Fabio Cavalli

Dalla Città Dolente, di Fabio Cavalli

Dietro le sbarre il teatro, nel teatro una nuova vita. Le cancellate di Rebibbia si schiudono e accolgono i visitatori, decine di telecamere puntano i loro occhi vuoti su volti smarriti, incuriositi, intimoriti. Le guardie guidano in silenzio le decine di persone che hanno deciso di rinunciare al cielo e al cellulare per qualche ora ed entrare nel carcere più famoso d’Italia. Sono studenti liceali, universitari, giornalisti, appassionati che si riversano nella sala dalle poltrone viola sotto la chiesa e fissano il palco nero su cui il Maestro Moretti e alcuni elementi della scuola di musica popolare di Roma provano i loro strumenti.

È martedì 13 ottobre, sono passate le 16:30 quando i detenuti attori del reparto G12 Alta Sicurezza entrano in scena. Alcuni hanno l’aria tesa e smarrita, altri fremono e sorridono, altri ancora sfilano con un profilo basso, immersi in chissà quali pensieri. Tutti, però, sono sul palco per sancire la propria presenza nel mondo, quello civile a cui i reati commessi e la pena li hanno strappati. A guidarli nei passi incerti ci sono il regista Fabio Cavalli e Laura Andreini Salerno. Ha così inizio “Dalla città dolente. Colpa, pena, liberazione attraverso le visioni dell’inferno di Dante”, nuovo appuntamento del Festival dell’Arte Reclusa, organizzato dal Centro Studi Enrico Maria Salerno, per la presentazione del copione teatrale da cui lo spettacolo trae il nome.

Non c’è modo migliore di venire a patti con i propri errori di affrontarli, guardali in faccia, anche se per far questo bisogna scovarli tra i versi danteschi, sviscerare i canti dell’Inferno e subire la propria pena al pari dei peccatori. Ulisse, il conte Ugolino, Paolo e Francesca sono specchi in cui si riflettono le colpe, ma che riverberano anche e soprattutto sentimenti celati e mai sopiti. Le voci sicure, emozionate, smarrite, decise raccontano di storie vecchie e di nuovi peccati. Dante parla la lingua spagnola, calabrese, siciliana, napoletana senza perdere forza e vividezza. La distanza geografica viene annullata e con essa quella temporale. Il peccato si trasforma in reato, il reato diviene pena che separa l’uomo dagli altri uomini. È un bisturi che recide il peccatore dalla società e lo scaraventa in un girone di inferriate scrostate e corridoi bui. Appesi sui cancelli blu non ci sono i numeri delle bolge ma quelli dei reparti. Il carcere è una città dolente dove la speranza è lontana quanto il cielo, dove l’occhio dell’uomo si spinge con reticenza e paura. Una sorta di attrito respinge i passi di chi varca la cancellata, una gravità differente grava sui corpi e chi è costretto a vivere negli inferi di cemento ha come unica possibilità quella di emancipare la propria mente attraverso lo studio, la cultura e l’arte.

Il teatro in carcere è una bolla d’aria fresca in cui i pensieri si muovono liberamente, non compressi né compromessi dalla reclusione, è vita e riscatto. È possibilità. Lo testimoniano, alla fine dello spettacolo, gli applausi, i sorrisi degli spettatori, le strette di mano e i complimenti urlati o bisbigliati. I 25 detenuti attori afferrano a piene mani quell’approvazione, stringono a sé quella che pare loro l’inizio della redenzione, osservano fieri e smarriti la platea ma negli occhi di qualcuno e tra le increspature della fronte di qualcun altro c’è la consapevolezza che le stelle sono ancora troppo lontane per essere viste.

Arturo Ué ovvero “Brecht a fumetti”, di Fabio Cavalli

Si alza ancora una volta il sipario sulla compagnia dei detenuti attori della Sezione G12 Alta Sicurezza della Casa Circondariale di Rebibbia per la messa in scena dello spettacolo Arturo Ué ovvero “Brecht a fumetti” , tratto da La resistibile ascesa di Arturo Ui di Bertolt Brecht, adattato e diretto dal regista Fabio Cavalli.

