Berlinale 68

Berlinale 68 – Touch me Not, di Adina Pintilie

La pelle è la mappa per attraversare la vita, il corpo la bussola per imparare a muoversi nel mondo, sfiorando, toccando e incontrando l’altro. Da qui parte Adina Pintilie nel suo Touch me Not, che dalle pieghe della pelle allarga l’obiettivo all’individuo nel suo complesso, cercando nel contatto fisico la strada per comunicare i sentimenti, superare le angosce ed entrare in comunione con chi ci circonda.

‘Tell me how you loved me, so I understand how to love.’ L’amore è la domanda e la risposta di Touch me not, il fil rouge che collega sottilmente le vite di Laura, Tómas e Christian, diversi nel corpo e nella mente, ma accomunati dalla ricerca incessante dell’amore attraverso il contatto con gli altri. Laura non prova piacere nel toccare e nel farsi toccare dai suoi partner sessuali, e per questo cerca disperatamente nella contemplazione del corpo e nel dialogo con corpi di forma e genere diverso la chiave per superare il suo disagio. Tómas sta cercando di far pace con il suo corpo, che a un certo punto della sua vita è stato colpito da una grave forma di alopecia, trasformandolo all’improvviso da una persona comune in un freak. Christian invece è affetto da una grave forma di disabilità fisica, ma ha una mente estremamente vivace e aperta a ogni tipo di sperimentazione in campo sessuale.

Il loro viaggio emotivo nella scoperta del piacere è stato filmato dalla regista rumena Adina Pintilie, che è entrata nella loro intimità con una delicatezza rara, ma allo stesso tempo con il desiderio di non nascondere nulla alla videocamera. Touch Me Not diventa così un progetto di ricerca più che un film in senso stretto, che oscilla costantemente tra fiction e realtà senza mai perdere il contatto con un realismo estremo, talvolta anche indigesto. Ed è proprio questa la provocazione intrinseca in questo film e quello che ne determina l’urgenza: la rappresentazione della realtà senza i veli del pudore e lo svelamento del corpo a prescindere dalla sua forma. Adina Pintilie abbatte i meccanismi di difesa dello spettatore e i taboo con l’immagine chiara e semplice del corpo umano, colmo di imperfezioni, ma più che mai vivo e affamato d’amore. Ed è scavando a fondo nell’intimità umana fino a raggiungerne lo strato più profondo, che la Pintilie trova l’amore e l’empatia verso il prossimo, ma anche la bellezza allo stato puro, proprio lì dove per paura o per pudore nessuno aveva osato cercare, lì dietro il muro che nessuno aveva avuto il coraggio di abbattere.

Berlinale 68 – Unga Astrid, di Pernille Fischer Christensen

Lunghe trecce bionde, sguardo impertinente e modo di fare decisamente sopra le righe. La Astrid Lindgren di Pernille Fischer Christensen a prima vista sembra avere molto in comune con il suo personaggio letterario più famoso Pippi Calzelunghe. Ma più che sulla sua carriera letteraria e sul mondo finzionale nato dalla sua penna, la regista danese si concentra sulla giovinezza di Astrid, cercando di cogliere nella sua storia personale quello che l’ha resa una delle scrittrici svedesi più famose.

Cresciuta in una fattoria in una famiglia estremamente tradizionalista e legata alla vita religiosa della comunità locale, Astrid ha sempre assunto un punto di vista critico sulla realtà che la circondava, affermando già da ragazza la sua indole di donna forte e anticonformista. E proprio questo attira l’attenzione del direttore del giornale locale, Reinold Blomberg, che a diciotto anni la assume nella sua redazione, ipnotizzato dal suo straordinario talento nella scrittura. Il loro rapporto diventa sempre più intimo, fino a quando Astrid cede alle avances del suo capo nonostante la notevole differenza d’età e il fatto che lui sia legato ad un’altra donna. Diventa la sua amante e in breve tempo rimane incinta.


Questo evento segna fortemente la vita di Astrid, che appena maggiorenne è costretta a trasferirsi a Stoccolma per portare a termine la gravidanza lontano dagli occhi indiscreti della sua comunità d’origine. La nascita del piccolo Lasse, che per i primi anni della sua vita resta in Svezia ospite di una casa famiglia, porta Astrid a diventare una donna e una mamma prima del previsto, ma allo stesso tempo stimola il suo immaginario e la sua capacità di inventare fantastiche storie per bambini.

