Maria Luisa Usai

Nord Nord Ovest, di Marco Sanna

Il tempo goccia via in uno stillicidio che rode l’anima e la mente. Precipita dal soffitto scuro della scena e riempie vasi che vanno svuotati, come la memoria che sostiene l’esistenza e talvolta si vorrebbe liberare dalle zavorre. Le pareti nere intrappolano il palco senza scampo, la plastica rifrangente sul pavimento è una bruma umida su cui sembra impossibile restare saldi, gli abiti scuri reclamano un funerale. Fibre di abulia si intrecciano ai volti dei giovani attori, fantasmi tenuti in vita da ricordi distanti e sbiaditi, ma ancora troppo resistenti per essere recisi. “Nord-Nord Ovest”, della compagnia sarda Meridiano Zero Teatro, celebra l’attesa delle fine, il desiderio che l’onda del tempo travolga la memoria fino a cancellarne le tracce.

Non c’è tempo per l’improvvisazione, non c’è forza per rinnovarsi e reinventarsi, l’unico stimolo che si innerva nei corpi dei quattro attori è quello di reiterarsi sempre. Parole, gesti, idee non trovano sbocco in nulla che non sia già stato detto, fatto, pensato. Il tempo si dilata nei dialoghi e molto di più nei silenzi, pause estenuanti e corrodenti. E allora l’unico scopo in quel limbo del ricordo è quello di celebrare un rito sempre uguale. Si apparecchia la lunga tavola di legno, si sorbisce il brodo, si mescola e si aggiunge il sale, si gira attorno al desco senza che nulla cambi, che un vero dialogo si instauri. È una tradizione che non muta, che è ancorata al passato e legata ad essa. E allora il brodo rimane sempre sciapo, perché nulla di vecchio può insaporirlo e il nuovo è solo vagheggiato, ma mai afferrato. È l’affresco di un teatro che non sa innovarsi, che ripete se stesso e aspetta per cena un Godot che sa già che non si presenterà.

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Dunque il funerale della tradizione è agognato ma non celebrato. E anche quando si tenta di mettere in scena qualcosa di diverso, quando si osa, quando si prova ad allontanarsi dal passato, inevitabilmente si viene richiamati indietro, attratti da una forza gravitazionale che ancora al suolo brumoso del vecchio, dello stantio. Il salotto decadente viene trasformato in una platea, una scena di meta-teatro in cui ognuno dei quattro attori è costretto ad esibirsi davanti agli altri, a cedere una parte di sé per ricevere approvazione, per costruire i propri confini.
Alla fine, però, c’è la resa dei conti con se stessi. Uno specchio rimanda l’immagine dei quattro attori, ma li distorce, li deforma in una realtà falsata, grottesca, costringendoli ad una danza surreale e sempre uguale.
In questo mondo decadente non si può vivere e non si può morire, si può solo esistere tra le nebbie, figure opache sempre uguali a se stesse, mentre lo stillicidio del tempo erode senza sosta.

Il titolo “Nord Nord Ovest” non è che un richiamo alla provenienza della compagnia sassarese, vincitrice con questo spettacolo di Inventaria Festival 2015. Alla regia e sul palco Marco Sanna e con lui Felice Montervino, Maria Luisa Usai (vista in Giulietta Delli Fiori) e Francesca Ventriglia.

Giulietta Delli Fiori, di Maria Luisa Usai

La compagnia DoveComeQuando presenta la V edizione del festival teatrale Inventaria, ospitato dal Teatro dell’Orologio fino al 24 maggio. Tre sezioni di concorso: spettacoli, monologhi/performance, corti teatrali. Inventaria si rivolge agli artisti emergenti, nell’ottica di un’arte sostenibile e più vicina ai giovani. La terza serata del festival ha visto come protagonista Maria Luisa Usai, autrice e interprete de “Giulietta Delli Fiori”.

Recensione di Manuel Porretta

Giulia Fiori non esiste più. Giulietta Delli Fiori sì. La sua vita, come i suoi monologhi, è scandita dal fischio dei treni, dallo sferragliare dei vagoni sulle rotaie mentre trascinano via vite e sguardi. Giulietta è una clochard che vive entro i limiti di un’aiuola qualsiasi fuori da una stazione qualsiasi, tra sguardi distratti di passeggeri qualsiasi. I confini colorati e fragili del suo universo la proteggono ma la isolano, e lei inizia a sentirsi sola nella notte buia, sola come un papavero in un vaso cinese in un salotto color panna. E Giulietta non vuol diventare quel fiore triste e puzzolente. Il rimedio è gettarsi da una cavalcavia per dimenticare l’amore, per cancellare le brutture della vita, per raggiungere il paradiso che le spetta. Quando Giulietta guarda nel baratro non ha paura dell’incontro violento con la terra, ma del vuoto, che è un altro abbraccio della solitudine. E mentre si arrampica e guarda di sotto, la sua vita procede all’indietro, sulle tracce di amori infranti. È una donna, è una ragazza, è una bimba spezzata che si ricompone dei frammenti di una esistenza passata, di illusioni fanciullesche, di domande tramutate in speranze. 2giuliettadellifiori-2Giulietta Delli Fiori parla come le scritte sui cavalcavia, sui muri di una periferia distante, usa una grammatica personale che condivide con un mondo al margine, compone storie che sono schegge reali e taglienti, a cui nessuno dei viaggiatori distratti che le passa accanto ha voglia di dare un’occhiata, se non fugace e in tralice. Giulietta si nutre degli scarti altrui e dei fiori per non rubare, per non sottrarre nemmeno un secondo alle vite frettolose che le scorrono accanto senza notarla. E proprio i fiori, effimeri e policromi come la sua anima, sono i mattoni che compongono il suo mondo, le metafore attraverso cui imbriglia la realtà e comprende le cose. L’amore adolescenziale è un fiore di plastica, imperituro ma finto, l’aitante cugino un ulivo forte e fragile, il padre una quercia dal cuore di corteccia. Giulietta si fustiga con un fiore rosso, lancia piante di campo, le spezza, le accarezza, le condivide con il pubblico. Sono parti del suo animo e attraverso di esse vive. Quando termina il suo viaggio a ritroso, Giulietta si ritrova in una nuova condizione di solitudine, ma con essa riscopre le tracce dell’attesa, della speranza che qualcuno venga a prenderla, a reciderla dalla sua piccola aiuola e a portarla via, lontano dal buio. E allora il passo nel vuoto vacilla e indietreggia, si appoggia su altri sogni e altre speranze. Maria Luisa Usai è autrice e attrice del testo, e scivola con bravura dalla tragedia alla commedia, mentre il suo corpo parla del dramma e ammicca al ridicolo. Riesce a rendere unitaria e completa la figura di Giulietta, così tridimensionale che al termine dello spettacolo, una volta uscito dal teatro, lo spettatore si osserva intorno in cerca della clochard amante dei fiori che non ha mai degnato di uno sguardo.