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Resident Evil: The final chapter, di Paul W. S. Anderson

Resident Evil: The final chapter, sequel naturale di Resident Evil: Retribution (2012), è il sesto ed ultimo capitolo (ma non ci giurerei! una serie-tv potremmo aspettarcela) della saga sci-fi/horror Resident Evil, realizzata come adattamento cinematografico della riuscitissima serie omonima di survival game targata Capcom.

«A volte penso che la mia vita sia stata questo: correre, uccidere…»

L’abbiamo conosciuta ed apprezzata nel 2002, quando Alice [Milla Jovovich] si svegliava in un mondo reso l’inferno in Terra dagli esperimenti della Umbrella Corporation, priva di memoria in un vano doccia, coperta dalla sola tendina, forse divelta nella caduta. Tralasciando quanto abbiamo odiato quella dannata tenda da doccia, già antiestetica e fastidiosa per sua natura, è stata una gradita sorpresa scoprire, in seguito ad una maratona dettata da un’auspicabile onestà di giudizio, quanto la coerenza narrativa sia stata curata nel minimo particolare e come ogni nodo giunga al pettine, in un finale che ha forse l’unica pecca di arrivare tardi e quindi carico di doverose aspettative, un po’ deluse dalla maniera un po’ sbrigativa con cui è stato liquidato il problema del virus apocalittico.

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La resa dei conti è a Raccoon City, il luogo dove tutto ha avuto inizio, il luogo dove tutto finirà, in un modo o nell’altro. E sarà anche l’ultima tappa evolutiva della protagonista, il cosiddetto Progetto Alice. Da donna senza passato risvegliatasi in un mondo senza futuro a semidea madre dotata di poteri ESP, fino a diventare l’ultimo baluardo di un’umanità tradita da chi l’avrebbe dovuta difendere, l’Umbrella Corporation, e che invece ha ibernato la classe dirigente in modernissime bare da vampiri d’altri tempi (Lifeforce di Tobe Hooper, conosciuto in Italia come Space vampires, è un chiaro riferimento), lasciando che siano le classi meno abbienti ad estinguersi, come fossero le uniche depositarie di un Male ancestrale, da estirpare nella maniera più lenta e spettacolare possibile tra non-morti affamati, lickers, cerberi, orrendi draghi volanti (ispirati dai jabberwock carrolliani?) e tutto quanto la Capcom abbia mai ideato per il divertimento di milioni di survival gamers in tutto il mondo in più di vent’anni.

«Dieci anni fa, nell’Alveare, abbiamo fallito entrambe. È tempo di rimediare a quel nostro errore!»

I non troppo velati rimandi al romanzo di Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò continuano nell’estenuante corsa contro il tempo dell’ormai iconico personaggio di Milla, guidata dall’intelligenza artificiale chiamata Regina Rossa [interpretata da Ever Gabo Anderson, figlia della Jovovich e del regista, al suo esordio assoluto], di nuovo sottoterra, tra metamorfosi, inganni, strategie e tradimenti.

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Non mancano, in tutto il percorso narrativo, elementi che fanno riferimento anche ad altri romanzi di formazione, ricchi di simbologie e sottotesti filosofici, come il Frankenstein di Mary Shelley o il Pinocchio di Collodi, che si perdono nella fitta rete di richiami alle vicende videoludiche, che vanno dalla maniacale ricostruzione degli ambienti alla realizzazione delle stesse indimenticabili inquadrature che hanno rappresentato la cifra stilistica del brand: l’orrido pasto di zombie famelici in branco, visto attraverso un crane all’indietro, per fornire un esempio concreto. «Abbiamo dipinto tutte le rocce di nero per rendere il set [in Sudafrica] più cupo e inquietante», lo stesso metodo utilizzato da Michael Mann per La fortezza, ha dichiarato soddisfatto Paul W. S. Anderson, regista di un terzo dei Resident Evil, ma sceneggiatore anche di Apocalypse e Afterlife che, dopo aver diretto questo The final chapter, si cimenterà ancora con la trasposizione cinematografica di un brand Capcom: Monster hunter, un quest game di ambientazione fantasy in cui i protagonisti vanno a caccia di mostri.

