Emma Stone

Crudelia, di Craig Gillespie

Bianco e nero, bene e male, Estella e Cruella. Queste le due facce di questo personaggio, doppio nell’aspetto e nella personalità. Ed è proprio questo il tratto distintivo di questa nuova “Crudelia”, estremamente diversa dal villain nato negli anni Cinquanta dalla penna di Dodie Smith e poi trasposto sullo schermo nel film d’animazione Disney nel 1961 (La carica dei 101) fino ad arrivare all’omonimo live action del 1996. Crudelia De Mon è sempre stato un personaggio monodimensionale, completamente folle, e crudele appunto oltre ogni limite, senza mai lasciare spazio a stralci di umanità. Caratteristica che Crudelia si è trovata cucita addosso dalle sue origini fino ad oggi, quando la Disney ha deciso di dedicarle un modernissimo live action, che non può essere più lontano dal classico a cui si ispira, che si limita a citare in poche, fugaci scene, per concentrarsi sulla nascita di questa anti-eroina.

La nuova Crudelia fa il suo ingresso in scena con il nome di Estella Miller, una bambina creativa, eccentrica, e con uno straordinario talento per la moda. Sebbene sua madre le consigli di contenere la sua esuberanza, Estella non è una bambina che passa inosservata e la sua personalità attira l’attenzione dei bulli, alle cui angherie reagisce con una tale grinta da farsi espellere dalla scuola. A questo punto sua madre decide di trasferirsi a Londra per iniziare una nuova vita ma, durante il viaggio, si ferma a chiedere aiuto in una ricca dimora, dove una donna misteriosa sta dando un ballo in maschera. Estella è stregata dall’opulenza degli abiti che riempiono la sala da ballo, si perde tra la seta e i merletti, ma mentre la bellezza le illumina gli occhi, all’improvviso arriva il buio. Sua madre viene spinta giù da una scogliera da tre dalmata indemoniati. Questo il fatal flaw di Estella, l’evento che da ora in poi guiderà ogni sua scelta, nel bene e nel male, tra il desiderio di giustizia e la fame di vendetta.

Estella arriva a Londra ma, senza soldi né un tetto sopra la testa, non ha altra scelta che farsi adottare da due ladruncoli, Jasper e Horace, tingersi i capelli per non attirare l’attenzione con la sua chioma bianca e nera, e vivere insieme ai due fratelli adottivi fino a quando non arriverà il momento di mostrare al mondo il suo talento. Adesso è un’invisibile ed è proprio così che riesce a sbarcare il lunario, rubando, non vista, per le strade di Londra. Con il tempo la banda riesce ad orchestrare colpi sempre più complessi, utilizzando il talento di Estella con la macchina da cucire per realizzare incredibili travestimenti. Pur vivendo una vita di espedienti, Estella non ha mai chiuso in un cassetto il sogno di sfondare nel mondo della moda e, quando ottiene un lavoro nei magazzini Liberty, il sogno diventa realtà. Dopo giorni di vessazioni, viene notata dalla Baronessa von Hellman, il dio della moda nella Londra negli anni ’70, e come per incanto il travestimento di Estella inizia a cadere per far posto a Cruella.

La rivalità con la Baronessa e la scoperta dei suoi segreti più oscuri, alimenta il fuoco creativo di Estella, che finalmente, dopo anni di attesa e duro lavoro, riesce a portare sotto i riflettori Cruella e il suo talento esplosivo. Dalla sua prima apparizione al ballo in bianco e nero della Baronessa, Cruella diventa la sua nemesi, oscurando tutti i suoi eventi mondani con i suoi happening d’avanguardia, che presentano al pubblico creazioni innovative, intessute nel punk e nella rabbia giovanile contro un sistema vecchio e stantio. Cruella rappresenta la moda nata dagli scarti, che strappa il vecchio per ricucirlo in nuovo e creare arte laddove la borghesia benpensante vedeva solo stracci.

Qui risiede il focus del film che punta tutto su un’estetica anticonformista, appariscente, che si impone con forza su un passato ingessato in un sistema di valori che sembrava impossibile da scardinare, con gerarchie sociali ingessate e canoni di bellezza imposti dall’alto, in questo caso dalla Baronessa e dal suo entourage. Cruella invece rompe gli schemi, e la sua arte di rottura è cucita a doppio filo con la musica del film, che accompagna le apparizioni della nuova dea della moda con grandi classici del rock come Nina Simone, Queen, Bee Gees, Blondie, Clash, Supertramp, The Doors, Electric Light Orchestra, Connie Francis e Florence and the Machine che hanno composto per il film il brano Call me Cruella.

