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Berlinale 68 – In den Gängen, di Thomas Stuber

La poesia in un supermercato. In den Gängen potrebbe essere riassunto in questa semplice frase. Perché anche in un supermercato, tra gli scaffali affollati, il frastuono dei muletti e i clienti che sciamano senza sosta si può trovare la bellezza e Thomas Stuber è riuscito a mostrala. Nel suo film i muletti danzano a ritmo di valzer e tra i cigolii un orecchio attento riesce quasi a percepire il rumore dell’oceano, che culla gli impiegati nella loro routine straniante e accompagna i loro fugaci incontri durante le pause caffè.

Al centro della vicenda c’è Christian che, dopo aver perso il suo lavoro come muratore, inizia a lavorare come addetto al muletto del reparto bevande in un supermercato. Un lavoro come tanti, catturato quasi per caso, che però nella sua semplicità riesce a cambiargli la vita. I suoi colleghi diventano la sua famiglia, i suoi mentori e gli affetti più cari, e più di tutti Marion, la bella responsabile del reparto dolciumi, riesce a calamitare la sua attenzione. Dopo tutto l’amore, proprio come la bellezza, spesso si trova nei luoghi più impensabili, là dove nessuno si preoccupa di guardare.

Ed è proprio questo che si è preoccupato di fare Thomas Stuber, andando ad indagare il mondo degli invisibili, allineati dietro un camice blu, identificati con una sequenza numerica, ma talmente pieni di poesia da riuscire a far scaturire il bello dal brutto. Stuber con la sua lente privilegiata è riuscito in questa impresa, affidandosi al potere dell’immagine, della musica, ma soprattutto dell’essere umano, in grado di convogliare i sentimenti più profondi anche in uno sguardo privo di parole. E anche se la sua rappresentazione della realtà è estremamente concreta, legata in ogni istante alla vita quotidiana dei suoi personaggi e alla loro routine, paradossalmente il suo realismo trascende nella magia, e il mondo che disegna si anima in una coreografia di cose e persone che si intrecciano sullo sfondo di un grigio supermercato della provincia tedesca. E non c’è nulla più bello.

Berlinale 68 – Incontro con Gaspard Ulliel e Isabelle Huppert per Eva

In concorso alla 68′ edizione della Berlinale, Eva di Benoît Jacquot è stato presentato dal regista e dagli attori protagonisti Isabelle Huppert, Gaspard Ulliel e Julia Roy, che hanno raccontato il loro rapporto con questi personaggi così misteriosi e complessi. “L’attrazione tra Eva e Bertrand è più che altro un riconoscimento – chiarisce Ulliel – perché entrambi hanno un’origine comune e condividono un segreto. Dal mio punto di vista è l’incontro fatale tra due bugiardi e impostori ed è per questo che i due sono sin da subito irrimediabilmente legati. Di sicuro non si tratta di un amore classico, ma dopo tutto ci sono molti modi per esprimere l’amore e in questo caso l’effetto specchio è decisivo”.

Isabelle Huppert ha aggiunto: “L’amore è un sentimento molto complesso e questo è un certo tipo d’amore, che ha diverse facce, così come Eva. Per interpretarla non mi sono basata su nessun personaggio già esistente. È ambigua, pratica e misteriosa, ma allo stesso tempo non è l’archetipo della femme fatale”.  E anche Benoît Jacquot concorda con questa definizione: “Con Isabelle ho cercato di creare un personaggio che fosse l’altra faccia della moneta della femme fatale.  Volevo fare qualcosa di completamente diverso, creare una donna che fosse misteriosa e anonima, un frammento dell’immaginazione di Bertrand e allo stesso tempo estremamente reale e concreta”.

“Eva per la maggior parte del film viene vista attraverso gli occhi di Bertrand – conclude Ulliel – per lui rappresenta un vero e proprio enigma ed è questo che lo attrae così tanto. Questo personaggio, così diverso dalla sua fidanzata perfetta Caroline, ha un livello psicologico molto complesso ma, pur essendo così simile a lui, i due personaggi non sono mai duplicati, ma costantemente divisi. A differenza della duplicazione, la divisione implica un’enorme sofferenza ed è da qui che nasce l’attrazione e il dramma esistenziale”.

