Jacob Tremblay

Wonder, di Stephen Chbosky

“Abbiamo dentro di noi, come esseri umani, non solo la capacità di essere gentili, ma la scelta reale della gentilezza”
R.J. Palacio, Wonder

Scegli di essere gentile. Questo è il messaggio che R.J. Palacio ha inscritto in Wonder, il romanzo da cui è stato tratto il film di Stephen Chbosky, che racconta la storia di Auggie, nato con delle gravi malformazioni al cranio, che per la prima volta si affaccia al mondo esterno nel suo primo, vero giorno di scuola. L’impatto con i suoi coetanei è tutt’altro che indolore. Come da copione, la maggior parte di loro non riesce a sostenere la vista del suo viso martoriato, sposta lo sguardo altrove e lo lascia in disparte. Che sia per l’incapacità di guardare dritto in faccia la sofferenza, o per l’abitudine a vivere al riparo dal dolore in un ambiente familiare ovattato, ma la presenza di Auggie porta inevitabilmente scompiglio tra i ragazzi, e li turba più di quanto lo sia lui in quella situazione.

E se Auggie ha messo in conto l’isolamento ancora prima di mettere piede a scuola, a stupirlo sono le reazioni più estreme dei suoi compagni. Da una parte c’è chi approfitta del suo aspetto esteriore per ridicolizzarlo nel modo più brutale possibile, dall’altra c’è chi riesce a guardare oltre l’apparenza e gli diventa amico senza chiedere nulla in cambio, se non il piacere della sua compagnia. Ed è proprio questo il punto su cui si focalizza R.J. Palacio nel suo romanzo e che torna nel film di Chbosky: la scelta della gentilezza, che è insita in ognuno di noi, ma è scegliere di andare dal nuovo bambino della classe e diventarne amico o di ignoralo che fa davvero la differenza.

Come un astronauta che si prepara ad entrare in un mondo alieno, Auggie arriva a scuola con un casco da astronauta, che non solo gli permette di nascondere il suo viso, ma di rimanere al sicuro in quello spazio immaginario dove si sente libero e abbastanza forte da affrontare mostri spaventosi e minacce extraterrestri. Ed è proprio l’incapacità iniziale di Auggie di separarsi da questo oggetto simbolico, e in seguito l’abbandono del casco, che va di pari passo con l’affermazione del proprio ruolo nella comunità scolastica, che segna il suo percorso di crescita personale e il faticoso accesso nel mondo. Dalla sicurezza di un ambiente familiare amorevole e comprensivo, agli occhi del quale è perfetto in tutto e per tutto, Auggie si trova ad affrontare un mondo sconosciuto, in cui deve combattere per essere accettato come ogni altro adolescente, e forse anche di più. Ma è proprio questa la sfida: schierarsi in prima linea senza filtri e protezioni, da solo ma non indifeso, con l’unica arma della gentilezza.

A lottare al suo fianco ci sono la sua famiglia e gli amici più cari, che dal canto loro hanno le proprie battaglie da combattere, se pure più lievi. E il regista Stephen Chbosky ha scelto di non trascurare questo punto per mettere al centro della vicenda unicamente Auggie, ma ha esteso il punto di vista sulla storia a tutti i personaggi, per mostrare i diversi stati d’animo che accompagnano l’evoluzione del protagonista. Accompagnato da una scrittura equilibrata, che approfondisce la psicologia di ogni personaggio conservando un velo costante di ironia, Chbosky non cade mai nel patetico, e segue pedissequamente la linea del romanzo da cui è stato tratto. Wonder è una riflessione sul tema dell’amicizia e dell’accettazione della diversità, ma soprattutto sulla possibilità di scegliere chi si vuole essere in base alle proprie azioni. La storia di Auggie e di tutti coloro che lo circondano è solo una delle possibili declinazioni di questa scelta e non si pone in alcun modo in una posizione didascalica rispetto alla vita, ma si limita a mostrare quanto un atto di gentilezza possa cambiare il mondo, almeno il mondo di qualcuno.

Shut In, di Farren Blackburn

Spesso si crede di conoscere a memoria ogni angolo della propria casa, fino al più piccolo anfratto, ma si può dire lo stesso dei suoi abitanti? Chi sono davvero le persone che amiamo, che accudiamo, e che ci stanno accanto ogni giorno? Shut In parla proprio di questo, spalancando le porte più segrete della coscienza umana, i lati più oscuri e più pericolosi, ma per farlo usa il linguaggio del thriller, dell’orrore che si nasconde tra le mura di casa e all’improvviso salta fuori con tutta la brutalità di cui è capace.

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Protagonista assoluta della storia è Mary (Naomi Watts), una psicologa infantile che vive e lavora nella sua enorme casa scricchiolante, isolata dal resto del mondo. I suoi piccoli pazienti le fanno visita proprio lì, a due passi dal figliastro diciottenne Stephen (Charlie Heaton), ridotto in stato vegetativo dopo un tragico incidente stradale che è costato la vita al marito Richard. Le sue giornata scorrono una uguale all’altra scandite da una serie infinita di rituali, che la vedono impegnata ad accudire Stephen, ridotto ormai a un tronco immobile e completamente dipendente da sua madre. Tutto questo fino a quando Tom (Jacob Tremblay), uno dei pazienti a cui Mary è più legata, scompare misteriosamente e da allora nulla è più come prima. Mary perde il sonno e non si da pace all’idea di un bambino così fragile disperso chissà dove tra i boschi, nella neve, quasi sicuramente morto di freddo. Ma non è tutto, perché la scomparsa di Tom coincide con una serie di eventi inspiegabili e inquietanti che iniziano a turbare la quiete della sua casa, fino a trasformare quello che fino a poco tempo prima era il suo rifugio, in un luogo ostile, terrificante come un incubo ad occhi aperti.

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L’orrore qui è tangibile, e oscilla dal soprannaturale al perturbante, mettendo in campo tutti i cliché del genere, per ingannare i sensi dello spettatore e stupirlo con una serie infinita di colpi di scena. Nulla è quello che sembra in Shut In, eppure tutto sembra già visto un’infinità di volte, imparato a memoria dalla cinematografia precedente. Farren Blackburn mette insieme una macchina del terrore potenzialmente perfetta, che segue le regole del genere alla lettera e regala l’effetto sperato, ma tuttavia non riesce a creare quell’effetto di orrore esplosivo che ci si aspetterebbe da un film come questo. Ed è un vero peccato, perché in questo film non manca davvero nulla, compreso un cast di tutto rispetto, ad eccezione di quel guizzo di originalità di cui il cinema di genere contemporaneo ha un bisogno disperato. Dopo tutto anche questo, ahimè, era prevedibile.

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