La conclusione legittima di quella che si potrebbe definire la Chanson de Alice si svolge in una sorta di labirinto del Minotauro che cita in parte Cube e in parte Saw e che metterà tutti d’accordo almeno su un fatto importante: Milla Jovovich, classe 1975, vale da sola il prezzo del biglietto, come al solito, se non altro per vederla nelle vesti di un nuovo personaggio, una sorpresa che non si può svelare neanche sotto tortura.

«Ecco, la trinità delle puttane unita nell’odio!»

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Attesissimo in Giappone, dove è stato uno dei titoli di punta del periodo natalizio, The final chapter è stato distribuito negli Stati Uniti anche nei formati 3D e IMAX 3D e ha già incassato 135.000.000 $ in tutto il mondo.

Tridimensionalità, ecco, parliamone!

Giustamente, mettendosi nei panni dei produttori, perché privarsene? Resident Evil è sempre stato al passo con i tempi, si è saputo adattare, adeguare, migliorare, in una parola evolvere. Quindi ci si chiede perché non realizzare un film con un 3D nativo (cioè girato fin da subito con questa tecnica) e sfruttare invece l’alta definizione di ripresa 2D fornita dalla simbiosi tra lenti Zeiss Ultra Prime e Red Epic Dragon camera per poi operare una sempre poco apprezzabile conversione 3D a posteriori. Scelte che poi si sposano ancora peggio con la visione in sala attraverso occhialetti privi di sensore di ultima generazione che costringono a posizioni da contorsionista per permettere allo spettacolo tridimensionale di avere l’effetto desiderato. Provare per credere: scivolare giù sulla poltrona cercando di allineare il limite inferiore delle lenti alla linea dello schienale della fila davanti, ovviamente libera da ostacoli.

Il film è dedicato alla memoria dello stuntman Ricardo Cornelius, morto in un incidente durante le riprese in Sudafrica, che sono costate anche un braccio a Olivia Jackson, principale controfigura di Milla Jovovich. Una nota dolente che si va ad aggiungere alla dubbiosa comparsa di un importante oggetto di scena proprio alla fine: come fa a star lì? Chi ce l’ha portato? Di certo non l’ologramma della Regina Rossa…che alla fine degli end credits saluta il pubblico alla sua maniera!

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Zombie massacre saga, di Luca Boni e Marco Ristori in DVD

Uno Z-Movie, anzi due. “Zeta” per “zombie”? Se proprio dovete, sì. Ma più che altro con la lettera Z si classifica l’ultimo stadio del cinema, i peggiori film della storia, che però hanno ottenuto quantomeno di essere visti per qualche motivo. I registi di Zombie Massacre e Zombie Massacre 2: Reich of the dead, i due lungometraggi che compongono la saga riunita da Koch Media Entertainment nel cofanetto limited edition della collana Midnight Factory, ne sono consapevoli e ne danno piena prova nella loro esilarante intervista che si trova tra gli extra del secondo film.

«Aspettiamoci il peggio!».

Con l’occasione, appare necessaria una piccola escursione nei meandri della classificazione cinematografica. Per B-movie, o film di serie B, si indica solitamente un film a basso costo o di dubbia qualità, di qualunque genere o sottogenere. Nella recensione del cofanetto Amer/Lacrime di sangue abbiamo accennato all’espediente del doppio spettacolo e questa pratica è legata proprio a questo livello di qualità dei film, nato negli anni trenta negli Stati Uniti per contrastare il calo di spettatori nelle sale. Pagando un solo biglietto si poteva vedere un film in più ma questo portava ad una certa celerità nella realizzazione e ad una durata inferiore ai settanta minuti. Soprattutto western e noir inizialmente, poi anche fantascienza e orrore, girati in pochi giorni e sfruttando scenografie e costumi di altri film ben più costosi. Roger Corman ne è stato un maestro e i suoi tantissimi film un campione rappresentativo di tutti i generi, tanto da scrivere un interessante libro sull’argomento Come ho fatto cento film a Hollywood senza mai perdere un dollaro.

Curioso che ancora non si sia riusciti a scoprire l’origine del nome, o meglio, della “B”. Secondo alcuni viene da “Bottom of the Bill” perché il loro titolo era scritto in fondo al manifesto del film che accompagnavano al doppio spettacolo; secondo altri invece viene da “Bread and Butter” cioè film girati per guadagnare il pane, per vivere, che equivarrebbe al romanesco “tanto pe’ campà”. Il termine è poi assurto a classificare le pellicole girate in fretta, senza particolari pretese. Questo però non vuol dire sempre e solo scarsa qualità. Lo stesso Corman ha realizzato in questo contesto il tanto acclamato ciclo di film tratti dai racconti Edgar Allan Poe, diventati dei classici ormai cult-movie.

