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Un gioco da ragazzi, di Antonio Schiena

“Ma io ero sicuro di voler stare al suo gioco? Poteva rivelarsi un gioco pericoloso. Avrei accettato la sfida?”

Andreas – chiamato così per colpa di un errore all’anagrafe, secondo quanto raccontato da sua madre – ha appena finito il liceo quando Patrizio gli propone un gioco. Il suo amico sta progettando la fuga dal piccolo paese di provincia nel quale è cresciuto per poter cominciare una nuova vita, lontano dai legami e alla ricerca del successo.
Andreas verrà velocemente coinvolto nel suo piano: il primo indizio, Il fu Mattia Pascal di Pirandello, metterà in moto gli eventi e darà il via alla storia.

“Cosa ci aspetta adesso?”
“Vedrai. È una cosa che ti piacerà.”

Un gioco da ragazzi è un thriller con sfumature noir, adatto a un pubblico giovane. Le vicende, infatti, si dipanano nella Roma afosa e sconosciuta che spesso si trovano ad affrontare gli studenti fuori sede durante le prime settimane di permanenza. Tale contesto ben si adatta alle vicende narrate, creando un gradevole senso di spaesamento iniziale anche nelle persone che conoscono meglio la capitale.
Affinché un pubblico più maturo possa apprezzare il libro, invece, sarà necessario attingere ai ricordi dell’adolescenza, in particolare al narcisismo che spesso è la causa scatenante delle azioni compiute a quell’età. Il modo in cui Andreas pensa e si relaziona con l’esterno si rivelerà allora nel suo realismo, sebbene l’espediente narrativo metta in condizione il protagonista di operare scelte non comuni.
È facile provare per lui e per Patrizio una leggera repulsione e, al contempo, una curiosità morbosa, acuita soprattutto da una lettura che tenga conto delle personalità dei personaggi.

“Fu in quell’istante che la mia vita, quella di Patrizio e anche quella di tanti altri cambiò radicalmente? Credo di sì.”

La trama fitta di eventi rende l’andamento veloce sin dalle prime battute, senza incappare in buchi narrativi. Non ci sono momenti morti e il ritmo tende ad accelerare nella seconda metà del libro, quando la spirale degli eventi prenderà a stringersi e il gioco diverrà una partita a scacchi contro il tempo. Per quanto riguarda lo stile, nonostante il tema trattato il libro è facile da leggere, adatto a chi è in cerca di una tenebrosa fuga dalla realtà.

Come in ogni thriller, comunque, è necessario arrivare alla fine del romanzo per poterlo apprezzare. Un altro consiglio è di tenere sempre a mente il motto di Patrizio, colonna portante dell’intero libro: se fai bene le cose, nessuno capirà che le hai fatte.

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Il clan dei cari estinti, di Carlo Deffenu

Quando gli ultimi riverberi del sole svaniscono dal cielo, rimangono solo i lumini tremolanti a combattere la carezza della notte che si allarga sui cimiteri. E se le nostre menti nascondono paure e timori in quelle fosse d’ombra, ci pensa Carlo Deffenu e il suo Il clan dei cari estinti, pubblicato da Watson Edizioni, a rischiarare cripte e loculi di una luce dolce e vitale.

Corrado è un ragazzino fragile e impopolare. I suoi occhi eterocromatici sono velati da una tristezza incontenibile, che da mesi si artiglia alla sua anima fino a spolpargli il nome, trasformandolo per tutti i suoi compagni in Sad, Triste.
Suo padre Ninetto è una delle tante morti sul lavoro, per Corrado è l’unica morte che sia stata in grado di lacerargli la vita e adombrargli lo sguardo. Per questo val bene rischiare e inoltrarsi nella dimora decadente di Eleanor Mallow, un’anziana signora uccisa sessant’anni prima, durante la notte di Halloween per cercare una leggendaria formula magica in grado di riportare in vita i morti.
Al suo fianco c’è Mauro, il bullo della scuola che non perde occasione per ridicolizzarlo, dietro di lui, oltre l’alta cancellata, gli occhi verdi di Giulia di cui è innamorato. Corrado/Sad non può più tirarsi indietro.

