Resident Evil: The final chapter, sequel naturale di Resident Evil: Retribution (2012), è il sesto ed ultimo capitolo (ma non ci giurerei! una serie-tv potremmo aspettarcela) della saga sci-fi/horror Resident Evil, realizzata come adattamento cinematografico della riuscitissima serie omonima di survival game targata Capcom.
«A volte penso che la mia vita sia stata questo: correre, uccidere…»
L’abbiamo conosciuta ed apprezzata nel 2002, quando Alice [Milla Jovovich] si svegliava in un mondo reso l’inferno in Terra dagli esperimenti della Umbrella Corporation, priva di memoria in un vano doccia, coperta dalla sola tendina, forse divelta nella caduta. Tralasciando quanto abbiamo odiato quella dannata tenda da doccia, già antiestetica e fastidiosa per sua natura, è stata una gradita sorpresa scoprire, in seguito ad una maratona dettata da un’auspicabile onestà di giudizio, quanto la coerenza narrativa sia stata curata nel minimo particolare e come ogni nodo giunga al pettine, in un finale che ha forse l’unica pecca di arrivare tardi e quindi carico di doverose aspettative, un po’ deluse dalla maniera un po’ sbrigativa con cui è stato liquidato il problema del virus apocalittico.
La resa dei conti è a Raccoon City, il luogo dove tutto ha avuto inizio, il luogo dove tutto finirà, in un modo o nell’altro. E sarà anche l’ultima tappa evolutiva della protagonista, il cosiddetto Progetto Alice. Da donna senza passato risvegliatasi in un mondo senza futuro a semidea madre dotata di poteri ESP, fino a diventare l’ultimo baluardo di un’umanità tradita da chi l’avrebbe dovuta difendere, l’Umbrella Corporation, e che invece ha ibernato la classe dirigente in modernissime bare da vampiri d’altri tempi (Lifeforce di Tobe Hooper, conosciuto in Italia come Space vampires, è un chiaro riferimento), lasciando che siano le classi meno abbienti ad estinguersi, come fossero le uniche depositarie di un Male ancestrale, da estirpare nella maniera più lenta e spettacolare possibile tra non-morti affamati, lickers, cerberi, orrendi draghi volanti (ispirati dai jabberwock carrolliani?) e tutto quanto la Capcom abbia mai ideato per il divertimento di milioni di survival gamers in tutto il mondo in più di vent’anni.
«Dieci anni fa, nell’Alveare, abbiamo fallito entrambe. È tempo di rimediare a quel nostro errore!»
I non troppo velati rimandi al romanzo di Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò continuano nell’estenuante corsa contro il tempo dell’ormai iconico personaggio di Milla, guidata dall’intelligenza artificiale chiamata Regina Rossa [interpretata da Ever Gabo Anderson, figlia della Jovovich e del regista, al suo esordio assoluto], di nuovo sottoterra, tra metamorfosi, inganni, strategie e tradimenti.
Non mancano, in tutto il percorso narrativo, elementi che fanno riferimento anche ad altri romanzi di formazione, ricchi di simbologie e sottotesti filosofici, come il Frankenstein di Mary Shelley o il Pinocchio di Collodi, che si perdono nella fitta rete di richiami alle vicende videoludiche, che vanno dalla maniacale ricostruzione degli ambienti alla realizzazione delle stesse indimenticabili inquadrature che hanno rappresentato la cifra stilistica del brand: l’orrido pasto di zombie famelici in branco, visto attraverso un crane all’indietro, per fornire un esempio concreto. «Abbiamo dipinto tutte le rocce di nero per rendere il set [in Sudafrica] più cupo e inquietante», lo stesso metodo utilizzato da Michael Mann per La fortezza, ha dichiarato soddisfatto Paul W. S. Anderson, regista di un terzo dei Resident Evil, ma sceneggiatore anche di Apocalypse e Afterlife che, dopo aver diretto questo The final chapter, si cimenterà ancora con la trasposizione cinematografica di un brand Capcom: Monster hunter, un quest game di ambientazione fantasy in cui i protagonisti vanno a caccia di mostri.
La conclusione legittima di quella che si potrebbe definire la Chanson de Alice si svolge in una sorta di labirinto del Minotauro che cita in parte Cube e in parte Saw e che metterà tutti d’accordo almeno su un fatto importante: Milla Jovovich, classe 1975, vale da sola il prezzo del biglietto, come al solito, se non altro per vederla nelle vesti di un nuovo personaggio, una sorpresa che non si può svelare neanche sotto tortura.
«Ecco, la trinità delle puttane unita nell’odio!»
Attesissimo in Giappone, dove è stato uno dei titoli di punta del periodo natalizio, The final chapter è stato distribuito negli Stati Uniti anche nei formati 3D e IMAX 3D e ha già incassato 135.000.000 $ in tutto il mondo.
Tridimensionalità, ecco, parliamone!
Giustamente, mettendosi nei panni dei produttori, perché privarsene? Resident Evil è sempre stato al passo con i tempi, si è saputo adattare, adeguare, migliorare, in una parola evolvere. Quindi ci si chiede perché non realizzare un film con un 3D nativo (cioè girato fin da subito con questa tecnica) e sfruttare invece l’alta definizione di ripresa 2D fornita dalla simbiosi tra lenti Zeiss Ultra Prime e Red Epic Dragon camera per poi operare una sempre poco apprezzabile conversione 3D a posteriori. Scelte che poi si sposano ancora peggio con la visione in sala attraverso occhialetti privi di sensore di ultima generazione che costringono a posizioni da contorsionista per permettere allo spettacolo tridimensionale di avere l’effetto desiderato. Provare per credere: scivolare giù sulla poltrona cercando di allineare il limite inferiore delle lenti alla linea dello schienale della fila davanti, ovviamente libera da ostacoli.
Il film è dedicato alla memoria dello stuntman Ricardo Cornelius, morto in un incidente durante le riprese in Sudafrica, che sono costate anche un braccio a Olivia Jackson, principale controfigura di Milla Jovovich. Una nota dolente che si va ad aggiungere alla dubbiosa comparsa di un importante oggetto di scena proprio alla fine: come fa a star lì? Chi ce l’ha portato? Di certo non l’ologramma della Regina Rossa…che alla fine degli end credits saluta il pubblico alla sua maniera!