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Con il termine Z-movie, invece, s’intende il cosiddetto cinema trash, il “cinema spazzatura”, ovvero quei film realizzati con costi e con qualità inferiore rispetto addirittura ai film di serie B. Da non confondere con i generi exploitation, kitsch e camp.

Lo scrittore Tommaso Labranca ritiene che siano cinque le caratteristiche riscontrabili nel genere trash: l’estrema libertà d’espressione, il “massimalismo”, cioè seguire un modello senza preoccuparsi di imitarlo alla lettera, l’emulazione fallita dei modelli di riferimento, la contaminatio tra i generi, l’indifferenza nei confronti delle incongruenze nella trama.

Il termine Z-movie nasce nella metà degli anni sessanta, quindi, per definire proprio questo tipo di film di infima qualità, senza ombra di dubbio, con standard qualitativi e tecnici inferiori rispetto alla maggior parte dei film di serie B, o di una eventuale serie C, e neanche lontanamente paragonabili al cinema di alto livello. Wikipedia sentenzia che «Nonostante i film di serie B abbiano una trama mediocre e un cast composto da attori prevalentemente sconosciuti o alla loro prima esperienza cinematografica, spesso hanno una illuminazione, un montaggio e una regia fatte in modo adeguato, mentre i film di serie C, pur presentando uno scarso budget, sono generalmente prodotti per l’industria cinematografica commerciale e quindi tendono a rispettare determinate norme di produzione. I film trash, a differenza dei precedenti, spesso non sono prodotti a fini commerciali e spesso sono realizzati con un budget molto limitato. Il primo uso del termine “grade-z movie” (che all’epoca non aveva il significato dispregiativo odierno) si trova nella recensione giornalistica scritta nel gennaio 1965 dal critico Kevin Thomas sul film La tomba di Ligeia (1964), un film dell’American International Pictures diretto da Roger Corman. Il regista Ed Wood è spesso ritenuto il creatore per antonomasia dei film trash, talvolta definito come il “peggior regista nella storia del cinema”. Con la popolarità di mezzi come YouTube, i film a basso costo stanno avendo una rinascita: tra i tanti esempi merita una citazione Melonheads, in origine pubblicato su YouTube, ha ottenuto successo dopo esser stato descritto in un articolo su cracked.com».

IL DVD

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«Lasciate ogni speranza, o voi che entrate!».

Un’arma batteriologica, sviluppata dagli Stati Uniti per creare un super soldato, si diffonde nell’aria colpendo una piccola e tranquilla città nell’est europeo. Tutti i cittadini della città vengono infettati da questa arma e si trasformano in zombie.

Il piano per salvaguardare l’umanità è portare una bomba atomica nella centrale nucleare della città e fingere un incidente terribile per eliminare il problema. Nessuno deve sapere la verità e per ottenere questo viene ingaggiato un commando di mercenari. La battaglia sarà accesa e orde di mostri e creature si scaglieranno contro questo gruppo di uomini coraggiosi.

REGIA: Luca Boni, Marco Ristori INTERPRETI: Christian Boeving, Mike Mitchell, Tara Cardinal, Jon Campling, Carl Wharton, Daniel Vivian, Nathalia Henao, Gerry Shanahan, Ivy Corbin, Michael Segal, Uwe Boll, David White TITOLO ORIGINALE: Zombie Massacre (UK DVD title: Apocalypse Z) GENERE: trash, horror DURATA: 87′ ORIGINE: Italia – USA – Germania – Canada, 2013 LINGUE: Italiano 5.1 DTS-HD Master Audio, Inglese 5.1 DTS-HD Master Audio SOTTOTITOLI: Italiano per non udenti EXTRA: Trailer – Teaser – Superfreak – The making of Zombie Massacre– Photogallery – Storyboard comparison – Join the massacre – The making of teaser – Foley sound effects DISTRIBUZIONE: Koch Media COLLANA: Midnight Factory

