Alejandro González Iñárritu

Revenant – Redivivo, di Alejandro González Iñárritu

Cosa vogliamo ottenere quando andiamo al cinema?

La risposta a questa domanda può essere utile a scrivere di Revenant – Redivivo; immaginando di dividerci in grandi gruppi di cineamatori, vediamo in che modo le nostre papille cinefile verranno appagate dalla visione dell’ultima fatica (mai parola fu più azzeccata) di Alejandro González Iñárritu. Sulla trama poche parole: il cacciatore di pelli Hugh Glass (Leonardo DiCaprio) nel 1823, durante una spedizione commerciale nei territori dove nasce il fiume Missouri, viene abbandonato in fin di vita dai suoi compagni, tra cui John Fitzgerald (Tom Hardy), dopo essere stato attaccato da un orso.

Revenant - Redivivo

Gruppo 1: quelli che al cinema cercano un orgasmo estetico

Sul versante della realizzazione tecnico-estetica, Revenant non merita le 12 statuette per cui è candidato. Ne merita molte di più. Dietro a questo capolavoro, vi è il demone partorito dalle due menti più visionarie del cinema, Alejandro González Iñárritu e Emmanuel Lubezki. La fotografia poetica di momenti (esclusivamente) crepuscolari, trova un contraltare perfettamente speculare nelle scelte di montaggio, con tempi perfetti di raccordo tra le scene e ideali legami di storia grazie a particolari ripetuti. Una regia da capogiro, con piani sequenza che si inseguono uno dietro l’altro (dall’inizio nella scena della battaglia del bosco contro gli Arikara, passando per il famigerato attacco di mamma orsa) spinge ai limiti dell’irrealizzabile il gusto tecnico. Non è possibile che una mdp salga e scenda da un cavallo in corsa o che la zampata di un grizzly ferisca irrimediabilmente il corpo dell’attore! Sei costretto a porti delle domande sul piano filosofico: quale è il valore della finzione, essenza stessa del cinema, se ciò a cui assiste lo spettatore non è la ricostruzione di una realtà lontana ma è la realtà vera e propria, più vicina a un documentario che non a una pellicola. Poco male, l’ambientazione scenografica è impeccabile, così evocativa che anche gli eccessi più evidenti vengono eclissati dall’ampiezza dei luoghi; la natura riesce a subissare l’egocentrismo evidente del regista, che non ha semplicemente orchestrato un film; ha fatto in modo che ogni secondo di Revenant trasudasse Iñárritu e la sua esigenza di raccontare portando ai limiti il medium scelto. Sì, perché anche gli appartenenti al gruppo 2 dovranno fare i conti con l’evidente rottura operata dal regista. Se l’arte è quella padronanza così profonda di una tecnica da essere in grado di stravolgerla e piagarla alle proprie esigenze creative, Revenant è un’opera d’arte. Qualunque manuale di regia insegna che lo sguardo in macchina non è ammissibile. Cosa ti fa Iñárritu? Chiude il film con lo sguardo annientato di Leonardo DiCaprio che trafigge l’interiorità dello spettatore. Geniale, come sempre. In Birdman Iñárritu aveva mostrato che dietro a coloro che interpretano i supereroi ci sono essere umani dotati di insicurezze così come tutti; in Revenant ha fatto un racconto poetico del meta-cinema più estremo.

 

Revenant - Redivivo

 

Gruppo 2: quelli che al cinema cercano una storia

Il cinema affabula, non c’è scampo. Per assistere passivi per 2 h e 40 a fotogrammi che scorrono sullo schermo, è necessaria quella magia grazie alla quale un bambino scivola nel sonno dopo il racconto della fiaba della buona notte. Revanant non possiede questo tocco misterioso. Puoi anche shakerare i più bravi attori,  ma se la storia non ha niente di più di una cronaca giornalistica, il risultato rimarrà deludente. Hugh Glass viene presentato in tutta la sua “convenzionale” lotta per la sopravvivenza alimentata dalla sete di vendetta. Una dinamica vista e rivista, poco originale pur nell’eccezionalità dell’ambientazione. E questo non basta per rendere memorabile una performance. Non perché DiCaprio non abbia ben interpretato il ruolo, ma perché è il ruolo in sé a non avere nulla di quel magico potere affabulatorio di cui sopra. La carenza di battute, pur compensata egregiamente da occhi di ghiaccio espressivi come di meglio non potevano essere, non lascia spazio a fraintendimenti. Revenant non racconta una storia; la sua è un’elegia della bellezza del creato, dove per creato intendiamo anche la comunanza di destini degli uomini, esemplificata con potere drammatico dalla dolcissima scena dei fiocchi di neve catturati con la lingua. L’indignazione dei membri di questo gruppo è frenata da Tom Hardy. Lui sì che “dice” tanto, raccontando la parabola di un individuo che non è cattivo per presa di posizione, ma sceglie l’opportunismo per spirito di sopravvivenza. La sua è tutto tondo una storia che spinge a porsi delle domande sulla presunta ma quanto mai smentita frequentemente socialità dell’essere umano.

EXTRA: Gruppo 3: quelli che MadonnamiaquantoèdimagratoChristianBaleperLuomoSenzaSonno

Revenant ha una distribuzione parallela a quella nelle sale cinematografiche. Parlo dei rumors, delle interviste, delle indiscrezioni e della folle curiosità del back stage che ha alimentato anche i più insaziabili voyeurs. Ancora una volta il rapporto finzione- realtà viene a mancare: si è raccontato così di tanto ciò che ha preceduto il film da non lasciare nulla all’immaginazione e al dubbio (“Davvero si è immerso nel fiume ghiacciato?” Spoiler alert: sì, l’ha fatto) se ciò a cui stiamo assistendo sia una rappresentazione fittizia della realtà o realtà pura. DiCaprio e Hardy meritano un Oscar perché questo training folle li ha sfiancati? Non so dare una risposta. In fondo la categoria non è “miglior preparazione al ruolo” ma “Miglior attore protagonista/non protagonista”.