La vita imita l’arte quanto l’arte imita la vita nel film di Pernille Fischer Christensen, che sceglie di narrare tutto quello che non è stato mai detto su Astrid Lindgren, entrando con garbo ed eleganza anche negli aspetti più privati della sua vita. I contorni dei suoi personaggi, così forti e indipendenti nonostante la loro età, si sfumano nell’immagine di una giovane donna, che nella Svezia degli anni Venti deve fare i conti con una società estremante conservatrice, che punisce l’adulterio con la prigione e stigmatizza la libera scelta di avere dei figli fuori dal matrimonio e allo stesso tempo continuare a lavorare per realizzare le proprie aspirazioni. Astrid Lindgren ha anticipato i tempi, infranto le regole e vissuto seguendo le proprie passioni, e il film di Pernille Fischer Christensen riesce a tracciare un ritratto fedele della sua personalità, aprendo delle porte sulla sua arte che fino ad ora sono rimaste appena socchiuse.

Berlinale 68 – The Happy Prince, di Rupert Everett

“Che tragedia! Diventerò vecchio, brutto, ripugnante. E questa immagine rimarrà sempre giovane. Giovane quale io sono in questa giornata di giugno. Oh, se si potesse realizzare il contrario! Se io dovessi rimanere sempre giovane, e il ritratto diventasse vecchio! Per questo, per questo, darei qualunque cosa! Darei la cosa più preziosa del mondo! Darei anche la mia anima per questo!”.
Il ritratto di Dorian Gray, Oscar Wilde

Il miraggio dell’eterna giovinezza ha sempre ossessionato Oscar Wilde, schiavo della bellezza e servitore dell’arte nella sua essenza più pura, ma nonostante i disperati tentativi di vendere l’anima al diavolo per preservarsi nella sua forma più bella, il tempo ha inevitabilmente fatto il suo corso. Gli anni gli hanno scavato la carne come una malattia, l’amore per Bosie lo ha privato della libertà, e ora si trova al tramonto della sua vita a fare i conti con quello che è stato e ciò che sarà dopo la morte.

Il suo corpo pesante cade a pezzi, si sta già decomponendo mentre Rupert Everett cerca di catturare gli ultimi fotogrammi della sua esistenza. È qui che inizia The Happy Prince, dalla fine di un’epoca di piaceri, dalle ultime pennellate di una straordinaria opera d’arte. Oscar Wilde è appena tornato libero dopo aver scontato due anni di prigione per sodomia, denunciato dal padre del suo amatissimo Bosie, e non aspetta altro che ritrovare se stesso, i vecchi amici e gli amori di sempre. Ma qualcosa è inevitabilmente cambiato. La sua ricerca della bellezza non è ancora finita, Wilde infatti parte insieme a Bosie alla volta dell’Italia e si abbandona languidamente alle sue meraviglie, poi torna in Francia e qui inizia la sua lenta decadenza fino alla morte.


In onore di Oscar Wilde non è stata eretta una statua d’oro e due zaffiri lucenti non gli sono stati dati per occhi come è accaduto al suo principe felice, ma Rupert Everett ha scelto di raccontare gli ultimi anni della sua, i meno sfavillanti e di sicuro i più indigesti, proprio per celebrare la sua umanità più che la sua arte, e il suo coraggio nell’affrontare la prigione e la pubblica umiliazione in nome del suo amore. Qui Everett trova la grandezza di questo personaggio e la fonte di ispirazione per le generazioni future, per coloro che sono morti per aver amato qualcuno dello stesso sesso e per quelli ancora stanno combattendo per il proprio diritto alla libertà dei sentimenti. Comprimere la vita di Oscar Wilde in un solo film sarebbe stato impossibile, ma Everett ha scelto di imbarcarsi in questa folle impresa alla sua prima esperienza dietro la macchina da presa, consapevole che The Happy Prince non avrebbe potuto raggiungere vette qualitative degne di nota. Eppure la forza del messaggio che veicola questo film per un attimo fa chiudere gli occhi sulle mancanze nella tecnica per riaprirli sul valore assoluto che può assumere un’opera d’arte, che sia un film, un romanzo o una vita.

