Roma FF13

Roma FF13 – The Miseducation of Cameron Post, di Desiree Akhavan

Ci sono comunità negli Stati Uniti che praticano terapie di rieducazione per omosessuali, che mirano a riconvertire all’eterosessualità con metodi come la preghiera collettiva e il counseling pastorale e, nei casi più estremi, con l’elettroshock, la suggestione ipnotica o l’iniezione di farmaci inducenti nausea o vomito in associazione a stimoli omo-erotici. Queste terapie “riparative”, particolarmente gradite alle frange più conservatrici delle diverse fedi religiose, sono praticate ogni anno su centinaia di migliaia di omosessuali, anche minorenni, provocando traumi fisici e psicologici irreparabili. Da questa terribile statistica nasce il romanzo di culto di Emily M. Danforth The Miseducation of Cameron Post, da cui la regista newyorkese di origini iraniane Desiree Akhavan ha tratto l’omonimo film, vincitore dell’ultimo Sundance Film Festival e film manifesto del clima di intolleranza che si respira in tutto il mondo.

La vicenda è ambientata nel 1993 in una cittadina del Montana, apparentemente simile a qualunque altra del paese, in cui la vita scorre senza scosse e assecondando tutti i cliché del caso. Liceo, università, matrimonio e figli. Queste sono le tappe fondamentali che deve raggiungere una ragazza che si rispetti e, in questo cammino verso il riconoscimento sociale, il ballo della scuola è un punto di svolta imprescindibile. E Cameron Post, come tutte le sue compagne di classe, è pronta a partecipare all’evento dell’anno con vestito di raso e bouquet di fiori al seguito. Cameron sfoggia un sorriso e un trucco impeccabile, ma sotto la maschera di felicità nasconde un segreto. Il suo cuore infatti non batte per il ragazzo più bello della scuola, ma per la sua migliore amica e, quando viene scoperta a baciarla in una macchina parcheggiata nel cortile della scuola, Cameron viene spedita nel centro religioso God’s Promise.

Questo rifugio di peccatori non è altro che un centro di riabilitazione per giovani dalla sessualità confusa, che promette di guarire dall’omosessualità con una speciale terapia di riconversione, naturalmente a prezzo di dollari sonanti. La disciplina e i metodi del centro sono però alquanto dubbi e Cameron si rende immediatamente conto dei gravi danni psicologici che i gestori del centro infliggono agli altri ragazzi. Allo stesso tempo però riesce a creare un piccolo gruppo di outsider che, come lei, non credono nella terapia e non vedono l’ora di ribellarsi, per riaffermare con orgoglio la propria identità.

“To pray away the gay” è lo slogan delle comunità riabilitative disseminate per gli States. Un messaggio oscurantista e intollerante che stride con l’epoca apparentemente progressista in cui ci troviamo. Eppure tutto questo è reale, e fa male. Per questo è necessario rendere noto a quante più persone possibile quello che avviene in questi luoghi, e Desiree Akhavan in questo senso porta a termine la missione nel miglior modo possibile. Attraverso una messa in scena accattivante, racconta la sua storia senza ricadere nella colpevolizzazione di certe istituzioni o in facili patetismi, lasciando la parola unicamente ai suoi personaggi. Eterogenei, vivaci, e tratteggiati con cura, danno voce ai loro coetanei oppressi dall’ignoranza, azzerati nella loro individualità da chi non è in grado di riconoscerne il valore e nonostante tutto abbastanza forti da reagire. Proprio come loro, la Akhavan riesce a trovare l’ironia anche nelle situazioni più drammatiche, e la sua forza nell’armonia dei contrasti più che nell’omologazione, ribadendo in ogni scena la necessità di restare fedeli a sé stessi nella propria unicità.

