Il suono assordante dei colpi che Riccardo III sferra al suo letto di morte risuonano tra le mura del Teatro dell’Orologio di Roma, insieme all’odore pungente della vernice spray con cui disegna il suo tragico destino, e dal 2 al 23 novembre Michele Sinisi, solo sulla scena, si prepara a vivere ogni il dramma del re deforme per trovare una cura alla sua anima corrotta.
Riccardo è nato insano, incompiuto e, mentre contempla l’immagine deforme che proietta la sua ombra, non può fare a meno di pensare che il suo destino sia inscritto in un inverno perenne, privo di languidi piaceri e offuscato dal dolore dell’isolamento. Non ci sono gonnelle svolazzanti a venerarlo o ghirlande sopra la sua testa, Riccardo è solo. In un mondo che osanna gli eroi, e celebra la bellezza esteriore ancor prima delle qualità morali, non c’è posto per Riccardo, l’antieroe malfatto e malfattore che rimane ai margini della società a crogiolarsi in un dolore insopprimibile. La violenza sanguinari che scatena contro i suoi nemici, il tradimento degli amici e l’amore strappato a Lady Anna con l’inganno sono solo una consolazione effimera, una vendetta blanda contro una società che non lo riconosce come capo supremo e lo emargina come il peggiore degli appestati, prendendosi gioco della sua deformità.
Riccardo è solo dall’inizio alla fine della sua storia, ma continua a dibattersi instancabilmente sulla scena per cercare di cambiare il triste destino che la sorte gli ha cucito addosso. La mostruosità, incollata alla carne, divora la sua anima, e a nulla servono le contorsioni e le urla strazianti, perché nulla può liberarlo dal corpo in cui è imprigionato, se non la morte. Ora l’unica possibilità che ha Riccardo di fare ammenda per il dolore che ha procurato, e di alleggerirsi l’anima dal peso dei torti subiti, giace nel racconto catartico di una vita solitaria, ingiustamente privata del calore umano e temprata nell’acciaio freddo della sua spada. Qui, sul palcoscenico del ventunesimo secolo, può narrare la sua storia in tempo reale, trascinando il pubblico affamato di verità sul campo di battaglia insieme a lui, costringendolo a respirare l’odore acre della sua vernice sanguigna e a sobbalzare sotto i colpi sferrati dalla sua mano contro le vittime inermi della sua frustrazione.
Michele Sinisi è solo, proprio come Riccardo, su una scena claustrofobica, libera da inutili orpelli e di personaggi di contorno, che tanto ricorda la sua vita. Dopo secoli di orrori perpetrati e subiti, Riccardo si trascina a fatica su un piede solo, mentre la sua schiena gobba si piega sotto il peso della sconfitta, e rammenta con rimpianto quello che è stato, la donna che ha amato e gli amici che ha perduto. Riccardo è disarmato al cospetto del suo pubblico, senza corona né armatura a protezione della sua fragilità. Tutto ciò che gli è rimasto è lo straordinario potere di comprimere il corpo e dilatare le parole, per adattarli ad una scena angusta in cui il tempo dell’azione è limitato a un unico monologo, che alterna i versi shakespeariani ai graffiti naive, per trasformarli in personaggi in carne e ossa che gridano aiuto, imprigionati in una lastra d’acciaio. Sono donne da sfiorare languidamente, nomi abbozzati e rimossi senza pensarci troppo, e nemici da cancellare dalla faccia terra con un colpo di spugna. La vernice è come il sangue, ha il suo stesso odore ferroso, e scorre a fiotti sull’acciaio per lavare la coscienza di Riccardo. Ora, nell’inverno della sua vita, il tiranno emarginato all’eterna ricerca di redenzione indossa i panni dell’uomo comune per farsi ascoltare, e si fa piccolo, come un artista di talento che colora i muri di una galleria urbana ai margini della città, o come un attore che si esibisce su un palco improvvisato sul ciglio della strada, per soddisfare l’urgenza bruciante di raccontare la sua storia e condividere con il mondo il suo dolore, nella vana speranza di metterlo a tacere, almeno per il tempo della recita.