Festa del Cinema di Roma

I predatori, di Pietro Castellitto

Il caso più felice del cinema italiano in questo oscuro periodo di pandemie, lockdown, zone gialle, rosse o arancioni fa capo all’esordio d’un figlio d’arte che già si era fatto notare vivacemente nel bistrattato La profezia dell’Armadillo. Lo ha scritto a 22 anni il suo film Pietro Castellitto, uscito al cinema soltanto poco prima della nuova chiusura: I predatori.  A 28 invece lo ha diretto e interpretato quest’autore sorprendente, lasciandosi attorniare da un cast generoso e grandi performance. Lungimiranza anche in tante scelte fatte. Come quella per Giorgio Montanini, stand-up comedian prestato al grande schermo nei panni di un borghesotto fascista. Caratterizzazione di grosso calibro la sua. Affiancato da un’altra bella faccia da commedia, Claudio Camilli, ne combina di tutti i colori in una vicenda tragicomica che mette alla berlina la grande bruttezza di una Roma in picchiata come certi racconti di Ammaniti. Che pullula di personaggi viscidi come quelli di Corsicato, o furbetti come quelli immortalati da Dino Risi.

Pur con qualche imperfezione giusto in esecuzione sul lato tecnico, fotografia e certi movimenti di macchina lasciano un po’ a desiderare (altrimenti avremmo un capolavoro), Castellitto si rivela un asso nella direzione d’attori. Lo puntella con ritmi schiaffeggianti nel montaggio e tra qualche lustro il suo sarà uno dei film che racconteranno meglio il nostro oggi ai posteri. La grande scrittura, invece, gli è stata già riconosciuta grazie al Premio Orizzonti per la migliore sceneggiatura a Venezia. Così il pastiche che monta come maionese ci fa ridere delle disgrazie antropologiche del nostro paese impazzito, riscoprendoci addosso quella sottile e amara ferocia, tipico tratto dell’ethos italiano.

La storia in realtà ruota vorticosamente come un otto intorno agli interessi di due famiglie borghesi, una radical chic, l’altra pesantemente destrorsa. Massimo Popolizio e Manuela Mandracchia interpretano marito chirurgo e moglie regista stretti in una morsa d’insoddisfazioni e infedeltà che in questa coralità narrativa fanno da capo estremo al diavolo tentatore di “poveracci” tutto sorriso Vinicio Marchioni, oscuro faccendiere che il regista utilizza come sipario umano per il film. Castellitto ha una visione maledettamente lucida nella sua architettura narrativa a ritmo crescente. In quanto a lui, il suo personaggio ritrae l’assistente sottomesso e contrariato di un docente universitario scaltro e sfruttatore col muso esperto di Nando Paone. Ogni singolo character è predatore del prossimo suo. Ognun per sé stesso, sembra sussurrarci l’autore. Nessun innocente, e nessuno si salverà. Neanche gli spettatori, ma da un divertimento dissacrante e acuminato. È passato anche alla Festa del Cinema di Roma I predatori, come proiezione speciale nella sezione indipendente Alice nella Città, e qualcosa ci suggerisce che il suo cammino tra i festival non sarà breve. Intanto lo aspettiamo fiduciosi al varco dei David 2021.

The Party, di Sally Potter

The Party è una commedia che non fa ridere, senza che questo la sminuisca in alcun modo. Scritta nel corso degli ultimi anni da Sally Potter, che ne firma anche la regia, The Party è il prodotto di una lunga riflessione sulla politica e sulle relazioni sociali messa su schermo dell’autrice britannica, nota per il suo gusto sofisticato e lontano dal circuito mainstream. Artista originale e completa, Sally Potter aggiunge un nuovo, gustoso capitolo alla sua carriera puntando sulla commedia brillante e su un british/black humor sottile e di classe, che rende omaggio ai classici del genere – Saturday Night and Sunday Morning e This Sporting Life, per citarne un paio – di cui riprende anche l’estetica in bianco e nero.

