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13 Reasons Why, di Brian Yorkey

Ciao sono Hanna, Hanna Baker” inizia così, la prima delle 7 audiocassette in cui la protagonista di 13 Reasons Why, una giovane liceale, spiega una per una le ragioni che l’hanno portata a togliersi la vita. Un testamento particolare, volutamente retrò e anti tecnologico, con cui una ragazza morta racconta la sua verità e inchioda uno dopo l’altro gli aguzzini responsabili di una disperazione senza via di uscita.

La vicenda di Hanna Baker scuote tutta la Liberty High School, mentre le audiocassette da lei registrate prima della sua morte, secondo un preciso percorso già pianificato, passano di mano in mano tra tutti i ragazzi coinvolti nel gesto estremo compiuto dalla ragazza. Questo ovviamente innesca un perverso meccanismo di smascheramento delle colpe di ciascuno di loro, con conseguenti tentativi di insabbiare la verità e di diffamarne la memoria della defunta. Saltano le maschere personali, salta l’equilibrio ipocrita di un gruppo di apparentemente normali ragazzi adolescenti.

13 episodi per 13 motivi: lo spettatore segue l’intera vicenda attraverso gli occhi di Clay, un  compagno di classe di Hanna, ragazzo responsabile e insicuro,  realmente innamorato di lei e che scopre in modo traumatico e improvviso di essere tra i destinatari delle cassette e quindi di essere stato suo malgrado in qualche modo responsabile del gesto della ragazza.
I ripetuti flashback di Clay mostrano una Hanna spensierata camminare tra i corridoi della Scuola in cerca di conferme mentre le registrazioni svelano una realtà diversa e riferiscono il suo scontrasi in modo sempre più devastante con una malvagità, una superficialità e un egoismo cieco, tanto dei suoi compagni quanto di quegli adulti che dovrebbero tutelarne la serenità. Il tutto amplificato da un utilizzo aggressivo delle chat e delle foto.
Un pezzo dopo l’altro l’equilibrio della ragazza viene frantumato e annientato, fino a che lei non trova più ragioni per reagire. Un’insicurezza patologica non permetterà a Clay di salvarla dal suo destino.

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Ci sembra doveroso fare una simmetria ed elencare i 13 motivi per cui la serie merita di essere seguita:

  1. Non è banale. Facile cadere nello scontato quando c’è di mezzo la rappresentazione del mondo adolescenziale. Ancor più facile quando si sceglie di confrontarsi con il tema del bullismo e del suicidio. 13 Reason Why invece sceglie un linguaggio tradizionale laddove esso è valido: vediamo la classica scuola americana, le cheerleader, la squadra di football, gli armadietti che custodiscono il piccolo mondo di ogni studente. Ma poi emerge il marcio che c’è dietro ogni banale esperienza scolastica: un microcosmo fatto di bisogno di emergere, di ansia da prestazione, di necessità di difendersi e di fare gruppo. I meccanismi perversi che si celano dietro il bisogno di riconoscimento altrui sono osservati in modo dettagliato e variegato. Nessun discorso troppo generale o improvvisato.
  1. Non è patetica. Non ci sono inviti alla lacrima facile, ogni momento di emozione della storia è ben giustificato. Una protagonista problematica? Una vita familiare travagliata o una propensione al pessimismo o alla sregolatezza come caratteristiche del personaggio principale? Niente di tutto questo, Hanna è una ragazza bella, sana, spensierata, sensibile, desiderosa di fare esperienze, ma al tempo stesso responsabile e capace di controllarsi nelle situazioni a rischio. Eppure viene presa di mira dai compagni. Colpita in ogni modo e offesa. Non si arrende, cerca di resistere con tenacia a ai colpi bassi, anche a quelli più feroci, tenta a modo suo di dare una seconda occasione alla vita. Non c’è in questa storia alcuna facile giustificazione al gesto del suicidio.
  1. Non è scontata. Per quanto la costruzione degli episodi sia modulare, nessun episodio è prevedibile. Nemmeno le reazioni dei vari personaggi lo sono. I colpi di scena ci sono fino all’ultimo fatale lato della settima cassetta, che coincide con l’ultimo episodio. Ogni volta si ha l’impressione di riuscire a prevedere il torto che la vittima dovrà subire e invece, proprio come Hanna, restiamo sorpresi e disarmati di fronte all’imprevedibile egoismo di persone che crediamo di aver inquadrato.
  1. Non è noiosa. La costruzione dell’intreccio è avvincente e il meccanismo delle cassette da ascoltare una alla volta lega perfettamente i vari episodi garantendo la giusta dose di suspance. La narrazione fa leva sul classico ingrediente della curiosità per avviluppare lo spettatore e costringerlo a chiedersi perché e come si è verificata una parabola narrativa di cui già consce l’infausto epilogo.
  1. Non è moralista. Niente falso perbenismo. Non esistono buoni e cattivi. Esiste un egoismo cieco e crudele che accomuna i ceti elevati e quelli meno elevati, le famiglie accoglienti e quelle totalmente assenti. Falliscono tanto i genitori comprensivi quanto quelli esigenti. Falliscono gli insegnanti premurosi e quelli più titolati. Gli amici veri si trasformano in carnefici mentre la parola di conforto arriva dal più estraneo dei conoscenti. I pregiudizi di una società perbenista e ipocrita sono consapevolmente annientati proprio in virtù e in funzione di un gesto di assoluta disperazione.

