Gus Van Sant

Berlinale 68 – Gus Van Sant e Joaquin Phoenix per Don’t Worry, He Won’t Get Far on Foot

Don’t Worry, He Won’t Get Far On Foot, il biopic ispirato a John Callahan, il vignettista satirico americano, rimasto paralizzato all’età di 21 anni in seguito a un incidente d’auto, è stato presentato al Festival del Cinema di Berlino dal regista Gus Van Sant e dall’attore protagonista Joaquin Phoenix. Il film si concentra sulla vita dell’artista dopo l’incidente, sul lungo percorso di disintossicazione dall’alcol e sulla forte influenza che l’arte ha avuto nel suo ritorno alla vita.


“Quando negli anni ’90 mi è stato chiesto di lavorare a un film su Callahan, questo personaggio mi era già molto familiare – ha detto Van Sant – e conoscevo bene le sue vignette. Lo spunto per il film è nato dall’omonimo libro di Callahan, anche se naturalmente alcuni eventi sono frutto di fantasia e funzionali alla narrazione cinematografica, così come ha fatto lui stesso nel suo libro. Ma credo che la parte più interessante di questo progetto sia il fatto che ci siamo concentrati sulla riabilitazione fisica e su quella dall’alcol, come se la sua vera disabilità fosse il bere. John era un artista anche prima della paralisi, ma una volta aver raggiunta la consapevolezza che la sua vita fosse cambiata a causa dell’alcol, ha trasformato la disabilità in arte “. E come ha ribadito lo stesso Phoenix: “Le persone reagiscono diversamente agli incidenti, e nella reazione di Callahan sta la sua forza”.

Le strisce satiriche hanno un ruolo fondamentale nel ritmo del film, ne scandiscono i tempi e restituiscono un’immagine vivida dell’autore. Ma con quale criterio sono state scelte le vignette da mostrare nel film? “Ho scelto i fumetti che mi piacevano, ha chiarito Van Sant. Alcuni sono stati pubblicati sul libro su cui abbiamo lavorato. Certo, a volte alcune vignette sembrano offensive, ma non lo sono. Più che approfondire la psicologia dei fumetti, abbiamo scelto le vignette che ritenevamo più divertenti, a prescindere dall’essere più o meno politicamente scorrette. Dopo tutto l’arte stessa di Callahan segue questa strada, e lui stesso tira in ballo nei suoi lavori la disabilità e l’alcolismo”.

La foresta dei sogni, di Gus Van Sant

“La tua vita è un dono prezioso dei tuoi genitori. Pensa a loro e al resto della tua famiglia. Non devi soffrire da solo”. Queste parole aprono il cammino verso Aokigahara, la foresta che si estende alle pendici del Monte Fuji, conosciuta in tutto il mondo per essere la tomba di oltre cento anime ogni anno. Aokigahara è il luogo perfetto per morire, un mare d’alberi talmente fitto da impedire alla luce di toccare il suolo, e allontanare qualunque forma di vita eccetto gli uomini che non sopportano più di vivere. I rami si intrecciano fitti per cullare gli ultimi respiri di chi ha deciso di morire e intrappolare l’anima di chi si è avventurato in questo luogo oscuro per riflettere sulla propria esistenza contemplando i corpi morti che costellano il cammino. Molti sono entrati nel mare d’alberi, ma solo pochi sono tornati indietro per raccontarlo, perché questa foresta inghiotte tutto ciò che tocca, confonde la percezione e traghetta dritto nell’aldilà.

Ma cosa può spingere un uomo a viaggiare fino all’altro capo del mondo solo per morire, quando ci si potrebbe togliere la vita in pochi minuti nell’intimità della propria casa? È evidente che Aokigahara sia molto più che il luogo perfetto per morire, bensì un percorso catartico di riflessione sulla vita e sulla morte, su ciò che si lascia indietro e non si ha più il coraggio di abbracciare. Arthur Brennan (Matthew McConaughey) è uno dei tanti che ha scelto di volare verso il mare d’alberi più oscuro del pianeta per non farvi mai più ritorno. Devastato dalla perdita dell’amore, oppresso dal peso della sofferenza e dei rimpianti, parte per Aokigahara senza bagagli al seguito, solo con una lettera e una scatola di pillole in tasca. Si addentra nel bosco, sceglie con cura il luogo perfetto per mettere fine alla sua vita e si ferma, ma proprio in quell’istante incontra un’altra anima tormentata e tutto cambia. È Takumi Nakamura (Ken Watanabe), un impiegato giapponese amareggiato per la perdita del suo lavoro, che dopo aver tentato di tagliarsi i polsi ha deciso di continuare a vivere ed ora cerca disperatamente di uscire da quella foresta maledetta. Arthur dimentica per un attimo il suo oscuro proposito e si propone di aiutare Takumi a trovare una via d’uscita. Si addentrano insieme nel cuore della foresta, camminano, parlano a lungo e si rispecchiano l’uno nell’anima dell’altro, nell’attesa di rivedere il sole oltre l’oscurità.

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Nessuno sa chi sia Takumi, se un uomo in carne ed ossa, uno spirito smarrito, o la coscienza stessa di Arthur ma questo incontro provvidenziale trasforma un viaggio della morte in un viaggio introspettivo, che contempla la morte senza mai abbracciarla. E ancora una volta Gus Van Sant si immerge nella vita dopo la vita, sfiorando il macabro e lasciando la violenza nell’ombra, per concentrarsi sui sentimenti che genera la morte, senza mostrarla mai davvero.

E con questo frammento di poesia Van Sant aggiunge un altro pezzo al suo mosaico cinematografico ispirato all’oscura signora, inaugurato dalla “trilogia della morte” con Gerry, Elephant e Last Days, e completato dall’angosciante Paranoid Park e dal disperato L’amore che resta. Ogni faccia della morte è stata smembrata e analizzata dal regista statunitense, quella violenta, quella arrendevole, e quella autodistruttiva, ma ora Van Sant guarda la morte da una dimensione altra, trascendente, e riflette sulla scelta di mettere fine alla vita nell’unico luogo al mondo che sembra creato apposta per questo. Ogni passo verso il cuore della foresta è un passo verso l’essenza della più pura della poesia.