Ron Howard

Solo: A Star Wars Story, di Ron Howard

Approda oggi in tutti i cinema il nuovo audace capitolo della saga stellare ideata da George Lucas:  Solo: A Star Wars Story secondo spin off, dopo Rogue One, estrapolato dal filone narrativo centrale che intanto procede sui binari di una nuova trilogia sequel.
Come suggerisce il titolo, il film è un origin story che intende approfondire il background di uno dei personaggi più emblematici dell’universo narrativo di Star Wars, il contrabbandiere Han Solo.
Il film quindi ripercorre una parte delle vicende precedenti alle avventure vissute dall’eroe nella serie canonica, gettando così un ponte che connette l’oscuro passato sul pianeta di origine al personaggio che irrompe nella pellicola del ’77.

All’epoca Han Solo – che per esattezza di cronaca da noi si chiamava Jan Solo e che come tutti gli altri personaggi ha recuperato il nome originale nella versione italiana solo a partire dalla più recente trilogia – aveva il volto di Harrison Ford, un’incarnazione la sua che è entrata di diritto nella leggenda.
Questa dunque la sfida maggiore a cui fare fronte: dare un volto nuovo a uno dei personaggi più iconici della storia cinematografica. Impresa non da poco se si aggiunge che il pubblico di Star Wars è esigente e nella maggior parte dei casi morbosamente attaccato al canone originale.
E le polemiche, come da copione, non sono mancate. Non ci si poteva certo aspettare che i fan di vecchia generazione digerissero facilmente la notizia di un Han Solo con una faccia nuova, nemmeno se questa connotazione include il volto sbarbato e il ciuffo ribelle di Alden Ehrenreich.
Il giovane attore però, già messo alla prova da una doppia collaborazione con Francis Ford Coppola e forte di una benedizione avuta da Ford in persona, regala un’interpretazione tutto sommato convincente e credibile, senza sbavature ma anche senza particolare spessore, sicuramente a causa proprio della pesante erdità di un ruolo a cui resta manualisticamnete fedele, senza aggiungere nulla di suo.

Nemmeno il pretesto di un “personaggio più giovane” basta da solo a giustificare un volto diverso dall’originale, per il semplice fatto che alla sua prima apparizione Ford incarnava un Han nel pieno della sua aitante e sfrontata giovinezza. Probabilmente, per risolvere in modo credibile la spinosa questione del cambio generazionale, sarebbe bastato anticipare ulteriormente l’anagrafica della nuova versione del personaggio e regalarci un Han appena adolescente, dai tratti immaturi e acerbi che si potevano credibilmente trasformare in quelli della irresistibile canaglia a cui il pubblico è affezionato.
Tuttavia un modo per sopravvivere alla logica impopolare della produzione hollywoodiana e godersi un film in fin dei conti ben confezionato esiste: è sufficiente ricordarsi che Han Solo è un personaggio. In quanto tale esso non si identifica con un volto ma con una serie di attributi e di caratteristiche che ne incarnano lo spirito. Preservare questo insieme di elementi è l’unica vera necessità per non tradirlo. I volti, lezione pirandelliana antipatica ma onesta, sono in questo senso del tutto intercambiabili.

Ma torniamo allo Han di Alden Ehrenreich che riporta sullo schermo un personaggio complesso proprio per la sua incrollabile autenticità. Conosciamo Solo come un eroe sui generis, scanzonato, sfrontato più che coraggioso, un mercenario scaltro, che si barcamena tra debiti e imprese pericolose, ma risponde a un codice etico di profonda lealtà e si schiera dalla parte dei buoni senza riserve.
La nuova versione rispetta il quadro originale ma lo arricchisce di una serie di sfumature che erano già in parte percepibili: il giovane Han è un ragazzo cresciuto in un ambiente di schiavitù e illegalità, è impetuoso e irresponsabile ma sopratutto è mosso da un desiderio di riscatto fuori dal comune. Del tutto refrattario all’autorità, abbadona l’Accademia Imperiale in cui si era arruolato per diventare pilota e si unisce a un gruppo di mercenari al servizio di un criminale senza scrupoli. Nel corso di un affare più grande di lui si imbatterà in una cellula primordiale dell’Alleanza Ribelle.