Cruella è rock in ogni sua fibra, urla, ringhia, morde, ma la sua determinazione a vendicarsi della Baronessa affonda le radici in una storia familiare che travalica la rabbia giovanile e l’ambizione. Nell’origine più profonda della sua rabbia nasce il suo lato più oscuro, il doppio negativo di Estella, che schizofrenicamente entra ed esce di scena, come a contendere la sua anima tra bene e male. Ma è proprio questo aspetto che conferisce per la prima volta non solo una motivazione alle azioni di Cruella, ma la possibilità di far emergere tutti i lati di un personaggio che non aveva mai avuto lo spazio sufficiente per raccontare la sua storia.

In questa prospettiva anche la sua profetica crudeltà è ridimensionata per far posto a un villain, come la Baronessa, al cui cospetto Cruella appare misericordiosa e benevola, ma soprattutto che non esercita la sua crudeltà solo in nome della vanità e di un narcisismo sterile, ma che impersona la ribellione giovanile, il giovane che uccide il vecchio per emanciparsi e creare qualcosa che nessuno aveva mai osato fare prima. Lo stesso coraggio che ha avuto la Disney nell’uccidere la vecchia “Crudelia” per raccontare il suo personaggio dalle origini, osando, rischiando, superando il classico per farlo rivivere in un’opera contemporanea.

La battaglia dei sessi, di Jonathan Dayton e Valerie Faris

Ne La battaglia dei sessi (Battle of sexes), il biopic (l’ultimo amore folle di Hollywood) firmato Jonathan Dayton e Valerie Faris (Will, Ruby Sparks, Little Miss Sunshine), sul cemento del campo da tennis dell’Astrodome di Houston in Texas si fronteggiano Billy Jean Kings (Emma Stone), detentrice di 12 Slam in singolare e di sei trofei a Wimbledon e paladina della lotta all’uguaglianza nel trattamento economico degli atleti, e Bobby Riggs (Steve Carrell) “porco maschilista”, vincitore di 2 U.S. Open e una volta a Wimbledon, e convinto (??) fautore di un mondo rigidamente inquadrato nel dicotomia sessista di ciò che è possibile agli uomini e ciò, molto, che alle donne non è concesso per biologia e capacità. L’esito della partita è noto a tutti (6-4, 6-3, 6-3 per Billy Jean); meno approfondita è stata la storia dei retroscena personali di una partita combattuta più contro se stessi che non contro un avversario contro cui dimostrare il proprio valore di atleta.

Dopo la pubblicazione di Open di Andre Agassi, il tennis è balzato all’attenzione anche dei non appassionati, primi tra tutti gli sceneggiatori del grande schermo (in uscita il 9 novembre la storica rivalità tra Borg e McEnroe). Se per la settima arte i nuovi ritrovati tecnologici che permettono di inquadrare e montare agilmente gli scambi di un grande campo da tennis che in passato potevano risultare difficile da rendere e rappresentare giustificano un progressivo interessamento a questo sport, dal canto suo lo sport in sé, dopo la storia editata da J. R. Moehringer, continua ad essere usato più come metafora di “altre” partite da combattere che non come mero racconto di uno scontro sportivo.

 

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Billy Jean deve lottare e superare il limite imposto dalla società maschilista degli anni Settanta, appena uscita dalle lotte sessantottine, ma per niente maturata alla luce delle battaglie appena combattute: in campo sportivo le donne continuano ad essere volutamente sottopagate rispetto ai colleghi uomini, nonostante il loro peso mediatico sia equivalente. Con ancora più energia deve lottare contro la sua sessualità, di cui conosce inconsciamente conosce da sempre l’orientamento, ma a cui non è mai riuscita a dare apertamente un nome e a dichiararlo pubblicamente (come biasimarla, del resto?), fino a quando la lotta per la parità dei sessi, la partita contro Riggs e l’incontro con Marilyn Barnett (Andrea Riseborough) la spingono a prendere una decisione definitiva, che le cambierà la vita in meglio, facendo però le spese con la sua serenità, anche di atleta (un tormento messo in primo piano da Simon Beaufoy, sceneggiatore di questa pellicola e già premio Oscar nel 2009 per The Millionaire), e con la felicità del marito Larry (Austin Stowell), personaggio tra i meno approfonditi della storia e che avrebbe meritato una caratterizzazione maggiore.

