Fasciata nel suo abito da sera di velluto verde, come Cenerentola nella sua carrozza, Amanda scivola nella limousine che la porterà all’appuntamento più importante della sua vita. Ma la sua fiaba termina ancora prima dello scoccare della mezzanotte non appena si chiudono le porte dell’auto. I finestrini si oscurano, la luce naturale verte al neon e inizia l’incubo. L’auto che avrebbe dovuto accompagnarla a ritirare il suo premio alla carriera di attrice si trasforma in una prigione mobile, impossibile da violare.
Il suo traghettatatore verso l’inferno è una voce sintetizzata che la spia da una telecamera nascosta e le ordina di soddisfare tutte le sue richieste, anche le più perverse, se non vuole andare incontro a terribili torture. Il volto del mostro ha i contorni delle sue parole taglienti, ma benchè la sua identità sia quasi impalpabile, l’odio che riversa su Amanda è quanto mai tangibile, violento, impastato nelle lacrime e nel sangue.
Haritz Zubillaga condensa la paura nell’angusto spazio scenico della limousine, teatro dell’orrore dell’intera pellicola, e comprime il tempo ad un’unica notte in cui Amanda si trova a combattere con i fantasmi del passato e i mostri del presente, mentre corpo e anima sono ridotti a brandelli dal suo carnefice. Una scelta senza dubbio coraggiosa, tanto più che in scena c’è una sola attrice, ma è proprio questo a innalzare al massimo il potenziale di El ataúd de cristal, che immediatamente riporta alla memoria il visionario Cosmopolis David Cronenberg, in cui la tensione compressa nello spazio di una limousine cresce a dismisura in un climax di eventi surreali fino alla catarsi finale.
Ma se Cronemberg imprigiona il suo protagonista per renderlo impermeabile dal mondo e dalle sue emozioni, Zubillaga restringe lo spazio scenico per far esplodere la rabbia e i rimpianti, fino a operare una vera e propria autopsia emotiva della protagonista. Da qui parte un viaggio a ritroso nella sua carriera di attrice, che si addentra negli angoli più oscuri della sua coscienza e nei meccanismi più perversi del mondo dello spettacolo, in cui l’ossessione per i dettagli è talmente morbosa da trasformare la pellicola in un inquietante esperimento metacinematografico in cui l’orrore della realtà è onnipresente.