Une vie (Una vita) è la storia di Jeanne du Perthuis des Vauds, eroina del primo romanzo di Guy de Maupassant, elogiato da Tolstoj come la massima espressione narrativa francese, dopo “I miserabili” di Victor Hugo. Nel passaggio dal romanzo al film, il regista Stéphane Brizé rivolge lo sguardo unicamente alla protagonista, concentrando su di lei e sulle sue emozioni tutta la narrazione: il risultato è un film in costume assolutamente atipico, lontano dal temperamento romantico che ci si potrebbe aspettare dalla trasposizione di un romanzo d’appendice.
Come premette il titolo, “Une vie” segue il percorso di formazione individuale di Jeanne – interpretata da Judith Chemla – a partire dall’amorevole rapporto con i genitori, Simon-Jacques Le Perthuis des Vauds (Jean-Pierre Darroussin) e Adélaïde Le Perthuis des Vauds (Yolande Moreau). Nata e vissuta in un contesto rurale, la giovane baronessa incontra presto Julien de Lamare (Swann Arlaud), un nobile caduto in disgrazia in cerca di una compagna e – soprattutto – di una rendita. L’incanto della vita coniugale, cullata nella bambagia familiare, svanisce presto davanti alla perpetuata infedeltà di Julien e al suo cinismo: questa crisi, che terminerà in tragedia, dà il la a una serie di disgrazie che porteranno, fino alla fine, la protagonista a scontrarsi con la dura realtà e con la definitiva perdita dell’illusione.
Così come ne “The Measure of a Man” (2015), Brizé affronta la rottura dell’ideale attraverso l’accanimento del destino sulla vita dei suoi protagonisti, proseguendo la sua indagine artistica nel confronto tra Uomo e Società. Per rendere con maggiore intensità la sofferenza umana, il regista francese si serve, in “Une vie”, di una serie di espedienti tecnici, a partire dall’audio, volutamente in mono per rendere con maggiore efficacia il punto di vista unico del personaggio, fino ai lunghi silenzi e agli sguardi eloquenti della sua bravissima attrice protagonista. La sceneggiatura, infatti, più che sul dialogo vero e proprio, si basa sul racconto trasversale delle lettere che i personaggi scambiano tra loro e sulle reazioni espressive che queste riescono a provocare. Ancora, Brizé sceglie di rappresentare la storia quasi come un documentario, non lesinando dettagli fisici sconvenienti – quali il sudore, la sporcizia e l’invecchiamento – e seguendo spesso i personaggi con la camera a mano. Il risultato è un film impegnativo, ma che riesce senz’altro a rendere l’epoca raccontata – il diciannovesimo secolo – con uno stile immersivo, in grado di far sentire lo spettatore catapultato in un’altra epoca reale e non in una sua rappresentazione manierata.
Lo sguardo fotografico, ristretto a un’illuminazione per lo più naturale, riesce a inquadrare con oggettività i dettagli e i paesaggi, dando vita a una serie di tableaux vivants che ricordano la produzione pittorica ottocentesca, ricca di boschi, campagne e natura incontaminata. L’effetto pittorico, non voluto – anzi osteggiato – dal regista, è però piuttosto immediato, data anche la scelta del formato 1:33, che ritaglia l’immagine in confini quasi quadrati.
“Une vie” è un racconto malinconico, con frequenti picchi tragici, che isola in maniera esemplare la bontà dell’eroina e la rende martire della buona fede. Una denuncia, attraverso un romanzo antico nella scrittura, ma contemporaneo nei temi, della condizione subalterna della donna, dal suo rapporto con il sesso e con l’amore, a quello con il denaro. Nella sentenza conclusiva, però, il regista mette un punto al senso di persecuzione di genere, dichiarando l’assoluta oggettività del caso e la responsabilità dell’individuo nei confronti delle disgrazie. “Une vie” non è un film né semplice né scorrevole, ma un prodotto fortemente intellettuale destinato a un pubblico colto e temprato ai tempi lenti e ai sottotesti esistenziali.