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Saccheggiando flebili ombre di personaggi da I Mercenari, da 1997: fuga da New York o da Aeon flux, ingegnando trovate sceniche grossolane o dialoghi improponibili e lunghissimi anche per una rimpatriata di opossum ubriachi, e interrogandosi su come si possa ancora usare una bomba atomica come rimedio ad un contagio di zombie e pensare di sopravvivere alle conseguenze della devastazione a bordo di un’auto d’epoca decappottabile, il film scorre mentre lo spettatore solitario conta i minuti interminabili che lo separano dalla parola “fine”. Per non parlare dei dialoghi pseudotarantiniani, che echeggiano luoghi comuni, superficialmente giustapposti su una masnada di personaggi, che appaiono da subito come le grossolane caricature dei loro modelli di riferimento. A gettare benzina sul fuoco contribuiscono poi cartelli segnaletici nuovi di zecca, divise militari pulite e inamidate, jeep appena uscite dal concessionario, fucili lucidi, visi curatissimi e mai sudati, anche quelli di chi, in visibile sovrappeso, corre carico di zavorre, uffici segreti spogli ma appena spolverati, bagliori fissi su chi osserva monitor di sorveglianza, uccisioni di zombie al limite del ridicolo, un mostro-boss di fine livello che cita il Toxic Avenger della Throma, un bazooka senza rinculo equipaggiato con missili dallaa stranissima balistica e combattimenti in spazi angusti che rendono inadatte le katane della nippoirlandese, già nettamente fuoriposto. Il consiglio è di vederlo con gli amici, accompagnandolo con birra e stuzzichini, per prenderla in maniera goliardica e divertirsi, come si sono divertiti i realizzatori, Luca Boni e Marco Ristori. Per veri appassionati del genere trash, non per tutti.

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Durante la Seconda Guerra Mondiale, una squadra di coraggiosi militari americani dovrá combattere un’orda di famelici zombie creati dai nazisti utilizzando i prigionieri di guerra incarcerati nei campi di concentramento. Avranno soltanto una notte per salvare le proprie vite e combattere nemici che diventano sempre più forti…

«Giuro che non ho mai sentito parlare tanto in vita mia!».

REGIA: Luca Boni, Marco Ristori INTERPRETI: Andrew Harwood Mills, Dan van Husen, Aaron Stielstra, Ally McClelland, Michael Segal, Lucy Drive, Marco Ristori, Luca Boni TITOLO ORIGINALE: Zombie Massacre 2: Reich of the Dead GENERE: trash, horror DURATA: 80′ ORIGINE: Canada – Italia, 2015 LINGUE: Italiano 5.1 DTS, Italiano 5.1 Dolby Digital, Inglese 5.1 Dolby Digital SOTTOTITOLI: Italiano EXTRA: Trailer – Backstage (44’ circa) – Credits DISTRIBUZIONE: Koch Media COLLANA: Midnight Factory

Il produttore Uwe Boll ha fortemente voluto il seguito di Zombie Massacre. Probabilmente solo lui. Ma nonostante le molte incongruenze, questo film scorre un po’ meglio del primo, pur rimanendo vedibile solo per veri appassionati del trash.

«La vera domanda è “perché?”».

Midnight Factory è una nuova collana di classici contemporanei di cinema horror, thriller e fantasy mondiale. La serie si propone di portare in Italia il meglio della produzione internazionale del genere: film inediti, indipendenti, dei grandi maestri, delle giovani promesse, classici del passato, pellicole bizzarre ed estreme, piccole chicche e sequel di successi conclamati che si mescoleranno insieme secondo il comune denominatore della qualità” [cfr. booklet interno].

Con la selezione della saga Zombie Massacre, Midnight Factory ha voluto legare il suo nome anche al genere trash e non poteva che scegliere il meglio, solo che il meglio del peggio è un peggio all’ennesima potenza e quindi si va veramente a toccare il fondo, anche se l’ultimo Dario Argento ci ha spinto sempre più verso nuovi orizzonti nello scavare verso l’inferno del cinema.