The Party, di Sally Potter

The Party è una commedia che non fa ridere, senza che questo la sminuisca in alcun modo. Scritta nel corso degli ultimi anni da Sally Potter, che ne firma anche la regia, The Party è il prodotto di una lunga riflessione sulla politica e sulle relazioni sociali messa su schermo dell’autrice britannica, nota per il suo gusto sofisticato e lontano dal circuito mainstream. Artista originale e completa, Sally Potter aggiunge un nuovo, gustoso capitolo alla sua carriera puntando sulla commedia brillante e su un british/black humor sottile e di classe, che rende omaggio ai classici del genere – Saturday Night and Sunday Morning e This Sporting Life, per citarne un paio – di cui riprende anche l’estetica in bianco e nero.

Il film si svolge nell’appartamento di Janet (Kristin Scott Thomas), Ministro ombra della Sanità del governo inglese, la cui nomina è stata appena ufficializzata. Tra una chiamata di congratulazioni e un messaggio ammiccante all’amante, – mentre il marito Bill (Timothy Spall) siede assorto sulla poltrona della stanza accanto – la signora è indaffarata nell’organizzazione di un ricevimento per gli amici più stretti. L’apparente clima di festa precipita dopo poco in una tragedia annunciata, in cui il silenzioso Bill sconvolge gli invitati con due dichiarazioni esplosive. Verbosa e conflittuale, la platea è composta dalla cinica April (Patricia Clarkson), da suo marito Gottfried (Bruno Ganz), dalla professoressa di studi di genere Martha (Cherry Jones), dalla sua compagna incinta Jinny (Emily Mortimer) e, infine, dal giovane banchiere Tom (Cillian Murphy).


Ognuno dei personaggi incarna in qualche modo uno stereotipo della borghesia intellettuale e di sinistra, figlia delle marce e dei dibattiti universitari degli anni Settanta, di cui la regista si fa spia e denuncia nevrosi e ipocrisie. Nonostante i diktat di parità, opportunità e di confronto democratico, davanti ai temi più profondi e drammatici dell’esistenza le maschere non tardano a cadere, accedendendo gli animi e il linguaggio; la doppia vita dei personaggi pubblici e i tradimenti che si consumano all’interno delle “esemplari coppie progressiste” sono svelati da uno sguardo disincantato. Sally Potter punta – così – i riflettori sull’irrimediabile corruzione dell’essere umano, che neanche le ideologie sono in grado di salvare.

Questo giudizio così perentorio è edulcorato da un’innegabile simpatia che i personaggi – tutti a loro modo – hanno. In particolare, chi non appartiene a questa storia sessantottina ha dalla sua un dolcissimo senso di inadeguatezza che risolve in una costante richiesta di attenzioni – come nel caso di Jinny – o nel vivere in un mondo del tutto parallelo, come Gottfried, lo stralunato life coach interpretato da Bruno Ganz.


Il racconto di Sally Potter si rifà a topoi narrativi piuttosto consolidati: nella scelta, ad esempio, di non mostrare mai quello che è il personaggio-chiave della storia, la regista riprende quella poetica dell’assenza propria di tanti grandi autori (tra tutti, l’iraniano Asghar Farhadi). Analogamente già visto in tanti bei film l’espediente della ripresa in tempo reale e in un unico luogo, scelta dal sapore teatrale in grado di concentrare la narrazione in una sequenza dal ritmo incalzante, in cui lo spettatore non può perdersi neanche un passaggio o una parola per godere della progressiva preparazione del finale (in questo caso, a dire il vero, abbastanza intuibile).

The Party è un film che ben si integra nella felice stagione cinematografica che stiamo vivendo, una visione piacevole per chi vuole concedersi una risata a denti stretti in un clima crudele e ricercato, reso da una regia interessante e da un’escalation interpretativa di rara eleganza.

