Woman in Gold, di Simon Curtis

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Nel 1907 Adele Bloch-Bauer è una giovane donna austriaca, moglie dell’industriale ebreo Ferdinand Bloch-Bauer: la coppia potrebbe rappresentare il prototipo perfetto di matrimonio felice se non fosse per l’assenza di figli. La tristezza per il suo stato non isterilisce il cuore di Adele che si dedica anima e corpo a crescere le figlie della sorella vivendo così in una sorta di famiglia allargata. Proprio nel palazzo di Vienna in cui le due famiglie convivono, la nipotina Maria osserva Gustav Klimt, un bizzarro artista appassionato di decorazioni in oro, ritrarre l’amata zia dispensatrice di consigli preziosi sull’amore e sulla vita.
Il Ritratto di Adele Bloch-Bauer campeggia nel salone di rappresentanza, splendido ricordo di un’epoca meravigliosa. Passano i decenni e all’alba del XXI secolo Maria Altman (Helen Mirren) è un’anziana ebrea austriaca trapiantata negli Stati Uniti da più di cinquant’anni, ormai dimentica degli orrori della seconda guerra mondiale e di una nazione incapace di reagire alle pazzie naziste. Lontano il tempo della morte prematura della zia Adele, lontano il giorno della fuga da Vienna per sfuggire alla persecuzione. Il passato però non può essere completamente sepolto e tra le pieghe della vita emerge spesso con prepotenza: una cartolina della “Gioconda d’Austria” (questo il soprannome del ritratto della zia) le accende la voglia di riappropriarsi di ciò che le spetta e non per il semplice possesso di un quadro ma perché dietro all’oro e alle decorazioni: “Io vedo semplicemente mia zia”. Il giovane avvocato Randol Schönberg (Ryan Reynolds) decide di darle manforte e di intentare una causa apparentemente persa in partenza.

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Simon Curtis torna alla regia di un biopic dopo il successo di My Week with Marilyn (2011) in una pellicola che unisce sapientemente il ritmo incalzante del legal thriller alle note coinvolgenti dei buddy movie alla Philomena. La storia del genocidio ebreo diventa “solo” una delle piccole matrioske da scoprire durante la visione del film. Nella marea delle emozioni che vorticano sullo schermo, scandite da flashback non sempre ben amalgamati con la narrazione contemporanea, uno tra i sentimenti più negativi emerge come il motore delle azioni dei protagonisti. L’egoismo agisce indisturbato non solo sull’avvocato, incantato dalle cifre da capogiro con cui il dipinto oggetto della causa viene valutato, ma anche sull’anziana Maria: riappropriarsi di qualcosa che le spetta di diritto le sembra il modo migliore per fare pace con un passato doloroso, che l’ha vista costretta a lasciare indietro i suoi affetti più cari pur di sopravvivere. Entrambi impareranno nel corso della storia che nulla è semplice come sembra: Randol esorcizzerà il peso di un nome importante da portare (quello del compositore Arnold Franz Walther Schönberg); Maria, pur non riuscendo a riappacificarsi con la storia, troverà una risposta importante ai tanti quesiti dell’esistenza umana. Ognuno di noi è la persona che è grazie a tutto ciò che ha affrontato in passato.
Bella l’accoppiata Reynolds-Mirren, forse così bella da offuscare gli altri momenti della storia in cui non è protagonisti; la storia sembra cucita loro addosso e a tratti si ha la sensazione che il messaggio non riesca ad affermarsi con la forza che merita. Tuttavia, in un’epoca di velocità e di dimenticanze, non guasta mai ricordare con forza uno dei momenti più tristi dell’umanità.

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