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Zombie Massacre Saga può quindi avvalersi di un’edizione DVD a tiratura limitata, doppio disco, di prestigio con packaging versione slip case, ovvero una classica custodia amaray all’interno di un involucro di cartone con apertura laterale. Audio multicanale sia in DTS sia in Dolby Digital, altamente consigliato se si vogliono vivere appieno tutte le emozioni ricreate dai registi. Il formato video, uno spettacolare anamorphic widescreen, secondo il rapporto 2.35:1 per il primo film e 2.40:1 per il seguito, esalta ai massimi livelli il trucco, perla da salvare dal trogolo, opera di Carlo Diamantini, uno dei realizzatori degli effetti de Il racconto dei racconti. Tra gli extra c’è da segnalare l’esilarante backstage/intervista dei due registi, che sono davvero autoironici e simpaticissimi, consci di aver creato un piccolo “caso” commerciale partendo da sottozero.

Il film è vietato ai minori di 14 anni, perché le risate, se incontrollate, potrebbero crear danni irreparabili al cervello e dimenticarsi delle preoccupazioni per vivere spensieratamente, con leggerezza la vita di tutti i giorni. Consigliato per una serata con amici a sbudellarsi di risate, sparando commenti esilaranti a raffica in stile Gialappa’s Band. Godetevela goliardicamente! Ma non esagerate con le saghe!

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PPZ – Pride + Prejudice + Zombies, di Burr Steers

Londra è in cenere. Un fiume di sangue circonda la città mentre orde di zombie putrescenti si spingono sempre più violentemente verso la placida campagna. Quello che un tempo era un paradiso bucolico, turbato a malapena dal frivolo chiacchiericcio dei salotti durante il tè pomeridiano e dai balli, ora è un inferno in terra. Gli zombie sono ovunque, hanno fame di cervelli come le fanciulle di mariti. Entrano nei palazzi, nelle chiese, attaccano le carrozze dei nobili e le capanne dei contadini senza fare distinzioni di sorta, seguendo unicamente l’istinto di nutrirsi di carne umana.

Da quando i non morti hanno fatto irruzione sulla scena tutto è cambiato nella vecchia Inghilterra regency e le fanciulle sono state costrette a pulire i moschetti mentre sorseggiano il tè, hanno imparato a combattere per sopravvivere e infilare i coltelli nel reggicalze con estrema maestria. Le cinque sorelle Bennet sono le più abili con le armi di tutta Netherfield, hanno studiato le arti marziali cinesi e si allenano da mattina ad uccidere zombie, invece di dedicarsi alla nobile arte di agghindarsi come bambole di porcellana per cercare marito. Ma non tutto è perduto, perché uno degli scapoli più ricchi in circolazione, il signor Bingley, ha messo gli occhi sulla sorella più grande, Jane, e il suo caro amico Darcy è rimasto profondamente colpito dalla tecnica di combattimento della bellissima Elizabeth, che però non osa cedere a nessun corteggiatore in attesa di trovare l’uomo giusto, che non gli chiederà mai di abbandonare la spada per un anello.

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Nonostante l’apocalisse zombie abbia portato dritto all’inferno Orgoglio e Pregiudizio, Burr Steers segue l’esempio di Seth Grahame-Smith, dal cui romanzo Pride and Prejudice and Zombies è stato tratto il film, e lascia invariato lo spirito dei personaggi ma gli mette alle calcagna orde di zombie affamati. A prima vista il mondo di pizzi e crinoline dipinto da Jane Austen sembra intatto, nei costumi come nel linguaggio, ma ad uno sguardo più attento non si può fare a meno di notare che l’alta borghesia ottocentesca gronda sangue da tutte le parti.

Ed è proprio da questo bizzarro pastiche di generi letterari in cui horror, commedia e romanticismo d’altri tempi si fondono alla perfezione che nasce Pride + Prejudice + Zombies, che condensa il romanzo di Seth Grahame-Smith accentuando l’aspetto comico della vicenda e smorzando le sequenze splatter. Un vero peccato se si considera che è proprio nell’irruzione dell’orrore in un’opera insospettabile che si trova l’intuizione di Grahame-Smith, nei combattimenti paradossali e nella brutalità degli zombie che viaggiano in carrozza in abito di seta. Burr Steers invece edulcora la scena, e si concentra sull’intreccio amoroso tra la ribelle Elizabeth e lo scapolo d’oro Darcy, mettendo curiosamente in primo piano Mr. Collins (Matt Smith), l’ossessivo pretendente di Elizabeth che, se nell’opera della Austen era relegato a un ruolo marginale, qui è il fulcro della comicità di tutta l’opera e probabilmente il personaggio più riuscito. Gli ingredienti giusti ci sono tutti, commedia, azione, amore e sangue quanto basta, ma Steers perde l’occasione di realizzare un film memorabile, originale e brillante come il romanzo che l’ha preceduto.