Bobby Riggs, dal canto suo, deve lottare primariamente contro il Bobby Riggs pubblico, quello che tutti conoscono per il vizio del gioco e che non riesce a mantenere un equilibrio sano nelle sue relazioni umane, primariamente con l’ultima moglie Priscilla (Elisabeth Shue), stanca dei suoi eccessi ma mai veramente in grado di slegarsi da lui. Bobby sceglie di indossare la maschera del maschilista convinto e ottuso, ma agli spettatori viene innestato il dubbio che delle sue posizioni non fosse realmente convinto.

La battaglia dei sessi presenta uno dei più banali e usati cliché della lotta di genere, amplificato dal suo avvenire in ambito sportivo. Ci si aspetterebbe, allora, un forte approfondimento della questione sociale in modo da nobilitare quanto possibile la lotta compiuta da Billy Jean, non semplice simbolo mediatico ma vera apripista di un cambiamento radicale. I registi (e lo sceneggiatore, non alla sua migliore scrittura), spostano invece il peso sul piatto della bilancia dedicato alle questioni personali, lasciando le dinamiche storiche a fare da eco sullo sfondo. La battaglia dei sessi è tutto un gioco di sguardi, di sospiri, di mani che si toccano e corpi che si sfiorano. L’agonismo diventa quasi un’ossessione e non la carica con cui innescare i gesti non solo sportivi e il mood complessivo della pellicola è melodrammatico, non cronachistico, nonostante la lotta di genere sia un argomento di cui non è mai abbastanza parlare. Jonathan Dayton e Valerie Faris hanno voluto presentare un film apparentemente indie, confezionando invece una pellicola mainstream a tutti gli effetti, fatta di battute esilaranti del one man show Carrell, fisici femminili in bella vista e pruriginosi gesti saffici.

Emma Stone, a parte l’incredibile metamorfosi fisica per assomigliare all’androgina bilie Jean, non è alla sua migliore interpretazione (così come vale per Carrell). Ma cosa chiedere, del resto, agli attori quando l’impianto di regia non riesce a sfondare il velo delle banalità?

 

La La Land, di Damien Chazelle

C’è voglia di bellezza, di energia e di eleganza vintage nell’aria. E La La Land li serve allo spettatore su un vassoio d’argento. Più precisamente li confeziona in modo magistrale e crea un mosaico raffinato che non tralascia nessuno dei clichè più amati e nostalgicamente rimpianti di (e da) un certo cinema d’epoca, riferendosi in modo particolare alla migliore tradizione dei film musicali.

Una pellicola che fa qualcosa di più che raccontare una storia: sfrutta la storia che intende raccontare per esprimere un reverenziale feticismo nei confronti della Settima Arte e per valorizzarne tutti i meccanismi con attestati genuini di passione, culto e fedeltà. Il risultato è una sorta di “narrazione visiva” che fa della citazione e del virtuosismo la sua cifra stilistica.

La storia di due indomiti sognatori che si scontrano con una realtà feroce e deludente appare quasi banale nella sua semplicità ma il linguaggio cinematografico corre in soccorso del regista e offre l’imprevedibile soluzione di un montaggio particolare, che utilizza connessioni a volte al limite dell’illogico per rendere al meglio quello che vuole essere un lirico resoconto onirico. La dedica della locandina “ai sognatori” assume così un senso diverso e più profondo: il film è dedicato tanto a chi è capace di lottare per i propri sogni quanto a chi è capace di sognare a occhi aperti.

Ogni elemento sembra un avvertimento: il cinema è un mezzo di espressione creativa e al contempo una disciplina che usa tecniche precise per raccontare una storia, il film vuole allora mettere a nudo quelle tecniche che da dietro le quinte creano la magia del cinema istituendo con lo spettatore un tacito accordo basato su un dialogo visivo. Si ricompongono così una serie di elementi tecnici che, più o meno smascherati, vogliono interagire con le emozioni dello spettatore per creare una risposta emotiva, compresi ad esempio la palette cromatica irresistibilmente studiata e il richiamo costante a una certa moda anni 50 (forse anche un tantino esagerato per quanto serva a perseguire un facile consenso da parte del pubblico) nonostante la storia sia ambientata ai giorni nostri.

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Lei, aspirante attrice, fa la cameriera in un bar mentre, un provino dopo l’altro, colleziona una serie di umilianti figuracce e fallimenti. Tra un passo di danza e una canzone, la convincente interpretazione di Emma Stone riesce ad associare la grazia e la leggerezza propria di una moderna Cenerentola che insegue il suo sogno, alla fragilità e all’autenticità di una donna che lavora con fatica e dedizione per costruire il proprio avvenire.