Ai posteri l’ardua sentenza. A noi contemporanei rimane un film che film non è, cucito e voluto per assecondare un’idea di cinema così estremamente borderline da risultare geniale. Sebbene, in fondo, il vero cinefilo che appartiene contemporaneamente a tutti i gruppi elencati e a molti di più non uscirà dalla sala completamente soddisfatto dalla visione di Revenant.

Birdman, di Alejandro González Iñárritu

Mentre Legolas ha lasciato a casa arco e frecce per sfrecciare con la sua moto fiammante sul palcoscenico di Broadway e il perfido Loki ha smesso i panni dell’Asgardiano per indossare quelli di Colriolano nei teatri londinesi, il supereroe Birdman è ancora chiuso nel suo camerino polveroso a domandarsi se, piuttosto che salire su quel palcoscenico, non sarebbe stato più più facile rimanere sul set del suo film, ripetere le scene all’infinito, adagiarsi comodamente sugli effetti speciali ed essere osannato dalla folla in delirio per un paio di giravolte tra i grattacieli di New York. Questa è Broadway e qui si va in scena ogni giorno, portandosi addosso i mesi di prove, gli imprevisti, i cambi di programma all’ultimo minuto, gli umori degli attori e soprattutto la paura di deludere il pubblico, di inorridire i critici del New York Times e di firmare in una scena la propria condanna all’oblio. Qui e la computer grafica non è ancora arrivata e il trucco è l’unico effetto speciale possibile, fatta eccezione per qualche effetto sonoro combinato ad arte con una spruzzata di pioggia e un faretto lampeggiante, e gli attori non hanno tempo per ripetere le scene all’infinito perché il tempo dello spettacolo è unico e fluisce senza pause fino alla fine. L’errore non è concesso perché gli occhi degli spettatori sono lì, puntati dritto sul palco, e non si spengono ad intermittenza come le videocamere sul set. Per questo gli attori devono essere costantemente concentrati sulla parte e controllare ogni movimento per tutta la durata dello spettacolo, senza mai tirare il fiato, senza mai spogliarsi dei loro personaggi, sia presenti che passati.

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Riggan Thompson si è convertito dal cinema al teatro e ora, secondo le regole di quest’arte a lui sconosciuta, la sua vita è destinata a scorrere in un atto unico, senza pause e senza stacchi, in cui il corpo è sempre in scena, si dibatte sul palcoscenico, attraversa il teatro fino a raggiungere i ai camerini, esce in strada e vola sulla città, per poi ritornare sui suoi passi e ritornare ancora in scena.   La videocamera è sempre accesa su di lui e lo segue come un’ombra in tutto ciò che fa e, simulando un unico piano sequenza, lo pedina sin nella sua intimità, scruta la sua coscienza e scava tra i suoi ruoli per cercare l’uomo sotto lo strato pesante dei personaggi che nel tempo ne hanno preso il posto. Dopo una poco gloriosa carriera nel mondo dei cinefumetti, oggi Riggan va in scena per la prima volta al St. James Theatre di Broadway nei panni del protagonista disperato di Di cosa parliamo, quando parliamo d’amore?, un adattamento dell’opera di Raymond Carver, lontano anni luce dai lavori che lo hanno reso celebre agli occhi del grande pubblico e privato della benevolenza dei critici dal gusto raffinato. Ma a dispetto della sua immagine pubblica è deciso a convertire l’idolatria dei molti nell’ammirazione dei pochi, dimostrando al mondo intero la sua destrezza sul nudo palcoscenico, senza trucchi ed effetti speciali, e un pezzo della letteratura americana tra le mani.

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Il suo unico nemico nella realizzazione di questa impresa ambiziosa è l’amato-odiato Birdman, il supereroe dallo sguardo impenetrabile, che non riesce a staccare neanche per un istante la mascella impertinente e il costume di piume d’acciaio dal corpo di Riggan. Il supereroe tracotante e l’attore disperato convivono nella stessa stanza come nella stessa carne, non possono fare l’uno a meno dell’altro e cercano di annullarsi a vicenda, mentre Riggan si dibatte in questo delirio schizofrenico tra i suoi personaggi cercando di ricongiungersi con la sua umanità. L’eterna lotta tra attore e personaggio si sublima così tra le mani di Alejandro González Iñárritu, che entra violentemente nei camerini di Broadway per mostrare il conflitto tra ignoranza apparente e virtù autodichiarata, che spacca in due il mondo dello spettacolo e coinvolge in una dimensione squisitamente metanarrativa tutti coloro che ruotano intorno all’arte drammatica, dagli attori schizofrenici ai registi narcisisti, dai cacciatori di visualizzazioni ai critici d’altri tempi. La vita e lo spettacolo in Birdman seguono lo stesso binario, si incrociano sul palcoscenico e si dividono nel sogno, là dove all the world’s a stage e tutti siamo attori, più o meno consapevoli, di un dramma universale scritto da un regista che ama assistere alla sofferenza dell’uomo e ci spinge a cercare incessantemente l’approvazione degli altri e l’immortalità dell’anima, in un unico gesto memorabile che alla fine dei giochi fa cadere ogni maschera e mostra al mondo chi siamo davvero.