Vincent Lindon

Berlinale 65 – Journal d’une femme de chambre, di Benoit Jacquot

Per comprendere cosa significhi essere una “femme de chambre” al soldo di borghesi benestanti nella Francia dei primi anni del Novecento è necessario liberare la mente dalle idee sull’emancipazione femminile che hanno caratterizzato l’ultimo secolo e tornare indietro a un’epoca in cui servire voleva dire soddisfare qualunque desiderio e capriccio dei propri padroni, assecondando talvolta anche i loro istinti più bassi. Célestine è una femme de chambre a tutto tondo e per tutta la sua vita non ha fatto altro che compiacere i propri datori di lavoro, i più misericordiosi come i più crudeli, per conquistare un posto nella loro casa oltre che nel loro cuore. Sola al mondo, Célestine è una canna al vento che cambia padrone così come cambiano le stagioni, e che puntualmente finisce in mani peggiori delle precedenti. Le donne nella sua condizione, orfane e non maritate, non sono neanche considerate esseri umani, ma merce di scambio tra le signore dell’alta società e giocattoli nelle mani dei loro mariti annoiati. Ma a differenza di tutte le altre donne rese schiave dalla loro miseria, Célestine ha il dono di una mente sottile e di una bellezza eternamente innocente, irresistibile per tutti gli uomini che incontra, e questo la mette in una posizione di potere, più che di subordinazione. Consapevole della sua sensualità magnetica, Célestine si abbandona ai piaceri del corpo ma è abbastanza lucida da scegliere a chi concedersi, che sia per compassione o per desiderio, e non pensa neanche per un’istante di intraprendere la via più semplice dei bordelli parigini. Gli uomini passano uno dopo l’altro sotto i suoi occhi, acerbi, laidi, rudi e ingenui, ma nello stesso istante in cui credono di sfruttare i privilegi della loro posizione per piegare la donna alla loro volontà, sono loro ad essere manovrati come pedine dalla bella Célestine, che usa tutti gli artifici a sua disposizione per elevarsi da una condizione di schiavitù e diventare padrona del proprio destino.

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Il diario di Célestine la cameriera licenziosa, scritto da Octave Mirbeau nel 1900, è stato portato sul grande schermo più di una volta, prima da Renoir e poi da Buñuel, e ora ancora una volta da Jacquot, che si aggrappa più degli altri al testo originario, alternando le avventure di Célestine su diversi piani temporali. Célestine volteggia da una casa all’altra, dalle coste della Normandia agli appartamenti sofisticati di Parigi come una falena che ricorre la luce, senza mai trovarla. Jaquot la segue come un innamorato fedele, la dipinge in tutte le attività quotidiane soffermandosi sui dettagli perfetti del suo volto, sulle mani, e sul suo corpo voluttuoso, che pur essendo coperto da costumi castigati non riesce a nascondere le forme della bella Léa Seydoux. In ogni scena l’obiettivo la accarezza con la luce, la culla con la musica, e sembra osservarla dal buco della serratura come usano fare i suoi ammiratori. Ma proprio come uno di questi Jaquot perde il controllo a causa di Cèlestine, del suo potere, e soccombe inevitabilmente al suo fascino, dimenticando approfondire la narrazione di Mirabeau, e trasforma Journal d’une femme de chambre in una galleria di situazioni basate unicamente sulla celebrazione estetica dell’immagine.