Roma FF13 – Incontro con Viggo Mortensen per Green Book

Senza dubbio la più grande sorpresa della 13′ edizione della Festa del Cinema di Roma è stato Green Book di Peter Farrelly, il film che racconta l’amicizia tra un buttafuori italoamericano e un pianista afroamericano nell’America negli anni sessanta. Il film, ispirato alla storia vera di Tony Lip, è stato scritto da suo figlio Nick Vallelonga e ha come protagonisti Viggo Mortensen e Mahershala Ali.

Viggo Mortensen ha presentato il film alla stampa, raccontando il suo rapporto con la famiglia Vallelonga e il lungo percorso che ha seguito per prepararsi a impersonare Tony Vallelonga. “Dalla prima volta in cui ho letto la sceneggiatura – ha detto Mortensen – ho pensato che fosse uno di quei film più completi e meglio scritti che avessi mai avuto tra le mani. Questa storia vera, basata su una grande e inaspettata amicizia, mi ha fatto ridere e piangere al tempo stesso. Per questo volevo essere Tony Vallelonga senza diventare una caricatura, volevo assumerne invece il suo punto di vista, essere fedele al suo spirito, e per questo ho avuto un grande aiuto dalla famiglia Vallelonga. Loro mi hanno accolto, abbiamo passato molto tempo insieme e sono stati di grande ispirazione. Naturalmente abbiamo mangiato tanto, fino a stare male, ma ci siamo divertiti un sacco e ci sono stati anche momenti molto commuoventi”.

Green Book è ambientato negli anni Cinquanta, ma i temi che tocca sono quanto mai attuali e Viggo Mortensen ha messo in luce proprio la sua universalità e il suo spirito senza tempo. “Questo film è speciale perché non ti dice cosa vedere o pensare. È un invito a fare un viaggio e a riflettere sui limiti delle prime impressioni. Le storie come questa sono sempre importanti, e in ogni epoca c’è sempre la necessità e utilità di storie che ci aiutano a diventare meno ignoranti e ad accogliere chi è diverso. L’umanesimo non è un cammino diritto, e spesso ha delle battute d’arresto. Si spera che sia un cammino sempre teso al progresso, ma purtroppo si fanno anche dei passi indietro. Questo momento storico è un esempio lampante. In tutto il mondo si assiste a una crescente crisi dei rifugiati e dell’immigrazione, razzismo, misoginia, ignoranza su razze e religioni. E i leader, che in teoria dovrebbero saperne più degli altri visto che ricoprono ruoli di responsabilità, sono un esempio di grande ignoranza. Per questo Green Book arriva come un invito alla riflessione, e alla consapevolezza che i piccoli gesti possono essere anche più importanti di grandi teorie. E sono questi momenti apparentemente insignificanti a rendere la società quello che è. Per questo vale sempre la pena lottare contro le ingiustizie, anche quando le circostanze sembrano disperate e sembra che nulla debba mai cambiare”.

Roma FF13 – Incontro con Sigourney Weaver

“Volevo recitare Shakespeare a teatro, invece mi sono trovata a fare Alien”. Con questa frase l’attrice americana Sigourney Weaver, a quasi settant’anni, descrive la sua carriera alla Festa del Cinema di Roma. “Da giovane volevo fare teatro è vero, ma al tempo stesso ho sempre amato spaziare tra i generi. La fantascienza è un genere molto sofisticato, che pone grandi domande esistenziali, su dove stiamo andando, sull’universo, ed è una parte importante della nostra cultura. In America la fantascienza occupa un posto molto importante nella letteratura, e mi dispiace che molto spesso nell’industria cinematografica sia considerato un genere di serie b, solo pieno di effetti speciali, perché a mio parere merita più attenzione ed è molto più profondo di quanto non sembri. All’inizio della mia carriera non avrei mai immaginato che un giorno avrei fatto fantascienza, ma è così che ho trovato il mio posto nell’industria e per questo devo ringraziare grandi registi come Ridley Scott, a James Cameron”.