Berlinale 67 – T2: Trainspotting, di Danny Boyle

Ogni qualvolta ci si trova davanti a un sequel la domanda che ci si pone è sempre la stessa: se ne sentiva davvero la necessità? A vent’anni di distanza dal film che ha portato sul grande schermo i turbamenti di una generazione allo sbando, che sapeva alleviare il male di vivere solo annebbiandosi il cervello con ogni droga possibile, Danny Boyle ci riprova, e torna con un sequel che vede protagonisti gli stessi ragazzi interrotti di Trainspotting, solo con una ventina di anni in più sulle spalle. Cosa è successo nel frattempo ai terribili quattro? Mark Renton (Ewan McGregor), dopo essere fuggito ad Amsterdam con il bottino dei compagni è uscito dal tunnel della droga, ha trovato un lavoro rispettabile e ha messo su famiglia, mentre i suoi compagni Spud (Ewen Bremner), Sick Boy (Jonny Lee Miller), e Begbie (Robert Carlyle), sono rimasti bloccati a Edimburgo, impantanati fino al collo nella droga e nel crimine. Nulla è cambiato eppure è cambiato tutto.

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Quando Mark torna a casa trova ad attenderlo la sua vecchia camera così come l’aveva lasciata, tappezzata di trenini colorati e dei poster dei suoi gruppi rock preferiti. Mette su il disco della colonna sonora della sua giovinezza e inizia il suo viaggio indietro nel tempo. I volti dei suoi compagni di sventura lo inseguono, lo colpiscono, e fanno di tutto per trascinarlo a fondo insieme a loro, per fargli riprovare l’ebrezza dell’oblio, delle visioni stroboscopiche e degli inseguimenti adrenalinici. Ma il disco ormai si è rotto, scricchiola, gira a vuoto, perché non si può mandare indietro l’orologio e prima o poi bisogna fare i conti con il presente e soprattutto con il futuro. Perché a certo punto non basta più restare a guardare la propria vita che scivola via, bisogna viverla.

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Ed eccoci al punto fondamentale: era necessario riesumare un film icona degli anni ’90 per farne qualcosa di nuovo e allo stesso tempo conforme all’originale? Probabilmente sì, perché T2: Trainspotting non è solo un sequel, ma un’opera cinematografica autosufficiente e per certi versi diversa dal primo film. Pur essendosi ispirato anche questa volta ad un romanzo dello scrittore scozzese Irvine Welsh, Danny Boyle rimpasta la materia già nota in qualcosa di sorprendente e estremamente attuale, in cui non mancano le sequenze allucinatorie e contorte, ma qui sono interpretate in chiave moderna e rese ancora più affascinanti grazie all’uso delle nuove tecnologie. E nonostante i pregiudizi di chi non riusciva a immaginare un sequel di Trainspotting, Boyle riesce a intaccare la sacralità della sua prima opera per creare qualcosa di diverso, sicuramente non paragonabile al primo film ma non meno vibrante e rappresentativo di una generazione che non vuole crescere.

Berlinale 65 – Body, di Malgorzata Szumowska

Il corpo umano, fragile contenitore di un’anima eterna, racconta la sua storia senza parlare, limitandosi a mostrare senza vergogna la violenza che l’uomo esercita su di lui ogni giorno, in tutte le forme possibili. Il corpo fracassato, prosciugato e negato all’occorrenza, è l’oggetto inerme di tutte le frustrazioni umane, la vittima innocente di una sofferenza che viene da dentro e che non ha la forza di manifestarsi, se non attraverso il suo involucro silenzioso. La protagonista ha un corpo ossuto, corroso dalla bulimia, mentre quello di suo padre Janusz, informe, trabocca di grasso. Dopo la morte violenta della madre, i due si sono allontanati fino a raggiungere i due poli opposti: la fuga dal cibo l’una e le abbuffate consolatorie l’altro. Non si parlano mai, ad eccezione dell’unico momento della giornata in cui sono costretti ad incontrarsi, quello dei pasti, in cui il grasso traboccante dalle cosce di pollo trangugiate dal padre si scaglia violentemente contro la manciata di germogli di soia che riempie il piatto della figlia. La dimensione corporea è in lotta continua con quella spirituale dei personaggi, e questo vale in particolar modo per Janusz, che ogni giorno è costretto per lavoro a supervisionare i corpi martoriati, ritrovati dalla polizia e ad analizzarli con il distacco che la scienza richiede. Quando all’improvviso il suo mondo estremamente pragmatico si scontra con quello delle ombre e una presenza incorporea manifesta il desiderio di comunicare con lui per aiutarlo a riavvicinarsi a sua figlia, il loro equilibrio malsano si incrina e attraverso la psicologa-sensitiva Anna riescono a trovare una nuova strada da percorrere.