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  1. Non è pretenziosa. Al termine della serie è stato inserito un piccolo documentario dal titolo Tredici: oltre i perché in cui cast, produttori, esperti e psicologi motivano le ragioni di alcune scelte di sceneggiatura, visti i delicati temi trattati. Questo rende evidente il valore di operazione ben congegnata che sta dietro alla storia. Tuttavia la serie ha il merito di non affidarsi a un linguaggio didascalico, non ha alcun intento didattico. Mette anzi in guardia rispetto alle risposte spesso superficiali e ipocrite con cui il mondo degli adulti crede di far fronte a certi campanelli di allarme. Benché la serie sia stata accusata di non parlare nel modo giusto di bullismo e di suicidio, uno dei suoi punti di forza sta proprio nel non aver perso di vista il ruolo principale di una storia: intrattenere. Il fatto che faccia anche riflettere e il modo in cui lo fa non sono che ulteriori valori aggiunti.
  1. I personaggi. Non certo personaggi iconici. Ma in questo sta la loro forza. Sono ragazzi normali, fragili, banali. Come il male che compiono: c’è ben poco di epico nella loro violenza. Li conosciamo un po’ alla volta, spesso e volentieri le loro azioni non parlano per loro, perché si intravede un abisso tra i loro comportamenti e la loro intima intenzione. La scuola però è un palcoscenico e in quanto tale richiede che si reciti una parte per sopravvivere. Fino alle più drammatiche conseguenze. Di ogni ragazzo vediamo la complessità psicologica, ognuno di loro fa i conti con la sua storia personale. La varietà dei personaggi offre una vasta gamma di casistiche adolescenziali e permette ad altre tematiche importanti di emergere: l’omosessualità, i pregiudizi verso chi è diverso, la necessità di primeggiare, l’uso irresponsabile di alcool e droga, solo per elencarne alcune.
  1. È obbiettiva. Facile puntare il dito quando un branco uccide una vittima. Altro elemento interessante della serie è che invece le motivazioni di ciascun carnefice sono spiegate. Non giustificate ma rese reali e credibili. Esclusi alcuni casi, nessuno di loro è totalmente colpevole. Sono tutti più o meno vittime di un meccanismo perverso che li schiaccia e li inghiotte. Le accuse mosse da Hanna ai suoi compagni riconoscono la responsabilità tanto di chi ha compiuto gesti malvagi contro di lei, con maggiore o minore consapevolezza, quanto di chi si è comportato da ignavo e non intervenendo per modificare una situazione che avvertiva come sbagliata.
  1. È verosimile. È stato detto tutto e il contrario di tutto su questa serie, dall’opinione di esperti e psicologi che hanno redatto articoli e studi sull’effetto della sua visione da un pubblico di giovanissimi, all’intervento urlato e presuntuoso sui social di chi si sofferma sul dettaglio poco credibile e non guarda la sostanza. Le tematiche profondamente attuali della storia hanno fatto perdere di vista che la serie non mira a essere una ricostruzione documentaristica di un fatto di cronaca, si propone piuttosto di offrire uno sguardo sul mondo dei più giovani. Senza morale, senza didattica, senza libretto di istruzioni. Perché è questa la funzione di una storia: mostrare una realtà potenziale, in modo interessante. Non sono dunque gli elementi di fiction ad allontanare la storia di Hanna dalla realtà.
  1. È toccante. Le emozioni non si lasciano certo desiderare durante la visione: rabbia, sconcerto, pietà, empatia. Un mix di sensazioni accompagnano la visione della vicenda di Hanna e la frustrazione di Clay devastato dai sensi di colpa. La partecipazione emotiva è garantita, che si sia d’accordo o meno con le reazioni, a volte esagerate (chi non ha avuto reazioni esagerate a 16 anni!) della protagonista.