Grazie a pellicole come Alien, Ghostbusters e poi Avatar, Sigourney Weaver è diventata una vera e propria icona della fantascienza, ma ha anche regalato grandi interpretazioni in generi diversi come per esempio in Gorilla nella nebbia di Michael Apted. “Ho lavorato con registi meravigliosi. Cameron ha intuito in modo sottile come potevo lavorare e mi ha messa alla prova, in Tempesta di ghiaccio io e Ang Lee ci siamo capiti senza neanche dover parlare, e Ridley Scott usava molto l’improvvisazione. È stata una grossa sfida lavorare con lui perché venivo dal teatro. All’inizio ero spaventata perché non ogni scena non sapevo mai cosa sarebbe capitato, ma poi mi sono resa conto che stavamo facendo un film molto innovativo e sicuramente ben riuscito. Gorilla nella nebbia è stata un’esperienza diversa ma altrettanto appagante. Ho lavorato in Africa con una troupe internazionale, sono stata a stretto contatto con i gorilla ogni giorno ed è stato fantastico. Vi incoraggio ad andare lì e a vivere un’esperienza simile, vi renderete conto che sono animali molto simili a noi”.

In tutti i ruoli che ha ricoperto, Sigourney Weaver ha sempre interpretato donne forti, indipendenti, l’esatto opposto dello stereotipo della fidanzata americana. Perché? “Non sono mai stata stereotipata in una fidanzata, forse perché non ho il fisico adatto, sono troppo alta e non sono bionda con gli occhi chiari. Evidentemente con l’aspetto che ho non posso incarnare quell’ideale. Eppure, anche se amo le storie d’amore, sono orgogliosa di tutti i film a cui ho preso parte, ognuno con le sue peculiarità e ogni giorno quando vado a lavoro mi sento felice”.

Roma FF13 – Il vizio della speranza, di Edoardo De Angelis

Castel Volturno, nell’organismo della nazione, è un organo secondario, è la milza d’Italia, dice Edoardo De Angelis presentando il suo film. È un organo secondario, che si può asportare e sopravvivere lo stesso, ma allo stesso tempo utile a mantenere l’equilibrio del sistema corporeo. Così è Castel Volturno, rifugio di peccatori, di donne e uomini in fuga da fame, guerre o semplicemente da sé stessi. Un luogo altro, dove venticinquemila abitanti regolari e altrettanti irregolari convivono sull’orlo del conflitto scambiandosi soldi, cose, droga, sesso, figli, qualche tenero abbraccio e antiche malattie. E proprio qui Edoardo De Angelis ambienta Il vizio della speranza, una storia dai contorni indefiniti, sospesa nello spazio e nel tempo, proprio come il luogo in cui si svolge.

Lungo il fiume, tra baracche e cumuli di immondizia, si aggira Maria, con il cappuccio alto sulla testa e il pitbull al guinzaglio. Arranca tra i rifiuti con passo risoluto, affonda nel fango e poi risale in superficie, per portare a termine la sua missione quotidiana. Lei è la Caronte di Castel Volturno, traghettatrice di giovani prostitute incinte al servizio di una madame ingioiellata e trafficante di neonati. Sembra che l’anima le sia stata risucchiata insieme alla speranza del cambiamento, dell’assoluzione, eppure dietro i suoi modi bruschi, ci sono rapidi gesti, quasi invisibili, in cui si intravede un’ombra di umanità.

De Angelis non specifica il tempo della sua storia, ma la colloca in un inverno perenne, livido e freddo, come i personaggi che vagano lungo il fiume come anime in pena. Il tempo narrato è un tempo dell’anima, estremamente simbolico, come ogni immagine che colloca sulla scena. Eppure non serve altro per dipingere la realtà di Castel Volturno, e la sua tavolozza minimale basta a trasmettere l’angoscia, il freddo nelle ossa che si prova sulle rive del suo fiume.

Allo stesso modo non c’è alcuna presentazione dei personaggi, nessuna divagazione sul loro passato, e a parlare ancora una volta sono le immagini, i volti sfregiati dei personaggi, i loro corpi feriti ma allo stesso tempo vivi, vibranti, pronti alla ribellione. Come fuochi che scaldano l’inverno e illuminano il buio, i corpi portati in scena da De Angelis chiamano vita, e lo fanno disperatamente, con tutte le loro forze.