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La regista polacca Malgorzata Szumowska seziona i suoi corpi con freddezza, indugiando sui dettagli più macabri con un occhio quasi scientifico che scava a fondo nel dolore inespresso dell’essere umano, ma allo stesso tempo apre lo sguardo verso il soprannaturale, e propone come alternativa al materialismo la spiritualità, il dialogo con le ombre come cura per la malattia dell’anima. Ma se nel forte contrasto tra materiale e immateriale risiede il potenziale del film, l’incontro con il mondo dell’aldilà, se pur mostrato solo con fugaci apparizioni ultraterrene, rischia di indebolire la drammaticità della realtà e allontana l’attenzione dal problema della percezione distorta del corpo, portando la soluzione su un piano altro, che trascende la terapia psicologica per superare il dolore terreno e cerca tutte le risposte in una dimensione ultraterrena intangibile che si apre a ragionevoli dubbi.

Berlinale 65 – Als wir träumten, di Andreas Dresen

I battiti della musica techno coprono le voci e annebbiano le percezioni. Buio, luci psichedeliche, bottiglie fracassate e musica, a volume massimo per essere più efficace. Non si sente altro per le strade di Lipsia, questo è il sottofondo del degrado, il contrappunto delle case di periferia che cadono a pezzi come i ragazzi che le abitano. Non si salva nessuno qui. Il muro di Berlino è appena crollato e c’è chi non si è ancora rassegnato a questo nuovo stato di cose, a una Germania unificata, inevitabilmente intaccata dal capitalismo, e sogna ancora l’ordine socialista, crogiolandosi senza speranza nella Ostalgie, la nostalgia della DDR. Le nuove generazioni sono quelle più colpite dal cambiamento. Chi sono gli adolescenti di oggi, quelli che negli anni Ottanta erano i giovani pionieri della DDR, indottrinati dagli insegnanti ai valori socialisti ed educati a venerare il loro fazzoletto rosso come la bandiera di una realtà ideale? Cosa ne è stato dei loro sogni?

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Andreas Dresen prende in prestito le parole del romanzo di Clemens Meyer per raccontare questa generazione disgregata, la smembra e la analizza dall’interno delle dinamiche di un gruppo di ragazzi cresciuti in una Germania che non esiste più. Le ideologie sono rimaste sepolte sotto le macerie del muro, così come i loro sogni, e ora alla vigilia degli anni Novanta non vogliono altro che addormentarsi, non pensare, stordirsi con l’altro e cercare il piacere nel sesso e nella violenza. L’unico obiettivo dei giovani rimane quello di distruggere un passato che ha tradito tutte le promesse, più che costruire, perché nel presente non esistono le basi per una politica credibile e per un futuro auspicabile. Dresen racconta la storia dal punto di vista di chi non guarda la Germania contemporanea dall’alto dei palazzi dei grandi, ma dal basso dei sobborghi, e di chi ha subito gli eventi senza comprendere fino in fondo i giochi di potere che li hanno guidati. Crudo, brutale, non risparmia nulla allo sguardo, perché il suo obiettivo e far respirare l’aria pesante delle periferie, stordire con una musica al limite del sopportabile, e stirare gli eventi fino al punto da sfiorare il ridondante, per ribadire il degrado e cancellare qualunque speranza di resurrezione.