Una parte del materiale narrativo usato nel film deriva da una serie di pubblicazioni ufficiali uscite tra il ’97 e il ’98 e che a loro volta sviluppavano un filone inaugurato con la trilogia di romanzi di Brian Daley risalenti al 1979, incentrata sulle avventure di Solo. È il cosidetto Universo Espanso, un insieme di prodotti realizzati su licenza che comprendono storie riferite a una linea temporale di parecchie migliaia di anni precedenti La minaccia fantasma. Nei romanzi di fantascienza considerati canonici dalla Lucasfilm, si racconta ad esempio del primo incontro con Chewbecca, tuttavia la versione cinematografica ha sapientemente rimosso i passaggi più crudi e forse anche più coinvolgenti, nel rispetto di una logica di mercato che vuole prodotti adatti a un pubblico anche molto giovane.

Si punta quindi molto di più sul tono avventuristico delle vicende di Han e del suo inserapabile compagno Wookie, di cui si approfondisce anche la storia personale. Non manca qualche gag divertente per un duo dalla presenza scenica sempre vincente.
Altro merito del film è senza dubbio quello di non concentrarsi troppo sulla caratterizzazione del protagonista ma di lasciar spazio ad altre figure, vecchie e nuove, delinenadone contorni ben  definiti. Ogni personaggio ha la sua storia personale, agisce in funzione di proprie motivazioni e non mostra apertamente i propri intenti, con il risultato che nessuno di essi risulta banale.

Tra i personaggi di nuova generazione emerge la bella Qi’ra, interpretata da una sempre perfetta Emilia Clarke, donna carsimatica, di grande fascino, legata indissolubilmente al passato di Han in un modo che però resta oscuro, e capace di ritagliarsi uno spazio tutto suo all’interno non solo del film in questione ma dell’intero universo di Star Wars.
Potente figura di raccordo tra la pellicola e la saga originale è invece Lando Calrissian, che nella sua versione giovanile ha il volto dell’eclettico e talentuoso Donald Glover, il quale sembra per altro perfettamente a suo agio negli eccentrici panni del personaggio e ci regala un’interpretazione che non ha nulla da invidiare all’originale.

Soprendentemente ogni ruolo trova il suo posto all’interno di un mosaico più ampio, o allacciandosi in modo unico alla saga di riferimento o confermando quello che della storia già si conosce, come accade con l’epica partita di Sabbac che segnerà il destino di Han e che finalmente si svolge sotto gli occhi divertiti dello spettatore.

La regia di Ron Howard fa il resto: il ritmo è ottimo, mentre lo spirito documentaristico tipico del regista è funzionale alla costruzione di una realtà credibile, sopratutto in linea con il gusto vintage della prima trilogia. L’atmosfera da saga epica non manca ma è come se restasse confinata ad alcuni vertici narrativi, mentre a dominare è il registro avventuroso.
I canoni del film di azione ci sono un po’ tutti: dal western, con tanto di attacco al convoglio e esplosivo sui binari, alla spy story, con party lussosi in cui si fanno loschi affari.

A voler trovare un difetto, si può dire che qualche passaggio emotivo è troppo velocemente risolto e archiviato ma è pur vero che Han Solo è essenzialmente un personaggio d’azione (se vogliamo il personaggio d’azione per eccellenza della saga) e tanto basta a relegare il gusto del film al ritmo narrativo serrato e agli stereotipi del genere.
Il sapiente Howard, ben consapevole dei rischi che rappresenta la direzione di un film della saga di Star Wars, ha creato un giusto equilibrio tra la sua personale poetica, caratterizzata da una regia controllata e puntuale, e quello che il pubblico di estimatori si aspetta di vedere.