Il film si svolge nell’appartamento di Janet (Kristin Scott Thomas), Ministro ombra della Sanità del governo inglese, la cui nomina è stata appena ufficializzata. Tra una chiamata di congratulazioni e un messaggio ammiccante all’amante, – mentre il marito Bill (Timothy Spall) siede assorto sulla poltrona della stanza accanto – la signora è indaffarata nell’organizzazione di un ricevimento per gli amici più stretti. L’apparente clima di festa precipita dopo poco in una tragedia annunciata, in cui il silenzioso Bill sconvolge gli invitati con due dichiarazioni esplosive. Verbosa e conflittuale, la platea è composta dalla cinica April (Patricia Clarkson), da suo marito Gottfried (Bruno Ganz), dalla professoressa di studi di genere Martha (Cherry Jones), dalla sua compagna incinta Jinny (Emily Mortimer) e, infine, dal giovane banchiere Tom (Cillian Murphy).


Ognuno dei personaggi incarna in qualche modo uno stereotipo della borghesia intellettuale e di sinistra, figlia delle marce e dei dibattiti universitari degli anni Settanta, di cui la regista si fa spia e denuncia nevrosi e ipocrisie. Nonostante i diktat di parità, opportunità e di confronto democratico, davanti ai temi più profondi e drammatici dell’esistenza le maschere non tardano a cadere, accedendendo gli animi e il linguaggio; la doppia vita dei personaggi pubblici e i tradimenti che si consumano all’interno delle “esemplari coppie progressiste” sono svelati da uno sguardo disincantato. Sally Potter punta – così – i riflettori sull’irrimediabile corruzione dell’essere umano, che neanche le ideologie sono in grado di salvare.

Questo giudizio così perentorio è edulcorato da un’innegabile simpatia che i personaggi – tutti a loro modo – hanno. In particolare, chi non appartiene a questa storia sessantottina ha dalla sua un dolcissimo senso di inadeguatezza che risolve in una costante richiesta di attenzioni – come nel caso di Jinny – o nel vivere in un mondo del tutto parallelo, come Gottfried, lo stralunato life coach interpretato da Bruno Ganz.


Il racconto di Sally Potter si rifà a topoi narrativi piuttosto consolidati: nella scelta, ad esempio, di non mostrare mai quello che è il personaggio-chiave della storia, la regista riprende quella poetica dell’assenza propria di tanti grandi autori (tra tutti, l’iraniano Asghar Farhadi). Analogamente già visto in tanti bei film l’espediente della ripresa in tempo reale e in un unico luogo, scelta dal sapore teatrale in grado di concentrare la narrazione in una sequenza dal ritmo incalzante, in cui lo spettatore non può perdersi neanche un passaggio o una parola per godere della progressiva preparazione del finale (in questo caso, a dire il vero, abbastanza intuibile).

The Party è un film che ben si integra nella felice stagione cinematografica che stiamo vivendo, una visione piacevole per chi vuole concedersi una risata a denti stretti in un clima crudele e ricercato, reso da una regia interessante e da un’escalation interpretativa di rara eleganza.

RomaFF11 – Sing Street, di John Carney

Il rock and roll è sempre un rischio. Si rischia di cadere nel ridicolo o di creare qualcosa di straordinario, ma il limite è sottilissimo e basta una mossa falsa per fallire. Conor però ha deciso di rischiare e insieme ai suoi amici mette su una band che si ispira ai Duran Duran per scuotere dal torpore una Dublino addormentata e per conquistare il cuore di Raphina, una ragazza più grande, che proprio come lui vive una situazione familiare difficile ed è decisa a rischiare il tutto per tutto per scappare a Londra e realizzare i suoi sogni. La loro vita è come quella di tanti adolescenti, torturati dai bulli della scuola, oppressi da una famiglia al limite della follia, e intrappolati in un sistema che li vuole omologati gli uni agli altri, ma Conor è i suoi amici hanno un’arma in più per farsi strada nel mondo: il rock.