Berlinale 65 – Journal d’une femme de chambre, di Benoit Jacquot

Per comprendere cosa significhi essere una “femme de chambre” al soldo di borghesi benestanti nella Francia dei primi anni del Novecento è necessario liberare la mente dalle idee sull’emancipazione femminile che hanno caratterizzato l’ultimo secolo e tornare indietro a un’epoca in cui servire voleva dire soddisfare qualunque desiderio e capriccio dei propri padroni, assecondando talvolta anche i loro istinti più bassi. Célestine è una femme de chambre a tutto tondo e per tutta la sua vita non ha fatto altro che compiacere i propri datori di lavoro, i più misericordiosi come i più crudeli, per conquistare un posto nella loro casa oltre che nel loro cuore. Sola al mondo, Célestine è una canna al vento che cambia padrone così come cambiano le stagioni, e che puntualmente finisce in mani peggiori delle precedenti. Le donne nella sua condizione, orfane e non maritate, non sono neanche considerate esseri umani, ma merce di scambio tra le signore dell’alta società e giocattoli nelle mani dei loro mariti annoiati. Ma a differenza di tutte le altre donne rese schiave dalla loro miseria, Célestine ha il dono di una mente sottile e di una bellezza eternamente innocente, irresistibile per tutti gli uomini che incontra, e questo la mette in una posizione di potere, più che di subordinazione. Consapevole della sua sensualità magnetica, Célestine si abbandona ai piaceri del corpo ma è abbastanza lucida da scegliere a chi concedersi, che sia per compassione o per desiderio, e non pensa neanche per un’istante di intraprendere la via più semplice dei bordelli parigini. Gli uomini passano uno dopo l’altro sotto i suoi occhi, acerbi, laidi, rudi e ingenui, ma nello stesso istante in cui credono di sfruttare i privilegi della loro posizione per piegare la donna alla loro volontà, sono loro ad essere manovrati come pedine dalla bella Célestine, che usa tutti gli artifici a sua disposizione per elevarsi da una condizione di schiavitù e diventare padrona del proprio destino.

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Il diario di Célestine la cameriera licenziosa, scritto da Octave Mirbeau nel 1900, è stato portato sul grande schermo più di una volta, prima da Renoir e poi da Buñuel, e ora ancora una volta da Jacquot, che si aggrappa più degli altri al testo originario, alternando le avventure di Célestine su diversi piani temporali. Célestine volteggia da una casa all’altra, dalle coste della Normandia agli appartamenti sofisticati di Parigi come una falena che ricorre la luce, senza mai trovarla. Jaquot la segue come un innamorato fedele, la dipinge in tutte le attività quotidiane soffermandosi sui dettagli perfetti del suo volto, sulle mani, e sul suo corpo voluttuoso, che pur essendo coperto da costumi castigati non riesce a nascondere le forme della bella Léa Seydoux. In ogni scena l’obiettivo la accarezza con la luce, la culla con la musica, e sembra osservarla dal buco della serratura come usano fare i suoi ammiratori. Ma proprio come uno di questi Jaquot perde il controllo a causa di Cèlestine, del suo potere, e soccombe inevitabilmente al suo fascino, dimenticando approfondire la narrazione di Mirabeau, e trasforma Journal d’une femme de chambre in una galleria di situazioni basate unicamente sulla celebrazione estetica dell’immagine.

Berlinale 65 – Mr. Holmes, di Bill Condon

Sherlock Holmes è andato in pensione, ha cambiato casa e anche lavoro. Le sonnolente campagne del Sussex hanno preso il posto dell’appartamento di Baker Street nel cuore di Londra, e la febbricitante attività investigativa al fianco del saggio dottor Watson è un ricordo lontano. Watson è felicemente sposato e ha preso da tempo la sua strada, dopo essere diventato famoso per aver messo su carta le incredibili avventure di Sherlock Holmes, mentre del vero protagonista della storia è rimasto solo un apicoltore solitario che perde ogni giorno un pezzo di memoria. Lo straordinario Sherlock è un vecchio ordinario, scontroso e smemorato, che cerca la cura a tutti i suoi mari in un cucchiaio di miele miracoloso, senza amici e senza amore. Gli unici che fanno parte della sua nuova realtà sono la sua badante e suo figlio Roger, brillante e curioso, e soprattutto grande ammiratore delle imprese del grande Sherlock. Ma fino a che punto la finzione letteraria ha superato realtà? La mente più vivace d’Inghilterra vive davvero in questo corpo decrepito?

Lo Sherlock Holmes che racconta Bill Condon non ha nulla del suo stereotipo letterario, non indossa il cappello e non fuma la pipa, e dichiara candidamente di non essere mai stato il personaggio che Watson ha descritto nei suoi racconti, ma un uomo fallibile e debole, che alla fine della sua vita sta traendo le somme dei suoi insuccessi. L’ultimo caso che ha tentato di risolvere è stato un fallimento totale e da quel momento in poi ha smesso di indagare e si è ritirato in campagna a rimuginare sui suoi errori. Il caso della bella Ann Kelmot, la donna misteriosa di cui tiene una fotografia gelosamente nascosta nella sua scrivania, continua a tormentarlo giorno e notte e ogni piccolo dettaglio che torna a galla nella sua flebile memoria è fondamentale per ricomporre i pezzi e mettere in pace la sua anima.

