Ma loute

Ma loute, di Bruno Dumont

Estate del 1910, Baia de La Slack, dalle parti di Calais, nel nord della Francia. Una serie di misteriose sparizioni di turisti benestanti spinge l’obeso ispettore Machin e il suo fedele assistente Malfoy ad indagare sul caso tra le spiagge, le scogliere, il mare e le dune di un paesaggio mozzafiato, dove nel frattempo le vicende dei Brufort, famiglia di pescatori della zona, e del loro figlio maggiore Ma Loute, si intrecceranno sorprendentemente con quelle dei Van Peteghem, ricca famiglia borghese in villeggiatura.

Bruno Dumont (regista, sceneggiatore, ma anche professore di filosofia) con Ma Loute, film in concorso nella 69° edizione del Festival di Cannes, si cimenta nei panni di autore comico, votandosi totalmente al grottesco e al surreale in un’opera costantemente giocata sull’eccesso. Ma Loute richiama, rielabora e combina Grand Guignol e cinema muto, crudo realismo e burlesque, e lo fa attraverso una galleria di personaggi caricaturali, spudoratamente eccessivi in una comicità tutta fisica, frutto di una recitazione sempre – forse troppo – sopra le righe, che però è lo stesso Dumont a richiedere ad un cast anch’esso ‘squilibrato’ tra fuoriclasse dell’interpretazione e attori non professionisti (da sempre i prediletti del regista francese). La caduta, la deformità, l’espressione inebetita, il parlare in maniera ridicola, i movimenti troppo rigidi o troppo convulsi: sono tutti elementi funzionali ad una dimensione comica che per Dumont nasce dal fallimento di una sequenza di dramma, e che pertanto è tutta basata su uno scarto in negativo che impone una maggiore attenzione al dettaglio.

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I Brufort, quasi una macabra caricatura dei Malavoglia, con la loro rozza bestialità, e i Van Peteghen, ‘strani animali’ dal sangue marcio e corrotto che, arroccati in una pomposa villa in stile egiziano, più che faraoni, si presentano come mummie incancrenite sull’onda di una decadenza fisica e morale: sono due famiglie, ma soprattutto due mondi che si confrontano e si osservano con sospetto e diffidenza, e tuttavia senza che si possa parlare di lotta di classe, poiché non vi è un obiettivo, né posta in palio. Tra pescatori e ricchi borghesi vi è uno scontro istintivo, silenzioso, latente, soffocato, che trova armonia solo in quel cannibalesco – non solo e non tanto metaforicamente – ‘nutrirsi dell’altro’ che accomuna entrambi gli schieramenti, ognuno dei quali occultante segreti che nel corso del film emergono senza però mai svelarsi completamente né a coloro che dovrebbero portarli alla luce – i due goffi poliziotti, che tanto ricordano Stanlio e Ollio – né allo spettatore, il quale può solo tentare di intuire.

Resta così una parodia del giallo, un caleidoscopico ed enigmatico gioco di specchi tra ambigue identità sessuali, perbenismi di facciata, distanze sociali, odio, cretini e geni, amore e crudeltà, pazzia e meraviglia: un’esponenziale proliferazione di confronti e contrasti che tuttavia nel corso del film sembra scadere nella contraddizione per via di una componente grottesca e stravagante eccessivamente sciolta e soprattutto mal incanalata in una forma che è troppo estenuante e disturbante per risultare comica e troppo burlesque per essere dramma.

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Così, se da un lato la virtù principale di Ma Loute sta in quella varietà di situazioni e personaggi e in quella ricchezza di motivi, prospettive e ‘inquadrature’ che lo rendono una vera e propria Comédie humaine, dall’altro il suo principale punto debole consiste proprio nel fatto che tali varietà e ricchezza sono sempre sull’orlo del (e spesso ben oltre il) baratro del caos, entro il quale non può esservi né sociologia né filosofia, ma solo confusione, che è dire tutto e nulla.