Compaiono uno dopo l’altro gli oggetti-attributo del protagonista, dal blaster, ai mitici dadi dorati che hanno un valore scenico enorme sottolineato da un richiamo visivo e mataforico costante, fino all’apparizione degna di una standing ovation del Millenium Falcon, la leggendaria nave che segnerà per sempre il destino del pilota più veloce della Galassia e che rappresenta uno degli elementi di massimo culto per i fan.
Ogni azione, sopratutto ogni reazione, porta Han Solo più vicino al personaggio della trilogia originale. Più che della nascita di un eroe, assistiamo quindi al suo graduale formarsi e delinearsi fino a incasellarsi nel posto in cui la storia ce lo ha consegnato: nella cabina di pilotaggio del Millenium con accanto il compagno di avventure di una vita, in un continuo battibecco con il rivale Lando, sempre pronto a inseguire l’affare successivo, rapido a imparare la lezione quando serve e anche a sparare per primo quando la situazione lo richiede (Greedo docet). In punta di piedi e in modo originale, il film introduce il tema dell’Alleanza Ribelle facendo intendere che il futuro eroico di Han è solo momentaneamente rimandato. È come se in questo primo capitolo della sua personale storia Han imparasse l’importanza della collaborazione e scoprisse quello che imparerà più avanti, a credere cioè che al di là di una realtà fatta di interessi personali e tradimenti, c’è un mondo di valori positivi per cui vale la pena combattere. Sarà questa lezione a trasformarlo da lupo solitario a eroe coinvolto nella difficile battaglia di Luke Skywalker, Leia Organa e Obi-Wan Kenobi. E sarà questo arco evolutivo a renderlo così amato dal grande pubblico.

Solo: A Star Wars Story continua il canone inaugurato dalla gestione Disney della Lucasfilm che intende accendere i riflettori sulle infinite pieghe narrative messe a disposizione dall’immenso universo ideato da George Lucas. Sono le storie che fanno parte del marchio Star Wars Legend, etichetta nata nel 2014 quando la Disney ha messo un punto ufficiale all’Universo Espanso e che comprende tutti i materiali ufficiali realizzati prima della nuova trilogia.
Dopo l’epica battaglia corale realizzata con Rogue One,  assistiamo ora a un vero e proprio viaggio iniziatico, all’investitura ufficiale di un eroe.
Perchè in fin dei conti tutti i grandi eroi hanno un’origine. È una lezione che ci ha trasmesso la mitologia greca, sempre protesa a definire cosmogonie di suoi personaggi di riferimento per avere metafore universali con cui definire la realtà. Certo, la Walt Disney Company è mossa da motivazioni molto più materiali, interessata com’è allo sfruttamento di un brand che è un cult da traghettare a una nuova generazione di appassionati compratori.
Ma resta pur vero che Star Wars è una saga che negli intenti e nel risultato ha lo stesso spessore di un racconto eroico delle civiltà antiche: una saga familiare, uno scontro tra il bene e il male che assume contorni mitici, personaggi iconici che rappresentano l’idealizzazione di valori quali il coraggio, la fedeltà, l’altruismo e il sacrificio.

Che la storia sia un arechetipo ancestrale o una pietra miliare della cultura pop contemporanea, che sia essa ambientata nell’antica Grecia o in una Galassia lontana lontana il risultato non cambia: il viaggio dell’Eroe ci appassiona perchè muove da un urgenza interiore all’azione e incarna quel desiderio di avventura che è patrimonio mondiale dell’umanità (nerd).
E Han Solo è un personaggio che vale la pena seguire sempre, al di là della sua incarnaziona fisica, fosse anche solo per il piacere di fare un giro sul Millennium Falcon. Per cui fidatevi del suo “buon presentimento” e godetevi il salto nell’iperspazio.

