorso emozionale e un’esplorazione interiore e dei rapporti con gli altri. Avrà davvero le carte in regola per farsi un nome tutto suo? chi crederà in lui? E lui stesso riuscirà ad acquistare abbastanza fiducia nelle proprie capacità? Presto si troverà a Philadelphia, dove c’è una “vecchia roccia” con cui suo padre ha combattuto e che ha anche allenato, un rivale e un amico. Quel nome che significa “credo, convinzione” e che rappresenta per tutti il retaggio di un grande campione, può essere una benedizione, se sarà capace di convincere e convincersi, ma se sbaglierà sarà un peso che lo schiaccerà più di una sconfitta.

Un viaggio dell’eroe che passa attraverso una solida scrittura archetipica, il cui fulcro è il rapporto che s’instaura tra Adonis e Rocky. Che sia il mentore, la sostituzione della figura paterna, o lo “zio”, come lo chiama “Donnie”, il personaggio di Stallone, in Creed, ha un tragitto anch’esso eroico, che parte da un rifiuto dell’avventura. La tenacia del ragazzo, ribaltando i ruoli, vince questo diniego, allenando la “vecchia roccia” a seguire di nuovo il suo istinto di guerriero, sotto una nuova luce di speranza, la luce di una nuova stella, figlia del dio del sole greco.

ShakeMoviesStandard4

Secondo quella che può essere una chiave di lettura allegorica, dettata dalla massiccia presenza di elementi che rimandano alla mitologia, si può azzardare una sinossi, che rivela quanto sia estremamente curata la sceneggiatura in ogni sua parte. Adonis – una sorta di semidio, in pratica – brama di arrivare al posto del padre, tra gli dei, ma viene scacciato dall’Olimpo. Si affida allora ad un mentore, quell’eroe che più umano non si può, colui che già in passato aveva sfidato gli dei, riuscendo dove gli stessi dei avevano in passato fallito, vincendo con la determinazione, con il sudore, con il sangue e con il sacrificio. Riuscirà a fare del ragazzo un guerriero capace di affrontare qualsiasi avversario e portare a testa alta il nome di suo padre? Adonis, simbolo della natura fiorente che splende dopo ogni gelido inverno, della bellezza giovanile, del desiderio di conquista e del rinnovamento a partire dalla morte, riuscirà a coronare con l’alloro della vittoria la sua ardua impresa?

«Un passo alla volta. Un pugno alla volta. Una ripresa alla volta

L’accostamento alla mitologia greca è un elemento che sottolinea l’epicità dei gesti dei personaggi, ben al di là dei nomi che portano. La Delphi Boxing Academy è una tappa fondamentale per il futuro di Adonis, come era un passaggio fondamentale nell’antichità andare a chiedere il responso del famoso oracolo che non a caso è legato all’esortazione “conosci te stesso”. Nella palestra che fu di Apollo Creed, quasi a voler sottolineare il conflitto tra un figlio illegittimo rimasto troppo presto solo ed il padre che non ha potuto conoscere, si rifiutano di allenare Adonis, ma è proprio questo nuovo abbandono, questa solitudine a diventare il motore che spinge verso un’altra anima solitaria, che sia mentore di vita prima ancora che di boxe, verso la realizzazione di un sogno che colmi quel vuoto: capire chi è Adonis Creed.

E poco importa se, per raggiungere i sogni, si devono affrontare dei danni collaterali. Ogni personaggio che incontra sembra invitarlo ad andare fino in fondo senza esitare, trovando la forza per rialzarsi dopo ogni pugno, come ha fatto il padre fino all’ultimo, come fa la fidanzata cantante affetta da perdita progressiva dell’udito, e lui capisce la lezione e sprona a sua volta Rocky a lottare contro il cancro che ormai era rassegnato a non curare. «Fare quello che amo fino alla fine» diventa il proposito di ognuno e, come in una famiglia moderna allargata, quando è Adonis a perdere fiducia, è il vecchio pugile, cresciuto nei sobborghi di Philadelphia, come Stallone stesso, a sorreggerlo e farlo uscire dalle corde in cui la vita lo aveva costretto.

