Veloce come il vento, di Matteo Rovere

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Giulia De Martino ha diciassette anni e discende da una famiglia che ha dedicato tutto alle macchine ed ai motori. Adrenalina e paura si mischiano nello sguardo azzurro di un giovane talento del mondo delle corse, un diamante da sgrezzare che tuttavia deve fare i conti con la vita e i problemi, i dolori e le perdite che irrompono in essa improvvisi e inattesi: la morte del padre, un fratellino di cui prendersi cura da sola, un campionato Gran Turismo che deve essere vinto per salvare l’unica cosa che è rimasta a Giulia e al piccolo Nico, la loro casa, una cascina sperduta in mezzo alla campagna imolese. È proprio l’unica e precaria eredità paterna a far ritornare dal passato Loris, il fratello maggiore, ex-leggenda del rally ‘parcheggiata’ ormai da troppo tempo dentro il tunnel della tossicodipendenza. I superstiti della famiglia si ritrovano dunque, costretti gioco-forza ad una difficile e improbabile convivenza, ma buon sangue non mente ed una e troppo forte è la passione che scorre in quello dei De Martino.

Veloce come il vento, l’ultimo film di Matteo Rovere, è un’ulteriore e preziosa tappa della piccola renaissance del cinema italiano degli ultimi due-tre anni: una rinascita capeggiata e portata avanti soprattutto da giovani registi che, cresciuti a pane e cinema di ogni genere e tempo, dimostrano di aver introiettato e fatto proprie le più varie ed eterogenee lezioni, riuscendo poi a rappresentare e valorizzare sapientemente tratti e caratteri distintivi italiani, o persino più localizzati, in forme e linguaggi dal respiro globale. Un ‘glocal’ inedito insomma, fresco e vitale, che riesce con leggerezza ed armonia a coniugare film di genere e sguardo autoriale.

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Come si accennava sopra, Veloce come il vento rientra pienamente in questo discorso: con esso dopo tanti, forse troppi anni, si torna a praticare in Italia il genere del ‘race movie’, e se è innegabile una parentela con i vari Rush e Fast and Furious (e qualche velato riferimento a Rocky), essa è del tutto superficiale, dato che il film di Rovere affonda le sue radici nell’Emilia-Romagna, terra consacrata ai motori, e guarda soprattutto al mondo del Rally degli anni ’80 e ’90, quello del ‘gruppo B’ per intenderci, estremo e senza regole. Veloce come il vento non ha nulla della patinata Formula 1, al pari del mondo da cui trae linfa vitale è un film ‘artigianale’ dove, a fronte del titolo originale in inglese Italian race, si parla una lingua in cui i rombi dei motori e lo stridore dei freni si incontrano con quel dialetto emiliano-romagnolo tutto sangue, corpo e sbruffoneria.

Ciò che si vede nel film di Rovere è vero, e proprio per questo si crea adrenalina: la macchina da presa segue ritmi vertiginosi, viene sballottata a destra e a sinistra, facendo trattenere il respiro allo spettatore che senza accorgersene sussulta e partecipa, trascinato sulla pista. Veloce come il vento colpisce, tiene col fiato sospeso, eppure non si esaurisce in ciò. Come ben rispecchia la bellissima colonna sonora, oltre e più della scarica adrenalinica emerge – ed è lì lo sguardo autoriale – una delicata sensibilità: quella che recupera la vera storia di Carlo Capone, campione di rally smarritosi lungo il percorso di una vita sopra le righe, per crearne poi un’altra, nella quale i personaggi si sviluppano liberamente una volta messi a contatto gli uni con gli altri. Due, ovviamente favoriti dai ruoli, spiccano su tutti: la protagonista, a cui la giovane attrice esordiente Matilda De Angelis dona profondità e verità grazie ad una recitazione equilibrata e ad un’autentica partecipazione. Giulia è un personaggio la cui complessità ben si riassume nella contraddizione tra un look rock e aggressivo e la compostezza e la rigidità di chi, sentendo gravare sulle proprie spalle il peso dei problemi di tutti, sacrifica le fragilità e l’emotività proprie di ogni adolescente. Il suo contrappeso, forse necessario, è Loris: una creatura che nasce anche dalla sorprendente interpretazione di un irriconoscibile e notevolissimo Stefano Accorsi. Un incrocio tra il folle e il disperato, che nel suo sopravvivere risulta continuamente borderline tra tossicità e genuinità campagnola, nebbia mentale e sesto senso innato, pulsioni autodistruttive e un’insopprimibile scintilla di vita.

Dall’incontro-scontro tra questi due personaggi sembra affiorare un messaggio: nella vita come in pista ‘le curve sono tante, il difficile spesso è vederle’, e se non puoi vedere alle volte tocca smettere di pensare e sentire, veloci come il vento, anche a costo di correre dei rischi. Così il film di Rovere trascende il film di genere e rivela una ricchezza e un’intensità notevoli, ponendo al centro dell’attenzione una storia di crescita, di redenzione, ma soprattutto di una difficile ricomposizione familiare in cui la vittoria umana viene prima di quella sportiva.

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