La Casa Circondariale di Rebibbia è un purgatorio alla periferia di Roma, un luogo di passaggio tra la vita che era e quella che sarà, in cui migliaia di anime vengono traghettate nell’attesa di trasformarsi in uomini nuovi. Ma qui il tempo è troppo lungo per restare fermi, per aspettare il verdetto della legge crogiolandosi nell’inattività, perché la sete di cultura è ardente quanto quella di giustizia e l’arte è una finestra sempre aperta su un mondo altrimenti irraggiungibile. L’arte ha il potere di abbattere le mura insormontabili di questa fortezza e di passare attraverso i cancelli blindati che la isolano dalla città, per portare l’anima fuori dallo spazio che la tiene reclusa, facendola viaggiare nello spazio e il tempo. Dante, Shakespeare e Brecht sono proprio qui, serpeggiano tra i corridoi della casa circondariale e nei discorsi dei suoi abitanti, e continuano a vivere su questo palcoscenico nascosto agli occhi della città per raccontare le loro storie attraverso nuove voci, forse poco avvezze alla poesia, ma di sicuro esperte del mondo e dei crimini denunciati dai grandi della letteratura.

Arturo 1

Dall’omicidio spietato di Giulio Cesare per mano dei suoi congiurati, messo in scena in Cesare deve morire, all’ascesa al potere di Arturo Ué, un gangster senza scrupoli che elimina i suoi rivali uno dopo l’altro per ottenere il controllo assoluto del commercio dei cavolfiori nel porto di Chicago, a Rebibbia l’arte racconta la realtà attraverso la finzione, senza censure e senza condanne, con gli strumenti che gli sono più congeniali. I testi teatrali sono cuciti addosso agli attori dalla mano sapiente di Fabio Cavalli, che non snatura le diverse personalità della sua compagnia e il loro background culturale, ma al contrario ne trae ispirazione a piene mani per caratterizzare i personaggi del dramma con le diverse cadenze regionali e dargli uno spessore drammatico altrimenti irraggiungibile. Arturo Uè è un personaggio di finzione eppure ha un aspetto estremamente familiare e realistico. Il suo costume è la maschera di uno dei gangster che negli anni Trenta seminavano terrore sulle coste americane, o quella di Hitler, il dittatore sanguinario con baffetti e bastone alla Chaplin, o ancora quella della criminalità dei colletti bianchi, abilmente celata da un’apparenza impeccabile, che ogni giorno ammicca dalle prime pagine dei giornali. Sul palcoscenico di Rebibbia, Arturo e i suoi scagnozzi sono tangibili, parlano un dialetto sin troppo noto e hanno la straordinaria capacità di rendere verisimile un testo tradotto dal tedesco, adattato in italiano, e imbastito da Cavalli in un rima raffinata per tutta la sua durata.

Arturo 6

Il realismo linguistico si pone in netto contrasto con una messa in scena surreale, in cui il formalismo della rima trova il suo contraltare nella scenografia fumettistica realizzata da Alessandro De Nino. Tutti gli oggetti di scena,  dalle pistole alle automobili, sono disegnati su cartoncino, visibilmente fasulli, e hanno il compito di inscrivere l’opera brechtiana in una cornice allegorica, che affronta con leggerezza apparente gli intrighi che si susseguono sulla scena uno dopo l’altro, i regolamenti di conti tra bande rivali e i crimini impuniti di Arturo Uè. La finzione dichiarata concede una libertà d’espressione più ampia, a Brecht come ai suoi interpreti, e libera l’arte dall’obbligo di denunciare gli orrori della realtà, ponendosi in una posizione distaccata, che allude senza assumersi la responsabilità di prendere una posizione. Il verdetto finale è affidato allo spettatore e alla sua capacità di scrutare sotto la superficie del testo, dietro i fumetti e nel sottotesto di quelle rime brillanti, per tracciare un suo personale giudizio morale ed estetico, ridefinendo i confini tra bene e male sulla base degli stimoli visivi e sonori a cui questo teatro lo sottopone.