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  1. È  sincera. Chi ha puntualizzato i tanti (?) punti poco credibili della storia, ha perso di vista l’aspetto più importante di 13: la sincerità. Non è vero che i ragazzi più inclini a gesti estremi sono quelli più fragili, non è vero che i segnali sono sempre evidenti. Non è vero che sono i brutti, gli isolati e i fragili a essere sempre presi di mira. Non è vero che il modo di essere vittima di bullismo è sempre lo stesso. Non è vero che sono i genitori assenti ad essere colpevoli. Non è vero che chi si mostra capace di ascoltare, sappia poi agire. Questo è quello che troppo spesso non viene raccontato.
  1. È spietata. Nessun conforto morale o appiglio razionale è offerto allo spettatore. Vediamo la caduta nel suo lento e inesorabile percorso. Gli aguzzini infieriscono sulla vittima con torture fisiche e psicologiche che non lasciano alcuno spiraglio di pentimento. Nemmeno la scena del suicidio è in qualche modo edulcorata con il misticismo di una luce ovattata o con il conforto di una musica significativa. Si sente invece il dolore reale, la fatica, la disperazione di chi sa cosa sta facendo. Un colpo allo stomaco e al cuore.
  1. È efficace. Prodotta e distribuita da Netflix la serie è stata fin dal suo esordio, avvenuto nel marzo del 2017, al centro di una serie di pesanti controversie sul possibile effetto dannoso che la visione avrebbe provocato sui giovanissimi. In alcuni paesi come l’Australia e il Canada è stato ritenuto necessario l’intervento di esperti e psicologi che hanno redatto delle precise direttive su come proporre e discutere della serie con gli studenti delle scuole. In Nuova Zelanda la serie è stata addirittura vietata ai minori di 18 anni, concedendo la visione ai minorenni solo se accompagnati da un adulto. Una tale risonanza ha senza dubbio contribuito al successo del prodotto, come ha ammesso la stessa Selena Gomez, nel ruolo di giovanissima produttrice esecutiva della serie. Il fatto però che il mondo degli adulti si mobiliti in modo così massiccio di fronte alla dilagante fortuna di un fenomeno televisivo che parla di bullismo, violenza e suicidio è già un segnale importante. Come qualsiasi storia efficace, anche la tragica storia di Hanna trae la sua validità non solo dall’indice di interesse del pubblico ma soprattutto dalla capacità di suscitare riflessioni, confronti critici e dibattito sul tema centrale che affronta.

    13 Reasons Why si ispira a un romanzo dello scrittore Jay Asher, a cui cerca di restare il più possibile fedele. Senza dubbio la visualizzazione grafica di una storia dalle scene molto forti e che racconta l’effetto a catena prodotto dal suicidio di una adolescente ha un impatto emotivo che può risultare shockante, soprattutto sul pubblico più giovane. In definitiva però non si può negare il valore di una storia in cui la sconcertante semplicità di una voce adolescenziale racconta una parabola discendente fatta di abusi, soprusi, indifferenza, violenza fisica e psicologica. Una serie che vale la pena di essere vista anche solo per il merito di aver mostrato in modo agghiacciante e senza troppi giri di parole quanto un gesto spesso frettolosamente bollato come folle o insensato è invece l’esito disperato di un percorso preciso, innescato dal branco e spesso sotto gli occhi distratti di molti.

