San Frantokyo è una città immaginaria, un mash-up tra due dei principali poli culturali della nostra contemporaneità: Stati uniti d’america e Giappone. Con una astuta mossa di marketing, dopo il primo passo già fatto con Ralph Spaccatutto, la Disney per il suo nuovo film torna a guardare dall’altro lato del pacifico (e ad un pubblico più specificamente maschile) fondendo quelle due realtà che sono riferimento del nostro immaginario comune, e ne fa da sfondo per raccontare una storia che, a discapito delle apparenze, nonostante robot e protagonisti dai connotati asiatici, si basa su una figura simbolo dell’american way più puro: il supereroe. Era solo questione di tempo prima che la Disney, dopo aver acquisito i Marvel Studios, si rendesse conto di avere in casa un enorme quantità di materiale a cui attingere.
Stupisce comunque la scelta di un misconosciuto gruppo dalla scarsa fortuna editoriale quale i Big Hero Six, personaggi inventati sul finire degli anni novanta dalla penna di Steven T Seagle, come comparsa sulla storica testata Alpha Flight, che hanno avuto solo un paio di effimeri tentativi di lancio con due serial personali, scritti da nomi sicuramente noti ad ogni lettore degli Xmen: Chris Claremont e Scott Lobdell. Si tratta di materiale del tutto inedito in lingua italiana (per chi fosse curioso l’unica apparizione pubblicata dalla Panini è come guest-star su l’uomo ragno 589), ma quello che esce fuori dal film d’animazione Disney è comunque una storia decisamente differente rispetto alla controparte cartacea.
Hiro Hamada è un ragazzo problematico, enfant prodige della cibernetica così come il fratello maggiore Tadashi, che ha da poco terminato il suo progetto di un robot che svolga la funzione di Operatore Sanitario Personale. Le fattezze del robot, rinominato Baymax, sono buffe e rassicuranti. Le sue forme morbide ed essenziali sono perfettamente in linea col successo degli altrettanto semplici Minions della Dremworks e con un protagonista storico dell’animazione giapponese quale Doraemon. E’ una novità invece la gamma espressiva del personaggio, ridotta ad una virtuosa mono-espressione che riesce proprio per il suo (solo) apparente distacco misto a goffaggine a far breccia nel pubblico già dal primo sguardo.
A seguito di un esplosione che causa la morte di Tadashi, il giovane Hiro intraprende una caccia al colpevole assieme agli amici del fratello provenienti da una sorta di MIT fantascientifico, non a caso simile a quello presente nei fumetti dell’Uomo Ragno scritti da Dan Slott, e soprattutto da Baymax che gli farà da coscienza. E proprio nella crescita morale di un Hiro, spinto dal lutto a creare un super-gruppo tecnologico come i Big Hero Six sta il cuore del film. La sua battaglia personale è giocata nel non cedere alla vendetta contro un nemico che invece è la sua antitesi, ovvero un uomo che dopo aver perso la figlia è cascato nella trappola dell’odio.
Uno scenario supereroistico ampiamente sviscerato nei fumetti: potere e responsabilità usata a fin di bene, contrasto morale e successiva superiorità nei confronti del male. D’altro canto Stan Lee, creatore del mito e uomo immagine Marvel, fa da nume tutelare alla pellicola con una divertente scena post-titoli di coda. Rimangono invece purtroppo sacrificati gli altri personaggi che fungono da colorato contorno semplicemente abbozzato. Nonostante qualche piccolo difetto, La Disney di Lasseter riesce a realizzare con Big Hero Six un film che piacerà a tutti e che non può non piacere. Sempre più vicina allo spirito Pixar, non riesce però a fare a meno dei calcoli di mercato abilmente studiati a tavolino e a sostituirli con un pizzico di cuore in più.
Marco Nicoli