I Duran Duran, gli A-ha, i Motörhead, i The Cure e i The Clash sono la colonna sonora della loro vita, la luce che spacca le ombre di una città conservatrice da cui tutti non vedono l’ora di fuggire, detta la tendenze e spinge gli animi più coraggiosi a distruggere lo status quo per costruire qualcosa di nuovo, di visionario o “futurista” come dice Conor. Ed è proprio grazie al rock che questo gruppo di ragazzi illuminati costruisce la sua identità musicale e personale, iniziando con imitare i personaggi più eccentrici del panorama musicale anni ’80 per poi creare un proprio stile, che riunisce sotto la maestosa ala del rock and roll tutte la musica che li ha accompagnati nel faticoso passaggio dall’infanzia all’età adulta.

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La musica può cambiare il destino di chi la incontra, segnare la strada da seguire, risvegliare sentimenti profondi e soprattutto chiamare all’azione contro il torpore della rassegnazione, e questo è vero non solo per i personaggi  di Sing Street, ma per tutti quelli amorevolmente plasmati da John Carney, dall’indimenticabile Once al più recente Begin Again. Nella vita di ognuno di loro la musica è immancabile, e non solo come contrappunto dell’azione, ma come motore dell’azione stessa, come Deus ex machina che presiede al destino dei personaggi dall’alto della sua essenza impalpabile eppure allo stesso tempo magica.

Ancora una volta il regista irlandese crea un piccolo capolavoro, in cui la passione per l’umanità vince sui mezzi imponenti del cinema hollywoodiano, e la straordinaria abilità con cui riesce a mettere in scena la vita e l’amore attraverso la lente sottile della musica colpisce il cuore come pochi altri film riescono a fare. Forse la sua dote migliore è proprio quella di saper rappresentare come nessuno la realtà “happy-sad” a cui nessuno può sottrarsi, che oscilla costantemente tra felicità a tristezza, ma che ciò nonostante non si scoraggia e cerca di cambiare il proprio destino attraverso le note ispiratrici della sua canzone preferita.

 

Festa del Cinema di Roma 2015 – The confessions of Thomas Quick, di Brian Hill

Montando immagini di repertorio, improbabili ricostruzioni con attori, interviste ai veri protagonisti, accuse agli assenti senza possibilità di contraddittorio, il film racconta le vicende che hanno reso quello dello svedese Sture Bergwall uno dei casi più assurdi e controversi degli ultimi anni.
In concorso alla decima edizione della Festa del cinema di Roma, la ricostruzione della vita di Bergwall punta a ricercare tra gli elementi biografici le risposte allo squilibrio mentale che lo hanno portato a diventare Thomas Quick, il serial killer più famoso di Svezia.

Uno stile più televisivo che cinematografico guida lo spettatore in un’odissea giornalistica che lo porta a conoscere i fatti direttamente dal Bergwall odierno, che dialoga con una voce calma ai limiti del disumano, partendo dalle macabre confessioni in un istituto psichiatrico di massima sicurezza fino alle smentite che innescano il caso giudiziario e spengono quel poco di tensione che la ricostruzione storica aveva creato fino a metà film.
Si tratta di un furbo Keyser Söze o di uno psicopatico che si finge un mostro da prima pagina per un bisogno di attenzione? Oppure si tratta della vittima di una forzatura psicanalitica operata da un team di psichiatri che, seppur involontariamente, costruisce un carnefice per avere un capro espiatorio per i crimini violenti che in quegli anni avevano sconvolto l’opinione pubblica?

È chiaro, nonostante la carenza di fluidità narrativa, che questo progetto cinematografico voglia spingere a riflettere sulla linea di demarcazione che separa la verità putativa dall’oggettività dei fatti e che, in questo caso, diventa un baratro che non può che essere incolmabile: il tempo perduto sulle tracce di un fantomatico Thomas Quick ha fatto cadere in prescrizione più di 39 omicidi lasciando dei veri ed efferati serial killer in libertà, ma soprattutto ha chiuso e riaperto le ferite dei familiari delle vittime, cosa che il regista decide colpevolmente di tenere a margine.
Dopo 23 anni di detenzione, Bergwall può andare in giro tra ameni paesaggi di montagna, commosso, prosciolto dalle accuse, forse senza capire davvero la propria responsabilità e senza provare alcun senso di colpa. Una storia raccapricciante, da qualsiasi prospettiva la si osservi.