Con una rappresentazione del reale così astratta e vivida allo stesso tempo, Il vizio della speranza diventa un racconto universale del dolore, e dello slancio vitale insito in ogni essere umano che, per quanto siano disperate le condizioni in cui versa, per quanto l’inverno in cui si dibatte sembri infinito, trova sempre un modo di reagire, resistere e rinascere.

Roma FF13 – Go Home – A casa loro, di Luna Gualano

È l’apocalisse della tolleranza, la decomposizione del cervello e l’inizio di un lento, inesorabile cannibalismo. Gli zombie sono tra noi, a volte hanno un aspetto più umano, altre sono già mostri, ma strisciano lenti, silenziosi, famelici di cervelli, e hanno un unico intento: ingrossare a dismisura la loro orda. Questa è il ritratto della Roma contemporanea che dipinge Luna Gualano, intingendo il suo pennello dritto nel sangue, là dove non c’è più traccia di umanità e i mostri affondano i denti nella carne degli innocenti.

Back Home inizia così, nel bel mezzo dell’apocalisse zombie, con una manifestazione di un gruppo di militanti di estrema destra finita in tragedia. L’orda di manifestanti si accalca alle porte di un centro di accoglienza che dà asilo a una manciata di migranti provenienti da diverse regioni dell’Africa. Pressa, urla, minaccia, morde. All’improvviso un’altra orda si avventa sui manifestanti. Sono dalla parte dei migranti, ma non meno arrabbiati, non meno desiderosi di violenza. I corpi si intrecciano, il sangue scorre e i tafferugli culminano un una grossa nube di polvere che confonde le fazioni e oscura i volti.

Quando l’aria si fa più sottile non ci sono più uomini sul campo di battaglia, solo zombie che si sbranano a vicenda. L’unico superstite è Enrico, uno giovane di estrema destra, che inspiegabilmente ha conservato uno stralcio di umanità e che ora, per salvarsi la vita, si trova a chiedere asilo proprio a coloro che secondo lui non avevano diritto ad essere ospitati nel suo paese. Le porte del centro di accoglienza si aprono per fare entrare Enrico. È salvo, per il momento, ma ora lui è l’ospite, lui è il diverso. E ora tocca a lui sforzarsi per comunicare, per farsi accettare, e per combattere insieme contro un nemico comune: l’orda di zombie che sta per sfondare le porte per fare a pezzi chiunque gli si pari davanti.

Dentro e fuori, bianco e nero, vita e morte. Nell’armonia dei contrasti la regista Luna Gualano trova il codice narrativo della sua storia, in una dimensione in cui la realtà più cruda sfuma in un racconto horror fantastico, dove trovano spazio creature mostruose, come gli zombie. La rappresentazione del mostro però non è mai caricaturale,  ma curata in ogni minimo dettaglio, tanto da apparire una vera e propria evoluzione dell’uomo più che una maschera posticcia. Zombie e uomini si confondono e si trasformano l’uno nell’altro, uguali nella violenza gratuita, nella completa mancanza di empatia e nel desiderio ancestrale di fagocitare i propri simili.

Per mostrare la lenta e inesorabile perdita di umanità da parte dell’uomo, che ormai si è quasi completamente trasformato in zombie, Luna Gualano mette in scena un racconto violento, dove la scrittura è ridotta all’osso, per lasciare posto alle immagini grondanti di sangue. I dialoghi, minimali, non hanno mai il tempo e lo spazio per raccontare le motivazioni di quanto sta accadendo, e si limitano all’hic et nunc di un’apocalisse zombie inaspettata e impossibile da contenere. L’unico tempo contemplato è il presente e l’emergenza che porta con sé e, sebbene questa scelta a volte possa risultare straniante, è perfettamente in linea con un film impossibile da slegare dal momento storico in cui è stato concepito. Un film al presente che parla del presente, un incubo nato da una realtà più spaventosa della fantasia.