Lui, artista incompreso e animo profondo, cerca di sopravvivere suonando il piano in un ristorante ma convive con la frustrazione di non poter esprimere davvero se stesso e sogna di aprire un locale in cui salvaguardare la libertà degli artisti e la purezza del jazz, che venera come un culto.

Costretto a scendere a compromessi suonando in una band di musica commerciale, scopre che la facile fama raggiunta non lo rende felice mentre il vecchio sogno resta sopito in attesa di uno spiraglio di volontà che lo costringa a mettere tutto in discussione.

Entrambi i protagonisti sperimentano quanto possa essere faticosa e al tempo stesso eccitante la strada della autoaffermazione in una città che solo in apparenza è l’emblema del self-made-man, Los Angeles, “la città delle stelle”.

La loro simbiosi come coppia artistica è declinata in ogni possibile linguaggio cinematografico e scenico: dal duetto cantato all’irresistibile passo di danza che rievoca la perfetta sintesi artistica rappresentata da Fred Astaire e Ginger Rogers.

Il film ha ottenuto un successo di critica strepitoso: il record già stabilito con la vittoria di tutte e sette i Golden Globe a cui era candidato è stato confermato dalle 14 nomination agli Oscar, numeri fin’ora raggiunti solo da titoli del calibro di Eva contro Eva e Titanic. Il prossimo 26 febbraio, durante la Notte degli Oscar, si scoprirà se La La Land riuscirà a conquistare i titoli più prestigiosi  come Miglior film, Migliore colonna sonora e Miglior sceneggiatura. Emma Stone, già premiata da uno stuolo di apprezzamenti da parte di critica e pubblico oltre che da una serie di importanti riconoscimenti internazionali, è data quasi certamente vincitrice dell’ambita statuetta come Migliore attrice protagonista per la sua interpretazione di Mia Dolan, eroina femminile del film.

La regia del giovane Damien Chazelle, candidato all’Oscar come Miglior regista, è volutamente enfatizzata, quasi teatrale: luci, movimenti degli attori, dialoghi, espressività dei volti, pose plastiche e inquadrature “frontali” danno l’impressione di assistere a una pièce teatrale.

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La luccicante spettacolarità del cabaret è addirittura esplicitamente citata in una scena del film, attraverso una metafora che intende suggerire la realtà finta e stereotipata entro cui danzano i due protagonisti.

Tutti i personaggi si muovono come in una immensa coreografia, una danza continua tale da creare un continuum fluido con le scene realmente coreografate della pellicola. L’ambientazione della storia funziona come un immenso palcoscenico su cui si realizza una disposizione di elementi mai causale ma sempre funzionale al movimento dei personaggi. Uno schermo in 16:9 restituisce delle vere e proprie scenografie studiate al vetriolo mentre la gestualità enfatizzata dei personaggi sembra quasi voler portare allo scoperto il ruolo dell’attore di emulare le emozioni umane.

La composizione di ogni singola scena è così un meraviglioso artificio imposto e la dimensione comunicativa si esprime attraverso un linguaggio riconosciuto universalmente dai suoi fruitori, quello dell’industria cinematografica.

Il cinema dunque, come fine ultimo e come strumento comunicativo, scelto non a caso in quanto arte che più di ogni altra ha saputo rendere reale i sogni, costruendo un mercato che quei sogni li costruisce e li alimenta. La dedica sulla locandina suggerisce allora che il film è indirizzato a tutti coloro che si vogliono lasciar trasportare in un sogno ad occhi aperti, attraverso quel mistico contenitore immaginifico che è la sala cinematografica.

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La delicatezza è il leitmotiv del film, anche nei momenti di crisi dei due protagonisti, anche quando la musica invita a scatenarsi, una leggerezza di sottofondo sfuma l’atmosfera. Come se tutto concorresse a rendere il senso di sfuggevolezza e di calorosa trepidazione che accompagna il percorso di realizzazione di un sogno. Ma il film si domanda anche quale sia il prezzo che si è disposti a pagare per vedere il proprio sogno diventare reale. La risposta è definitiva e senza possibilità di appello: una piena e totale serenità chiede in pegno la purezza di un sentimento travolgente che deve sacrificarsi e far posto a una felicità reale ma forse meno appagante.  Chi sono dunque i sognatori? Coloro che lottano duramente per realizzare i propri sogni, nonostante i fallimenti e le umiliazioni, per scoprire alla fine di questo duro percorso che ne valeva la pena nonostante quello che si è perso per strada. O forse proprio in nome di quello.