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La storia di Sherlock Holmes è stata raccontata in un’infinità di media diversi, dalla letteratura al cinema, passando per la serie tv, osando stili ed epoche storiche diverse, ma Sherlock è sempre rimasto intrappolato nel personaggio rocambolesco che Watson o Doyle gli hanno cucito addosso e non ha mai avuto la possibilità di raccontare le sue avventure con la sua voce. Finalmente grazie a Condon è arrivato il momento per Sherlock di gridare al mondo la sua verità e di ricostruire la sua vita esclusivamente attraverso la sua memoria, o ciò che ne rimane. L’eroe si è trasformato in un antieroe in là con gli anni ed è proprio in questa coraggiosa rappresentazione che Condon sperimenta, crea il nuovo. Il personaggio e l’interpretazione caricata di Ian McKellen, sovrastano la scena, che non si discosta dagli histical drama della BBC e non osa in nulla se non nell’immagine di Sherlock Holmes, lasciando spazio a una realtà decadente ma non meno vibrante della fantasia.

Berlinale 2015: Orso d’oro alla carriera a Wim Wenders

La 65′ edizione del Berlin International Film Festival renderà omaggio a Wim Wenders con una serie di proiezioni in suo onore, tra cui Il cielo sopra Berlino, che sarà proiettato il 12 febbraio al Berlinale Palast, e fregerà il regista tedesco dell’Orso d’oro alla carriera. La manifestazione si svolgerà dal 5 al 15 febbraio 2015.

“Omaggiando Wim Wenders, onoriamo uno dei più famosi autori contemporanei. I suoi lavori come regista, fotografo e autore, sfaccettati ed eterogenei, hanno plasmato la nostra memoria cinematografica e continuano ancora oggi ad ispirare gli altri registi”, ha dichiarato Dieter Kosslick, il direttore della Berlinale, che per questa edizione ha previsto una retrospettiva completa dei film e dei documentari di Wenders.

Negli anni Settanta Wim Wenders ha fatto parte di quella generazione di registi che hanno influenzato enormemente il “Nuovo Cinema Tedesco”.  Fronteggiando la crisi artistica ed economica del cinema dell’epoca, hanno sviluppato nuove forme estetiche e si sono messi in gioco in una serie di produzioni e distribuzioni indipendenti. Dal suo film d’esordio Summer in the City del 1970, Wenders ha realizzato più di 50 film, aggiudicandosi la Palma d’oro a Cannes per Paris, Texas del 1984 e il premio come miglior regista sempre a Cannes nel 1987 per Il cielo sopra Berlino. A Venezia ha ricevuto il Leone d’oro per Lo stato delle cose nel 1982 e  l’Orso d’argento a Berlino per The Million Dollar Hotel  nel 2000. Durante la Berlinale del 2011, Wenders ha presentato il suo straordinario progetto in 3D Pina, ottenendo un grande successo di critica e di pubblico, e ancora oggi Wim Wenders può esere considerato uno dei più grandi innovatori nel panorama cinematografico contemporaneo.

20,000 Days on Earth – Nick Cave in un giorno

Dramma e realtà si combinano in un’opera di finzione che racconta 24 ore della vita del musicista e icona culturale internazionale Nick Cave. Con un’analisi realistica e un ritratto intimo del processo artistico, il film esamina ciò che ci rende quelli che siamo e celebra il potere di trasformazione dello spirito creativo.

Il film-documentario 20,000 Days on Earth, scritto e diretto da  Iain Forsyth and Jane Pollard in collaborazione con lo stesso Nick Cave è stato presentato in anteprima al Sundance Film Festival 2014 dove è stato premiato per la miglior regia e il miglior montaggio, e continuerà ad essere proiettato nei prossimi mesi durante i festival cinematografici di tutto il mondo. L’uscita in Italia è prevista per il 24 novembre di quest’anno.