Berlinale 68 – Isle of Dogs, di Wes Anderson

Riuscireste a immaginare un futuro in cui il miglior amico dell’uomo è il suo nemico più odiato? Wes Anderson ha proiettato questo oscuro disegno nella sua ultima pellicola Isle of dogs, in cui l’essere umano affonda gli artigli nella natura per distruggerla, a partire dall’ambiente, saturo di scarichi industriali e rifiuti tossici, fino ad arrivare agli animali domestici, che in questo panorama apocalittico diventano gli untori di un morbo sconosciuto e per questo destinati a una tragica fine lontano dagli occhi della città. Trasportati su un’isola di rifiuti come scarti della civilissima Megasaki per ordine del sindaco Kobayashi, tutti i cani della città si trovano senza padrone, senza cibo e senza casa, mentre coloro che fino a pochi istanti prima vivevano al loro fianco godendo del loro affetto incondizionato continuano la loro vita come se nulla fosse.


Questo è il 2037 per Wes Anderson, la sua umanità crudele giunta al punto più basso della sua evoluzione, che però intravede un barlume di speranza nelle nuove generazioni, incarnate nel coraggioso dodicenne Atari, che si invola verso l’isola dei cani per ritrovare il suo amato Spots e si mette a capo dei suoi amici a quattro zampe in una rivolta epocale contro la città che li ha esiliati e condannati a una morte orribile.

Sembra che l’oscurità abbia inghiottito i colori pastello di Wes Anderson, e che le sue architetture impeccabili siano state sommerse offuscate da fitta nebbia di pessimismo sul futuro dell’umanità. Un panorama completamente diverso dal suo primo film d’animazione in stop motion, Fantastic Mr. Fox, che vede sempre gli animali come protagonisti, ma può vantare una messa in scena molto più vivace. Isle of dogs invece declina il mondo nei toni del grigio, escludendo dalla vita il colore nella stessa quantità dei buoni sentimenti, e in questa operazione, così lontana dai suoi lavori precedenti, Wes Anderson si assume un grosso rischio, ma allo stesso tempo si carica addosso la responsabilità di raccontare una fiaba meno lieve di quelle a cui ha abituato il suo pubblico. Ma è proprio sprofondando nell’oscurità dell’essere umano e indagandone la crudeltà come mai prima d’ora, che Anderson trova una chiave narrativa efficace per mettere in guardia da un futuro che è già presente e proprio per questo fa tanta paura.

Berlinale 68 – Robert Pattinson e Mia Wasikowska presentano Damsel

“L’amore puro? Non ci credo”. Così esordisce Robert Pattinson alla presentazione di Damsel, il western di David e Nathan Zellner in concorso alla 68’ edizione della Berlinale. E aggiunge: “Il mio personaggio, Samuel, crede in una versione poetica della vita, ma la realtà è molto più complicata, e l’evoluzione del film lo dimostra ampiamente distruggendo tutti i clichè del genere”. I registi David e Nathan Zellner infatti hanno puntato su una commedia anticonvenzionale, quasi astratta come la definisce Pattinson, che parte dal western classico per poi diventare qualcosa di completamente diverso.


“Il pubblico ormai è annoiato dai clichè del western, che vedono la donna come l’oggetto del desiderio o il premio ultimo a cui ambisce l’eroe – hanno chiarito i registi – ed è per questo che abbiamo cercato di far emergere nel film conflitti umani più complessi e svolte inaspettate, in cui la protagonista non ha un ruolo passivo, ma è un’eroina”. E Mia Wasikowska ha aggiunto: “Penelope è una donna forte, e non si limita ad essere la damigella in pericolo su cui vengono proiettati i desideri e le fantasie dei personaggi maschili, ma riflette un cambiamento radicale nell’immagine della donna. Il movimento #MeToo è la prova tangibile di questo cambiamento ed è straordinario vedere tanta energia nella connessione tra le persone verso un unico obiettivo”.


“Damsel è una versione moderna del western – hanno concluso David e Nathan Zellner – che naturalmente si ispira ai classici del genere, ma poi prende una strada diversa, bilanciando il dramma con la commedia, con la stessa naturalezza con cui questo avviene nella realtà. Dopotutto anche i classici che in apparenza sembrano così semplici nella costruzione dei personaggi e nello sviluppo della storia, in realtà sono molto più oscuri e complessi sotto la superficie. E il nostro obiettivo era proprio questo: prendere il classico e rivoluzionarlo in una versione più vicina alla sensibilità del pubblico contemporaneo”.