La sequenza finale del film, quella che in sostanza emoziona maggiormente e che tira le somme dell’intera vicenda, vede il compimento definitivo della grande metafora del cinema come sogno ad occhi aperti mostrando quella parte di vita che il destino avrebbe potuto riservare “se…”

L’accensione delle luci di sala è l’equivalente del ripiombare nella realtà dopo un sogno. Il sogno intrappolato nella dimensione della realtà mostra tutti i suoi limiti, mentre quello che “poteva essere se…” resta qualcosa di meravigliosamente inafferrabile.

Perché il sogno per essere tale deve vivere di incompletezza, di fame e di follia. Come la scena di un film che per essere credibile e emozionante non deve far trapelare gli oggetti di scena né la bidimensionalità del set. Pena la perdita delle emozioni più autentiche.

Ma infondo quello che insegnano i due protagonisti di questa romantica fiaba musicale, e attraverso essi il cinema in generale, è che non importa se certe storie siano vere o inventate, quello che conta è che si sia vissuto il sogno.

Irrational Man, di Woody Allen

«Molta filosofia è solo masturbazione verbale»

Abe Lucas (Joaquin Phoenix) è un Irrational Man, tormentato professore di filosofia che arriva nel piccolo college di Braylin sulla East Cost per provare a dare una svolta a una vita di cui non riesce più a cogliere il senso. Il cambiamento sperato, tuttavia, non arriva subito, a differenza dei pettegolezzi sul passato del prof. Lucas che suscitano un fascino irresistibile sulla brillante Jill Pollard (Emma Stone), studentessa di filosofia, e sull’insoddisfatta insegnante di scienze Rita Richards (Parker Posey), catturate sin da subito dallo straniero bisognoso d’affetto e cure. A fare le spese di questo arrivo è Roy (Jamie Blackely), fidanzato di Jill messo da parte a causa di quella che diventa non una semplice relazione tra professore e studentessa, ma una sorta di missione intellettuale di salvataggio. Quando ogni tentativo sembra non sortire alcun fatto, una conversazione ascoltata per caso e una torcia vinta ad un Luna Park cambieranno le vite dei protagonisti per sempre.

Joaquin Phoenix e Parker Posey

L’Irrational Man Abe Lucas è una pedina in balia del caso, del destino e della fortuna, entità ricorrenti in molte pellicole del regista newyorchese (da Match Point a Blue Jasmine) e che in questa in particolare vengono snocciolate in tutta la loro essenza. La fortuna è diversa dal caso che a sua volta è diverso dal destino ma insieme le tre forze sono in grado di avviluppare i protagonisti della storia in un buco nero di illusioni e sentimenti, smorzati e conditi dai divertenti e paradossali scherzi della vita; pur ruotando tutto sulla filosofia (questa volta in maniera aperta ma i grandi quesiti dell’umanità fanno da sfondo a ogni pellicola di Woody Allen ), nessun tema esistenziale viene tuttavia approfondito adeguatamente, né dai comportamenti dei personaggi né dalle riflessioni delle voci fuori campo. L’elemento più forte che emerge è l’egocentrismo di ciascuno dei protagonisti. Abe pretende di trovare senso alla propria esistenza nel mondo solo con il compimento di un gesto, non più astratto come nell’iperuranio delle sue speculazioni filosofiche, ma concreto e in grado di affermare la propria taratura intellettuale e morale; dal canto loro Jill e Rita si considerano la ragione unica della guarigione del professore, crocerossine vittoriose ma, comunque, mai completamente appagate; unico outsider è il povero Roy, cane tante volte bastonato e altrettante fedele al proprio padrone, macchietta che non spicca nell’economia della storia.

Emma Stone e Joaquin Phoenix

Se della filosofia rimangono aforismi da riciclare senza rimorsi sui social network, Irrational Man rimane una pellicola alleniana in tutto e per tutto, godibile nelle scelte di regia (proverbiali le scene girate a tavola, punti nevralgici della storia così come in Match Point o in Crimini e misfatti) ivi incluse le belle riprese in cinemascope, nella colonna sonora dei Ramsay Lewis Trio dal beat incessante e in perfetta sincronia con le scene, nella sceneggiatura meglio gestita rispetto agli insignificanti To Rome With Love o Vicky Cristina Barcelona ma che si avvicina solo di striscio a Io&Annie, nell’interpretazione di Emma Stone e Joaquin Phoenix, perfetti nel ruolo ed espressivi così come lo erano già stati in Birdman e Her, le loro migliori performance.