La ricerca di Sad, però, inciampa nelle pieghe del caso e il vuoto sotto i suoi piedi si trasforma nel terreno umido e molle del cimitero. La testa pulsa e sanguina, i piedi dolgono per le scarpe di vernice strette e gli occhi devono abituarsi alla penombra, ma la carne attorno alle sue ossa è tangibile, la sua fame concreta, il suo spaesamento reale.
Nella cripta lo attendono altri come lui, altri morti solo po’ pronti a guidarlo lungo quei sentieri di non vita sospesi in un limbo di materia e spirito. Isotta, Malto, la stessa Eleanor Mallow sono pronti a fornirgli una mappa di quel nuovo mondo, un bugiardino su cui leggere le precauzioni d’uso, ma soprattutto a renderlo un membro del loro esclusivo club.
Tra i viottoli ghiaiosi e i marmi muschiati la non vita di Sad presenta luci e ombre, che si intrecciano alle anime di coloro che popolano il cimitero. Suo padre Ninetto e suo nonno Bachisio, lo spirito della piccola Leda, l’anima nera di Tony Rossizzo e lo strano guardiano che parla con i fantasmi.
In questa dimensione parallela, assurda quanto concreta, Sad acquisisce consapevolezza del dono che si cela dietro le sue iridi di diverso colore, stringe amicizia con il popolo dei fantasmi e dei morti solo un po’, porta avanti la ricerca della formula magica e il sacrificio d’amore che lo lega al padre, cerca di sfuggire al male che non ha età e dimensione. Il ragazzino nerd e impopolare lascia le sue impronte sul cammino da eroe, risvegliando quell’essenza pulsante che vibra sotto la pelle di ognuno di noi.

Carlo Deffenu popola il suo lavoro di personaggi che di intangibile non hanno nulla. Ognuno di essi è un’entità delineata, con una voce, un carattere, uno sguardo sul mondo propri. Lo stile scorrevole non è sinonimo di banalità, le descrizioni sono precise e mai superflue, e il paesaggio mescola in sé un pizzico di Tim Burton ben dosato.
“Il clan dei cari estinti” solleva il velo su ciò che ci atterrisce di più, la morte, e senza renderla ridicola o troppo leggera, la panneggia con colori diversi, le dona una dimensione alternativa, quasi sopportabile.
C’è una sensibilità nella scrittura dell’autore che emerge sotto la cute trasparente dei corpi non morti, dei fantasmi e dei vivi. Pulsa come sangue caldo e si mescola all’ironia e alla fantasia che si tuffano nei ventricoli di un libro che si legge d’un fiato e che lascia il lettore con la speranza che in futuro ci sia ancora un altro battito da poter ascoltare.

Neraluna, di Carla Fortebracci

C’è un filo rosso che lega, fino ad avvilupparli con forza, i protagonisti del romanzo Neraluna di Carla Fortebracci, edito da Watson Edizioni. Lo spago, quasi un cappio al collo, è un’antica profezia che ha percorso in sordina gli ultimi secoli e ora procede a grandi falcate per raggiungere il compimento. A essere fagocita da questo destino vischioso è Valeria, una donna a cui la vita non ha regalato nulla, se non un marchio invisibile che la rende una pedina fondamentale sulla scacchiera tra il bene e il male. Ad affiancarla e proteggerla c’è Roy, un capitano dei ROS aitante quanto capace, che alterna fascino a intuizione e con il quale la passione trova un nuovo sbocco e un nuovo senso d’essere.

Neraluna discende nelle viscere di un male antico, vergato su vecchi tomi, inciso sulla pietra, scolpito nella vita di uomini e donne che lo preservano e lo adorano fino a sacrificare l’ultima stilla della loro umanità. Valeria e Roy vengono inghiottiti dalla voragine nera di una setta sanguinaria, tra i vicoli nauseabondi di una Calcutta dimenticata, tra i paesaggi naturali e mistici di Ischia, fino alle rovine di una Roma antica ma non sopita. I fili appiccicosi del sovrannaturale si attaccano al corpo dei due protagonisti come fitte ragnatele, mentre attorno a loro il gorgo diventa sempre più rapido e fagocitante.