Dirk Gently vol. 1 – L’interconnessione della realtà, di Ryall, Askin e Kyriazis

La realtà è composta da fili, una trama fitta intessuta di fatti, eventi, storie, persone. Per alcuni decifrarla è questione di deduzione logica, per altri è analisi profonda di ogni minimo dettaglio, per l’investigatore olistico Dirk Gently è questione di olismo.
Per il personaggio inventato da Douglas Adams, padre del noto “Guida galattica per autostoppisti”, la realtà è un puzzle composto da pezzi che apparentemente non si incastrano tra loro, non combaciano per forma e colore, ma che solo il suo intuito folle riesce a far collimare. “Tutto è connesso”, è solito ripetere. È un personaggio stravagante quello che la penna di Adams ha creato sul finire degli anni ’80, un’anima eccentrica che si allinea con i lavori precedenti dello scrittore e porta avanti un mondo plasmato dallo humor e dalla apparente casualità dei fatti.

Forse non è nemmeno un caso che negli ultimi mesi Dirk Gently abbia respirato nuovamente, prima sullo schermo nella serie tv prodotta da BBC America, poi sulla carta, nei fumetti ad opera di Chris Ryall, Tony Ainkins, Ilias Kyriazis e pubblicati in Italia da Saldapress. La vena surreale e al contempo intelligente che lo scrittore inglese aveva insufflato nel suo personaggio non è dunque svanita con la prematura morte del suo creatore, nel 2001, ma ha trovato nuovi spazi di esplorazione, in cui la connessione tra più generi letterari trova compimento.
Dirk Gently, infatti, non è un investigatore olistico solo perché capace di suturare alla perfezione parti apparentemente incompatibili della realtà, ma anche in quanto appartenente ad uno spazio letterario che coniuga il genere fantasy al giallo e alla fantascienza. E con la stessa acutezza sia Douglas Adams sia la sua creatura riescono a smontare i luoghi comuni di queste tre categorie e a renderle qualcosa di nuovo attraverso una vivacità e uno humor sui generis.

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Una riprova è anche la prima avventura a fumetti “Dirk Gently, agenzia di investigazione olistica vol.1: l’interconnessione della realtà”, in cui l’investigatore inglese lascia il suo habitat europeo per trasferirsi al di là dell’oceano, dove è costretto a contrapporre la sua mentalità British alla forma mentis dei suoi assistenti, molto americani. Un contrasto che sarebbe stato caro anche all’autore originale.
Atterrato a San Diego quasi per caso, Dirk Gently si appropria per sbaglio di un borsone appartenente a una coppia di serial killer, per poi trovare i propri assistenti, o meglio soci, nella stravagante tea shop di ispirazione investigativa “Ficcanaso e foglie di tè”. Questi primi ingredienti, però, sono solo una minima parte di ciò che la ricetta olistica prevede, e nel grande calderone finiranno anche una maledizione egizia, misteriosi cellulari dorati, bizzarri personaggi.

I disegni, ad opera di Tony Ainkins e Ilias Kiryazis, supportano bene la struttura narrativa, con colori vivaci e tratti che ben delineano personaggi ed espressioni, senza un eccesso -o un difetto- di particolari, ma con una lieve sfumatura caricaturale utile a sottolineare la vena umoristica dell’intero progetto. La storia scorre rapidamente, il ritmo è buono e la trama in linea con ciò che ci si potrebbe aspettare dal personaggio nato dalla penna di Adams.
Per chi avesse visto anche la serie Netflix con protagonisti Samuel Barnett ed Elijah Wood, sappia che il producer della serie TV, Arvid Ethan David, ha supervisionato anche il fumetto. Anche questo fa parte del motto di Gently “tutto è connesso”?

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Titolo: Dirk Gently vol. 1
Sottotitolo: L’interconnessione della realtà
Autore: Chris Ryall, Tony Askins, Ilias Kyriazis
Collana: Fuori Collana
ISBN: 9788869192340