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Dieci, di Elena Dragonetti

Lo spettacolo Dieci è stato il protagonista della nona serata del Festival Inventaria, portato sul palco del Teatro dell’Orologio da Elena Dragonetti per una produzione Narramondo e Teatro Altrove. Nato dall’opera omonima di Andrej Longo, Dieci fa vivere altrettanti personaggi, che si raccontano attraverso monologhi e drammi. Il disegno finale è l’universo denso e policromo dei vicoli napoletani, attraverso cui palpita una vita ferita.

Recensione di Manuel Porretta

Napoli è città particolare e realtà universale. È un dedalo di vicoli, stradine e storie al limite che riscrivono i dieci comandamenti cancellando la firma di Dio e imprimendo su di essi un segno riconoscibile e inconfondibilmente umano. Dieci è il titolo dello spettacolo portato in scena da Elena Dragonetti al Teatro dell’Orologio e firmato insieme a Raffaella Tagliabue, che si è nutrito di crowdfunding per vedere la luce. Dieci come i monologhi, come i protagonisti, come i drammi quotidiani. Dieci ferite, dieci cicatrici dell’animo umano. Dio è troppo lontano per accorgersi della vita che brulica nel dedalo di viuzze, che fatica e pena lontano dal suo sole. A sostituirlo è la camorra, la violenza, il dolore, gli abusi, i cui raggi si insinuano ovunque, tra le fessure delle finestre chiuse, sotto l’uscio di un portone buio. Oltre c’è il nulla, solo catene difficili da spezzare. Eppure nel dramma umano non manca la luce, un lucore puro che riesce a scaturire dalle profondità dell’anima. I vicoli vengono inondati dal buio che scortica la vita, che la abrade fino a farla sanguinare, ma la poesia, l’ironia, la tenerezza che emergono inaspettati, riescono ancora a bendare le ferite, a renderle sopportabili. Ogni monologo è intitolato ad un comandamento, ma il richiamo ad essi non è sempre visibile, non è palese. E allora deve essere l’occhio critico dello spettatore ad insinuarsi tra le pieghe e le piaghe della vita e a portare a galla quel legame che sembra reciso. La fatica di vivere genera sopportazione, spinge alla sopravvivenza, adatta il corpo e la mente ad una realtà difficile. È solo così che i personaggi riescono a trasferire le tragedie e i drammi nel cerchio ampio e labile della normalità. Ed è proprio questo, forse, che sgomenta di più.