Roma FF13 – Incontro con Michael Moore per Fahrenheit 11/9

Era il 2004 quando Michael Moore presenta al mondo Fahrenheit 9/11, il documentario provocatorio e sarcastico sulla vittoria di George W. Bush alle presidenziali statunitensi del 2000, sul suo oscuro coinvolgimento negli attentati dell’11 settembre e nella guerra in Iraq. Ora, a oltre un decennio di distanza, con Fahrenheit 11/9 Moore torna a parlare dell’America apocalittica di Donald Trump, eletto presidente il 9 novembre 2016.

Fahrenheit 11/9 nel titolo fa da specchio al film precedente, e nasce ancora una volta dall’urgenza di raccontare al resto del mondo la verità su quanto è successo durante e dopo le elezioni americane del 2016. Ora che Trump è al potere, dobbiamo rimpiangere Bush? “Bush è responsabile per numerosi crimini di guerra, e per aver invaso l’Iraq. – esordisce Moore – ma è importante sapere che sia Bush che Trump hanno perso le elezioni. I democratici avrebbero dovuto combattere per eliminare la clausola secondo la quale anche chi non ha la maggioranza può andare alla Casa Bianca, ma purtroppo non l’hanno fatto e per questo ci siamo ritrovati in una situazione surreale come questa, in cui Trump ha vinto pur avendo ottenuto ben 3 milioni di voti in meno di Hillary Clinton. Trump si presenta come un populista, ma è Hilary Clinton ad aver avuto i voti della classe operaia, delle persone con un reddito annuo di 30.000 dollari o meno. Trump invece ha avuto i voti di chi guadagna 50.000 dollari in media. Poi ha avuto la maggioranza dei voti dai bianchi, il 64 percento di uomini e 53 percento di donne, ma in realtà sono quelli che non hanno votato per nessuno dei due candidati ad aver favorito l’elezione di Trump. Tuttavia al momento la popolazione americana è costituita per due terzi da persone di colore, e ci sono tantissimi giovani che a breve raggiungeranno l’età minima per votare, quindi sono certo che saranno loro a portare gli Stati Uniti al cambiamento definitivo. Questi sono gli ultimi giorni di un dinosauro morente, dell’uomo bianco che da sempre ha deciso la nostra storia”.

Ma come si è giunti a questo punto della storia? Qual è stata, secondo Moore, la funzione e la responsabilità dei media rispetto a un’informazione soverchiata dal puro intrattenimento, e da un leader politico che ha utilizzato la televisione come un teatro in cui inscenare i suoi numeri più esilaranti e guadagnare popolarità? “I media hanno avuto un grosso ruolo nell’instupidire la gente. Sono rimasto molto deluso dal comportamento della stampa nel novembre 2016. Secondo il New York Times Trump aveva il 15 percento di possibilità di vincere, eppure abbiamo visto tutti come è finita. I media purtroppo vivono nella loro bolla, non parlano con la gente e raccontano solo quello che vogliono. Inoltre Trump è un ottimo intrattenimento da tabloid e una gallina dalle uova d’oro per riviste e trasmissioni televisive, in cui ogni sua affermazione, anche la più paradossale esplode e fa notizia. La gente non è intelligente, bisogna prenderne coscienza. E questo deriva dal fatto che negli ultimi tre decenni le scuole sono state praticamente rase al suolo. Sono stati sottratti tanti soldi all’istruzione, soprattutto all’università. Ma se si chiudono le biblioteche e si consente alle multinazionali di controllare i media, si finisce col rincretinire la nazione, e questo la porta ad eleggere persone che abbiamo in questo momento al governo. E non è un caso che in Italia ci siano leader come Berlusconi e Salvini. Sono qui da cinque giorni e ho guardato molta televisione italiana. Non parlo l’italiano ma capisco le immagini e, come negli Stati Uniti, ho visto che alle persone la politica viene presentata come intrattenimento. Gli italiani trovano divertenti Dalvini e Di Maio, così come accade in America con Trump, ma non c’è nulla di divertente in ciò che fanno. E mi dispiace, ma la colpa di tutta questa situazione è della sinistra, che ha pensato per batterli fosse meglio spostarsi più verso il centro. Si pensava che per battere Berlusconi o Salvini non fosse una buona idea essere troppo di sinistra, e noi abbiamo commesso lo stesso errore. Invece persone come Trump o Berlusconi vengono votati perché si presentano per quello che sono, con il loro errori, proprio come Bush, che si vantava di aver studiato poco di sapere poco e per questo suscitava simpatia e consensi in coloro che si riconoscevano nel suo modello. Il paradosso è invece che mio padre era un operaio, ma votava per JFK perchè in lui vedevano una persona che aveva studiato, una persona preparata, che grazie al suo intelletto e alla sua cultura avrebbe potuto guidare al meglio gli Stati Uniti. La sinistra si deve rimpadronire del suo partito, altrimenti avremo un nuovo fascismo, che non avrà svastiche e campi di concentramento a contraddistinguerlo, ma un sorriso in uno show televisivo”.

