Teatro della Cometa

Nessun luogo è lontano, di Giampiero Rappa

Nessun luogo è lontano, opera scritta e diretta da Giampiero Rappa, sarà in scena presso il Teatro della Cometa dal 23 novembre all’11 dicembre. L’opera vede tra i suoi interpreti, oltre lo stesso Giampiero Rappa,  Alice Ferranti e Giuseppe Tantillo, due giovani attori dal grande talento ed esperienza, nonostante la giovane età.

L’opera racconta di Mario Capaldini(Giampiero Rappa), ex scrittore di successo, che, dopo aver rifiutato un importante premio letterario, si è rifugiato in una baita, isolata dal resto del mondo. Qui, nel suo isolamento, lo scrittore viene raggiunto prima da una  giornalista (Alice Ferranti) e più avanti da Ronny (Giuseppe Tantillo), l’irruente nipote. Le intrusioni si riveleranno per lui e per i suoi “invasori” un momento di autoanalisi.

Un’opera che racconta di guerra, della continua guerra quotidiana a cui tutti noi siamo costretti, e a cui cerchiamo di sopravvivere nei modi più disparati, dall’isolamento, alla negazione, dall’ironia, alla rabbia. Arrivando anche a usare sostanze che possono portarci ad un evasione. Un tema, la guerra, che viene dichiarato più volte, come la professione della giornalista, che è inviata di guerra, all’accostamento della baita come Bunker dove rifugiarsi. Un rifugio fisico, che può contare su un efficace scenografia, ma anche mentale. In cui anche i contatti surrogati con il mondo, come tv e computer sono esclusi, e l’unica fonte d’informazione è una radio.

 

Nessun-luogo-è-lontano-ph.-Manuela-Giusto

Ma si farebbe un torto a riconoscere solo questo aspetto di serietà ed analisi a Nessun luogo è lontano. Nello spettacolo c’è anche una forte presenza di ironia, e di battute divertenti, che diventa dirompente nel momento dell’arrivo del nipote. C’è infatti una grande gestione dei tempi comici e pause riflessive da parte dei due attori, Tantillo e Rappa. Una perfetta “strana coppia” che riesce a dare la giusta interpretazione a delle buone battute,  che spesso fanno riflettere più delle parti più “serie” del testo, per l’intelligenza e la cura con cui sono scritte.

Vita, morte e Miracoli, di Lorenzo Gioielli

È una scatola chiusa la camera d’ospedale in cui i quattro protagonisti dello spettacolo “Vita, morte e miracoli”, in scena al Teatro della Cometa, si ritrovano per un’ora e un quarto. Il mondo non entra attraverso la porta grigia, se ne rimane discreto fuori a guardare insieme agli spettatori, ma ogni personaggio se lo trascina dietro, lo nasconde dentro di sé, lo spia di sottecchi. Ognuno dei protagonisti è un frammento di realtà, una sfumatura dell’essere umano, una scheggia di vita che sfugge al passato e tende al futuro incerto.

E così Marco, per sottrarsi al dolore della vista del proprio fidanzato in coma, lancia frecciate sarcastiche e affilate a Dario, cognato rigoroso e buono, mentre sua sorella Ilaria, dall’anima inquieta, si destreggia tra segreti passati e vita quotidiana di donna e madre. È arte circense la commedia scritta da Lorenzo Gioielli e diretta da Riccardo Scarafoni, è il salto carpiato che tutti compiamo per tuffarci nella felicità evitando il dolore, è l’acrobazia di camminare su un piede solo quando costeggiamo l’abisso. Ma è anche consapevolezza e forza quando ci lanciamo nel vuoto sapendo che non c’è rete che possa attutire la caduta.

C’è poco tempo prima di rovinare a terra, ma nello spazio vuoto tra l’apice e il suolo si parla dell’amore, della vita, della morte, del sesso, della fede e dell’ateismo, dell’essere umani in quanto tali. Ed è proprio Emanuele, ragazzo in coma, a suscitare nei suoi cari i pensieri più profondi, i dialoghi più toccanti, a far partorire verità inconfessabili. Via via che lo spettacolo si inoltra lungo i quattro sentieri solcati dai protagonisti, le battute comiche si rarefanno come l’ossigeno in alta quota, fino a quando il finale strozza il respiro e fa serrare le labbra. Lo sfarfallio di una luce segna la fine della pièce, la fine di un’attesa ma, forse, sancisce anche l’esistenza dei miracoli.

Sul palco del Teatro della Cometa fino al 31 gennaio con “Vita, morte e miracoli” Veruska Rossi, Fabrizio Sabatucci, Riccardo Scarafoni e Francesco Venditti.

Vicini di stalla, di Ninni Bruschetta

La favola napoletana “Vicini di Stalla”, per la regia di Ninni Bruschetta, è approdata al Teatro della Cometa di Roma, e rimarrà sul palco fino al 10 gennaio, portando via con sé risate e festività. Scritta da Antonio Grosso e Francesco Stella, la commedia narra le vicende dei pastori partenopei Corallo (Grosso) e di suo zio Armonio (Ciro Scalera) che, fuggiti dalla propria patria, si rifugiano in una stalla di Betlemme portandosi dietro solo poche cose e la fedele asinella Rosaria. La sistemazione costa ben più di quanto offra ma soprattutto è di proprietà di un rabbino del luogo, Arcadio (Antonello Pascale), dalla parlata forbita, dai modi impeccabili e dall’anima oscura. Come vicina di casa, inoltre, zio e nipote si ritrovano Sara (Federica Carruba Toscano), prostituta e speziale romana dall’accento siciliano, dai modi sfrontati e dal passato difficile.

Le vicende personali dei due pastori, schiacciate da un fardello pesante, si intrecciano così con quelle di vicini rumorosi e invadenti, impegnandole inevitabilmente in battute e gag veloci. L’arrivo di una coppia di sposi in cerca di una sistemazione per l’imminente parto, darà una svolta inaspettata alla vicenda. I due pastori, infatti, che cercano di fuggire dal proprio passato con il profilo basso per iniziare una nuova vita a testa alta, si trovano ad essere il cardine di una storia più grande di loro e dal retrobottega dell’umanità in cui sono relegati, usciranno rinnovati. “Vicini di stalla” regala un punto di vista nuovo sulla natività, uno sguardo umano, affatto illuminato, composto di sentimenti bassi e pulsioni terrene, che però riesce a evolversi, a trovare un sentiero nella selva oscura della storia personale dei protagonisti.

L’umanità che popola le stalle di Betlemme è un’umanità abbrutita, misera ma realistica, inadatta a compiere atti straordinari, non in grado di riconoscere la santità del Messia, ma capace, alla fine, di essere toccata dalla luce, di abbandonare, anche solo per un istante, le bassezze e le ipocrisie per elevarsi quel tanto che basta per divenire parte di un disegno più grande. Il finale non rende i due pastori eroi, non li rende nemmeno consapevoli dell’atto di misericordia compiuto, ma li riscatta, determinando per loro una nuova umanità. Nonostante l’uso del turpiloquio, la commedia non sfocia mai nell’irriverenza, scivolando via leggera, appesa alla parlata napoletana che le dà verve e velocità, affiancata da un palpabile affiatamento degli attori. Lo spettatore ride e riflette, imparando che sono i piccoli, gli ultimi, le controfigure a fare la storia.