Heart of the Sea – Le origini di Moby Dick, di Ron Howard

Herman Mellville (Ben Whishaw) è un giovane e brillante scrittore alla ricerca della storia che lo faccia entrare nell’Olimpo degli autori. Che sia quella della Essex, una baleniera naufragata nel 1820 per colpa di una balena bianca, e dei pochi membri dell’equipaggio miracolosamente salvi? Per scoprirlo Herman va alla fonte per sentire la storia dall’unico sopravvissuto rimasto in vita, Tom Nickerson (Brendan Gleeson). In una notte affabulatoria il racconto prende il la, immergendo il giovane scrittore nell’atmosfera salmastra e marinaresca tanto cara ai suoi racconti. Tutto inizia dalla vicenda di Owen Chase (Chris Hemsworth), un veterano avvezzo a combattere contro i mostri marini che aspetta la nomina a capitano di una nave con cui finalmente guidare una nuova impresa nei mari. George Pollard (Benjamin Walker), dal nome illustre e famoso, si interpone su questo cammino: il suo lingnaggio gli permette ottenere (pur senza meriti) il comando della Essex in partenza da Nantucket, relegando Chase al ruolo di primo ufficiale. I due partono, accompagnati da un equipaggio tanto ambizioso quanto mal assortito, ma che in questa diversità dovrà trovare la forza di affrontare l’inimmaginabile: lottare contro una balena bianca.

La storia apre numerose porte su riflessioni profonde, che lo spettatore tuttavia non riesce completamente a chiudere perché coinvolto in una corsa emotiva forsennata nella spettacolare epica del racconto.

Primariamente l’uomo combatte contro gli altri esseri umani, in un lotta all’ultimo sangue per la supremazia e l’affermazione sociale, vile contro i propri simili pur di riempire le proprie sacche di danaro e il proprio ego di gratificazione. Chase e Pollard combattono una guerra continua l’uno contro l’altro per il primato sull’immensa imbarcazione e, al tempo stesso, non esitano a sfidare i limiti della ragionevolezza e della prudenza pur di non ammettere il fallimento, mettendo a repentaglio non solo la propria vita ma anche quella degli altri. Insieme decideranno di sfidare l’Oceano Pacifico, lì a mille miglia lontano dalla terraferma, dove le balene si sono rifugiate per sfuggire alla caccia dell’uomo.

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L’uomo deve poi misurarsi con la propria mente e il proprio io, l’avversario più pericoloso; ambizioni ed egoismi spingono a dimenticare che ciò che si ricerca con tanto ardore si trova sul palmo della mano; viaggiare lontano e rischiare il tutto e per tutto non ha senso.

Infine l’uomo viene presentato in relazione con la natura; apparentemente egli lotta contro la furia delle tempeste e l’istinto dei più grandi mammiferi marini, assurgendosi ad essere superiore in grado di domarli; ben presto l’equipaggio si renderà conto, proprio nelle situazioni più estreme, di essere invece parte della natura e non suo antagonista. All’epoca la balena veniva vista come una semplice merce da prendere e da usare e la corsa al suo olio è paragonabile all’odierna corsa all’oro nero; l’animale forniva tutto il necessario alla società del XIX secolo (dall’olio per riscaldarsi e illuminare, ai mobili e ai corsetti) e ciò che in Heart of the Sea può sembrare una glorificazione della caccia alla balene è in realtà un’epopea che racconta la brutalità di questa pratica e la condizione degli uomini a bordo delle baleniere, mercenari al servizio di armatori e compagnie commerciali senza scrupoli.

Ron Howard (A Beautiful Mind, Il codice da Vinci, Il Grinch; Rush) continua il sodalizio vincente con Chris Hemsworth; la regia si snoda tra la spettacolarità, in linea con l’epica che Moby Dick ha rappresentato per la cultura letteraria americana, e le soggettive delle balene, estremamente evocative; in aggiunta, un rigore storico estremamente curato e fedele, a tratti, forse, anche troppo accentuato verso toni melodrammatici. Bella la sceneggiatura, sempre coinvolgente, basata sul libro dello storico Nathaniel Philbrick (Nel cuore dell’oceano – Il Naufragio della baleniera Essex): alcune scene hanno già il sapore dell’indelebile. In tale profluvio di effetti speciali e mirabolanti riprese trovo ingiustificata la scelta del 3D: un classico 2D non avrebbe tolto nulla alla pellicola.

Un film ben fatto, infine, che spinge a pensare che la realtà supera, in grandiosità e imprevedibilità, anche i migliori romanzi, incluso uno tra i cento libri che rendono migliore la nostra vita come Moby Dick.