Se il momento politico che stiamo attraversando è uno dei più bui mai vissuti, negli Stati Uniti così come in Italia, anche la settima arte  risente di questa situazione, respira l’oscurantismo e si svaluta, privilegiando il mero intrattenimento a scapito della qualità. “Sono preoccupato per la condizione in cui versa il cinema oggi – continua Moore – negli Stati Uniti è raro vedere film stranieri, anche europei. Per questo mi sono impegnato in prima persona per consentire alle persone della mia città, Flint, di andare al cinema. Il cinema è l’arte del popolo, la più accessibile economicamente, visto che un evento sportivo o o un concerto arrivano a costare più di cento dollari, mentre il cinema costa dieci volte meno. Sono vissuto in una città industriale, in cui non esisteva la cultura del cinema, eppure da ragazzino ho visto i film di Fellini e di Kurosawa, e questo mi ha insegnato molto su come si vive in altre parti del mondo. Vivo in un paese in cui il 70 percento delle persone non ha un passaporto, e questo vuol dire che non ha mai avuto l’opportunità di viaggiare. In un contesto del genere il cinema è l’unica porta sul resto del mondo e dobbiamo impegnarci per far vedere film che vengono da ogni parte del mondo, perché è così che si crea maggiore consapevolezza e si evitano le decisioni basate sull’ignoranza. Voi italiani però dovete impegnarvi a fare cinema di valore come quello avete fatto negli ultimi cento anni. Meno spazzatura e più arte”.

Michael Moore conclude il suo intervento invitando l’Italia a fare un passo indietro e a ritrovare se stessa nella storia che sembra aver dimenticato e nell’arte che l’ha resa grande in tutto il mondo. “Nel 1990 quando sono venuto in Italia sono stato intervistato dall’Unità, che all’epoca vendeva un milione di copie e che ora non esiste più. Ricordo di essere rimasto colpito di quanto interesse potesse suscitare una rivista così dichiaratamente schierata. Ora invece mi sembra che la situazione si sia capovolta. Salvini, che è ora al governo, è fondamentalmente un razzista. So che l’Italia ha grandi problemi con l’immigrazione a causa della sua posizione nel Mediterraneo, e mi duole dire che anche il mio è un paese razzista e che non ha dato il suo contributo in questo senso. In italia però ci sono tante persone intelligenti, abbastanza da definire Salvini bigotto, razzista e omofobo. Voi in quanto italiani avete dato tanto al mondo, non solo con l’arte, il cinema e la letteratura ma anche con il cibo, per il modo in cui trattate le cose e nutrite il vostro corpo. Per questo mi intristisce profondamente vedere quello che è successo al vostro paese, tornate ad essere l’italia per favore, e con questo non intendo affatto ‘l’Italia prima di tutto’, ma soltanto l’Italia”.