Doomboy

Doomboy, di Tony Sandoval

«Ti darò un nome segreto. Ma devi fare attenzione perché è un nome speciale: Doom Boy».

Dolore ed accettazione della perdita che passano per il ruggito di una chitarra elettrica suonata in riva ad una spiaggia. È questo il fulcro di Doomboy di Tony Sandoval, prolifico autore messicano dotato di un tratto accattivante e subito riconoscibile. Le sue figure, delineate da contorni di bambole ma rappresentate con un tratteggio sporco e granuloso. sono un piacere per gli occhi tanto quanto le epiche visioni che si scagliano nel cielo durante il racconto, con forza e monumentalità.

Eppure l’albo risulta permeato da una forte sensazione di silenzio, e la catarsi musicale non riesce ad essere trasmessa graficamente come dovuto. Le più volte citate “session” del protagonista, il doom metal di cui si parla, “forma estrema di heavy metal con tempi lenti e suono più opprimente”, rimane un semplice concetto scritto e non buca la pagina. Risulta più efficace invece il simbolico buco nel ventre del protagonista o il vuoto di alcune scene, come l’ottima sequenza in cui apprendiamo della morte di Anny, realizzata con una prevedibile ma efficacissima vignetta lunga scontornata, che cancella tutto quello che accade attorno.

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Nell’albo poi esce fuori l’immagine di una gioventù estremamente romantica, che paradossalmente ricorda più il rock degli anni ’60, con i miti delle radio pirata, gli happening musicali e le scazzottate tra gruppi rivali in stile Quadrophenia, che un sottobosco metal teoricamente più duro, identificabile semplicemente dal vestiario dei personaggi.

Sembra più compiuta invece la cornice del racconto, composta di storie appena accennate di amore omosessuale tenuto nascosto, di piccole rivalità e sprazzi di magia, che arricchiscono e sorreggono quello sembra un tentativo di affondare nel cuore del lettore non completamente riuscito.

M.N.