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Carla Fortebracci dimostra il suo interesse per il paranormale e ci tiene a rendere edotto anche il lettore, ma talvolta alcune spiegazioni sembrano forzate, incastrate nelle bocche di personaggi senza risultare credibili. La trama di Neraluna alterna, a mio dire, spunti interessanti a troppi cliché che rendono le pagine senza pathos, prive di un vero richiamo. La storia d’amore tra Valerie e Roy, ad esempio, sa di già visto, già gustato e risulta priva di un vero sapore, sciapa. La nota dolente, però, risultano essere i dialoghi. Una delle regole dei grandi scrittori è quello di rileggere a voce alta i dialoghi dei libri per assicurarsi che suonino veritieri e credibili. In Neraluna sono troppi i punti esclamativi che stonano, il lessico o i modi di dire che suonano desueti o non pertinenti con il personaggio che li pronuncia.
Il romanzo della Fortebracci risulta una lettura facile, senza troppe pretese, adatto per chi è appassionato di sovrannaturale senza voler rinunciare alle storie d’amore.

Nero elfico, di Daniele Picciuti

Per fare una pozione occorrono diversi componenti, elementi che mescolandosi tra di loro diano forma a qualcosa di nuovo. Una doppia dose di fantasy, una di humor nero, un pizzico di fantascienza, una manciata di foglie di sesso e tre mestoli abbondati di morti. “Nero elfico”, romanzo di Daniele Picciuti edito dalla Watson edizioni, è un filtro bizzarro, un’ampolla colma di un liquido scuro e vischioso in cui è facile rimanere intrappolati in lettura.

Ponte Spaccato è un villaggio sperduto e i suoi quattrocentocinquanta abitanti conducono una vita semplice, noiosa, avulsa da crimini e avventure. Ignorano, però, che la faglia su cui è adagiato il borgo li strapperà con violenza da quella esistenza, scuotendoli dalle fondamenta. La morte di giovani vergini non è che l’inizio del sentiero, una strada su cui i morti si contano più dei vivi, in cui i crocicchi portano solo in direzioni peggiori e l’orizzonte è sempre più fosco del cielo alle spalle.

L’arrivo di Lacero, mezz’elfo abile con la magia degli elementi tanto quanto con la lama, non aggiusta i cocci rotti ma, anzi, manda in frantumi quei pochi ancora integri. Al suo fianco, mortale e scaltra, Violata, un’umana che fa delle ombre e del sesso le sue carte vincenti. E su, si sale, ci si inerpica tra cataste di cadaveri mentre la trama discende in antri oscuri, popolati da personaggi che di luce non ne hanno mai vista, alla ricerca del Trono d’ossa, artefatto che conferisce il dominio sui morti. E allora anche gli antieroi Lacero e Violata acquistano valore, la trama della loro esistenza si lega alla nostra lettura, si intreccia con il desiderio di camminare sui loro passi, di seguire le loro orme tinte di sangue.

Per i nomi di “Nero elfico” l’autore sembra aver optato per una scelta precisa. Seguendo il motto latino nomen omen, il nome è un presagio, Picciuti chiama i personaggi secondo la loro caratteristica preminente, fisica o mentale, o per il lavoro che svolgono. Il fabbro si chiama Inchiodato, il mago Grimorio, il paladino Fierbaldo. E allora viene da chiedersi perché per la protagonista abbia utilizzato il participio passato di violare, quasi quella donna, assassina seducente, nasconda ben più di lame taglienti e uno sguardo penetrante. E Lacero, forse, non è solo il prodotto di una daga contro la carne, ma l’anima squarciata di chi appartiene a due mondi distinti.

Pagine di diario, flashback, pensieri, incorniciano una narrazione tradizionale, formando un’ampolla curiosa per un altrettanto curioso contenuto. Quella di “Nero elfico” non è una ricetta classica, forse non è nemmeno la ricetta meglio riuscita, ma il risultato lascia un sapore gradevole in bocca, tra qualche punta di amaro e una scia acre e pungente. Insomma, un secondo capitolo per gli antieroi Violata e Lacero c’è da aspettarselo.
“Nero elfico” ha vinto anche il premio Cittadella come migliore romanzo fantasy, assegnato lo scorso marzo all’interno della 17esima edizione della Deepcon, annuale convention dell’associazione Deep Space 1.