Zombitudine, di Elvira Frosini e Daniele Timpano

Gli zombi stanno arrivando. Scappate se potete o rifugiatevi al Teatro dell’Orologio che offre riparo dall’apocalisse zombi dal 2 al 23 novembre. Zombitudine, scritto e interpretato da Elvira Frosini e Daniele Timpano, vi terrà compagnia in attesa dell’invasione definitiva.

L’apocalisse zombi è scoppiata. Gli zombi sono ovunque, hanno invaso le strade, le metro e i palazzi del governo, sono i nostri vicini di casa, i nostri colleghi e i passanti che ci sfiorano con gli occhi incollati ai loro cellulari di ultima generazione. L’epidemia è scoppiata da tempo e senza che ce ne accorgessimo si è insinuata silenziosamente nei nostri cervelli intaccando ogni cellula del nostro corpo, per sempre. L’economia ha sferrato il suo colpo letale all’umanità e l’ha ridotta ad un branco di creature non pensanti, di zombi che seguono capricciosamente le tendenze del mercato per sentirsi ancora vivi. Manca la forza di mostrare la propria personalità per distinguersi dall’orda e per ribellarsi ad una morte cerebrale da cui non è possibile svegliarsi. La Zombitudine è la malattia di questo secolo. Non c’è cura e non c’è ritorno, l’unica possibilità di sopravvivere è nascondersi bene dagli altri zombi, scegliendo posti sicuri come i cimiteri, dove ci sono i morti veri, i tetti o i teatri da cui gli zombi si tengono a debita distanza, e attendere che qualcosa cambi o che gli zombi sfondino le porte per mangiarci il cervello.

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Le regole per sopravvivere sono poche e chiare: vietato tornare e vietato risorgere, non fare programmi a lungo termine, non essere il primo del gruppo perché i primi del gruppo sono i primi a morire, e non seguire il leader perché chi segue il leader è destinato a fare una morte spaventosa, diffida dai dissidenti perché in questo stato la democrazia non esiste e chi contesta il leader viene eliminato tutto. In altre parole per sopravvivere bisogna essere invisibile, non fare rumore e non agitare le acque, e restare dietro le quinte in attesa che qualcun altro faccia il lavoro sporco. Abbiamo seguito le istruzioni alla lettera ed ora siamo qui, in un teatro soffocato da un fumo opalescente e da una musica assordante. Un uomo e una donna sono sul palcoscenico, soli con una valigia demodè tra le mani. Non si sa se sono vivi o morti, se la zombitudine li ha già contagiati o se sono gli ultimi superstiti. Sembrano venire da un’altra epoca, ma ad uno sguardo più attento si comportano proprio come noi, e in men che non si dica tirano fuori dalla tasca un telefonino per scattarsi un selfie commemorativo di un momento storico: l’invasione zombi dell’intero pianeta.

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Elvira Frosini e Daniele Timpano sono il risultato della società che noi stessi abbiamo creato, e che ci ha risucchiato il cervello in un vuoto cosmico fatto di omologazione e impotenza. Loro sono come noi, incapaci di prendere una posizione, di scegliere un leader e incatenati nell’attesa di un cambiamento che non avverrà mai. Con l’umorismo nero che li contraddistingue criticano duramente la società di zombi in cui ci troviamo, ma ammettono candidamente di farne parte e di essersi arresi a una fine inevitabile. I dialoghi brillanti intessuti tra citazioni colte e atmosfere cinematografiche orrorifiche tengono in vita chiunque si sia rifugiato nel teatro per tutto il tempo della rappresentazione, e alternando la luce della speranza all’oscurità della rassegnazione, Elvira Frosini e Daniele Timpano non perdono mai di vista la possibilità di salvarsi dagli zombi, di risollevarsi dalla massificazione e di ricominciare a vivere partendo proprio dal teatro, un luogo pulsante di nuova linfa vitale e ancora inattaccato dalla zombitudine collettiva. Gli zombi sono alle porte, spingono dall’esterno per entrare, non rimane molto tempo, ma forse possiamo ancora salvarci.