«So come ti senti. Ti senti abbandonato e in guerra con il mondo. Senti il peso della sua ombra

Ed è proprio dall’ombra che emerge la luce e risplende una fotografia monumentale che accompagna la narrazione e la spinge su un piano allegorico: la diversa esposizione, la profondità dei neri e le scelte cromatiche dominanti evidenziano il contrasto tra la luce delle palestre ufficiali piene di presunzioni e interessi e l’ombra della palestra di periferia, tra la polvere, la ruggine e il sudore di chi ha dovuto imparare presto cos’è davvero la vita. A suggellare questa ascesa dall’ombra un uso mirato del piano-sequenza, utilizzato per accompagnare Adonis sul ring, ad iniziare dall’incontro clandestino oltreconfine, girato senza stacchi dal riscaldamento nello spogliatoio fino al knock-out, per finire con la ripresa dell’entrata sul ring, grande prova coreografica di tutto il cast, tecnico e attoriale. Il passaggio dall’oscurità alla luce e la tortuosità del percorso della mdp ricordano che la strada del successo non è mai lineare e priva di ombre, che l’uomo è faber fortunae suae sempre e comunque e che la grandezza dell’eroe non è data dai titoli, non scaturisce dalla vittoria fine a se stessa, ma è il risultato di un’avventura per conseguire obiettivi ben più grandi di una cintura da sfoggiare, qualcosa che trascende la stessa fatica fisica ed eleva il lavoro svolto dagli attori, dai creatori, oltre che dai personaggi, ad impresa straordinaria che merita il trionfo.

ShakeMoviesStandard7

Grande lavoro di costruzione del personaggio e della credibilità di pugile per Michael B. Jordan, che si è sobbarcato un peso non indifferente andando a raccogliere il testimone da un personaggio-attore che è leggenda, aprendo prepotentemente la strada a nuovi scenari. Il confronto generazionale tra Apollo e Adonis ha il suo parallelismo proprio nel confronto tra Jordan e Stallone, il cui personaggio ha avuto addirittura l’onore di avere una statua nel cuore di Philadelphia: un Rocky trionfante, oggetto di culto per fan di ogni età che fanno la fila per scattarsi una foto insieme, come se fosse un personaggio realmente esistito. Un simile attaccamento si annovera per un altro pugile frutto della fantasia: nel 1970, in Giappone, dopo la morte di Rikishi, eterno rivale del protagonista del manga cult Ashita no Joe (famoso in Italia come Rocky Joe) e altrettanto amato dai lettori, fu organizzato un vero e proprio funerale, a cui parteciparono centinaia di persone.

Tante le autocitazioni della serie: oltre agli oggetti di casa Balboa, che rimandano ai precedenti film, una chicca che non può sfuggire ai fan: durante il primo allenamento con lo zio Rocky, Adonis indossa una maglia con la scritta “Why do I wanna fight? Because I can’t sing and dance…”, una linea di dialogo presa dal capostipite del franchise, quando Rocky è a pattinare sul ghiaccio con Adriana.

Per concludere, alcune curiosità: Creed è il primo film della serie ad essere distribuito da Warner Bros, a non portare, in quanto spin off, il nome Rocky nel titolo, ad avere un’aspect ratio monumentale da 2.35:1. Sylvester Stallone ha espressamente richiesto che Adonis avesse gli ormai tradizionali calzoncini a stelle e strisce indossati da Apollo Creed in Rocky (1976) e da Rocky in Rocky III (1982) e Rocky IV (1985) per sottolineare l’eredità incarnata dal nuovo campione. Curioso, inoltre, come, al momento della realizzazione del film, Stallone sia chiamato ad indossare i panni di allenatore alla stessa età, 69 anni, di Mickey [Burgess Meredith] nel primo capitolo della saga.

Un finale alternativo è stato girato e sarà presente nella versione home video.

«Un passo alla volta. Un pugno alla volta. Una ripresa alla volta