Alan Moore

Joker, di Todd Phillips

Joker di Todd Phillips, ovvero “l’elogio della pazzia criminale”.

«Qualsiasi cosa siano soliti dire di me i mortali, e infatti non sono così sciocca da non sapere quanto si parli male della follia anche da parte dei più folli, tuttavia sono io, io sola, ve lo posso garantire, che ho il dono di riuscire a rallegrare gli dèi e gli uomini. Eccone la prova: non appena mi sono presentata a parlare dinanzi a questa numerosa assemblea, tutti i volti si sono improvvisamente illuminati di una certa nuova e insolita letizia; subito le vostre fronti si sono spianate, subito mi avete applaudito con una risata così lieta e amabile che mi sembra di trovarmi dinanzi a un consesso degli dèi di Omero, come loro tutti ubriachi di nettare e nepente, mentre prima ve ne stavate lì seduti tutti imbronciati e tristi, come se foste appena usciti dall’antro di Trofonio».

[Elogio della follia, Erasmo da Rotterdam]

Joker è tutto giocato sulle aspettative – tradite e soddisfatte – e questo, a seconda del punto di partenza, può voler dire consenso o disapprovazione. Il regista Todd Phillips [Trafficanti, A Star Is Born] ottiene successi planetari di pubblico con dei buddy movie fondati sulla comicità, la trilogia di Una notte da leoni e Parto col folle, e si cimenta inaspettatamente con la genesi di un villain che è prima di tutto un personaggio controverso e mentalmente deviato e che trova reazione alle sue sofferenza in una violenza ingiustificata. Aspettative di riuscita dubbie, nonostante avesse all’attivo anche il successo di A star is born, ma tradite in positivo: il film, per quanto generi discussioni infinite sulla possibile emulazione della violenza, è di notevole interesse, ben costruito e ha ottenuto traguardi importanti.

Joker ha conquistato il Leone d’oro alla 76ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, ha vinto due Golden Globe e due premi Oscar su ben undici candidature, record per l’edizione 2020. È ormai nella storia, inoltre, come la prima pellicola basata su un personaggio DC Comics a concorrere in qualità di miglior film. Prima di Joker solo Black Panther [Marvel] aveva concorso per la stessa categoria.

Per non disattendere, invece, le aspettative dei lettori di Batman, bisogna premettere che questo film su Joker in nessun modo è collegato o collegabile al DC Extended Universe e che non ci si deve approcciare alla visione di questo film come un cinecomic di tipo classico. Sarebbe sbagliato senza “se” e senza “ma”.

La figura di Joker va al di là del personaggio stesso, perché anche se inizialmente la malvagità è reazione alle aspettative tradite di inserimento sociale e di attenzione paterna, successivamente diventa seme di un’idea di rovesciamento del sistema stesso e può essere innestato in un qualsiasi altro soggetto. Né più né meno di quello che avviene in Inception di Christopher Nolan.

Joker non è, quindi, un villain come tutti gli altri checché ne dica lui stesso:

«Ecco tutto ciò che mi separa dal resto del mondo. Solo una brutta giornata!»

La sua complessità deve essere chiara anche nel momento in cui si vede il film. Per non aspettarsi né le scazzottate kitch della serie TV né i piani intricati né le bombe ad orologeria o i congegni a molla e i carillon.

La sceneggiatura a quattro mani di Todd Phillips [Oscar per la sceneggiatura non originale di Borat – Studio culturale sull’America a beneficio della gloriosa nazione del Kazakistan] e Scott Silver [nominato agli Oscar per The fighter] si basa sull’omonimo personaggio dei fumetti DC Comics, in particolare sul graphic novel Batman: The Killing Joke, scritto da Alan Moore [Watchmen] e disegnato da Brian Bolland: la storia approfondisce psicologicamente, come nessun altro albo, il rapporto anomalo e contorto che s’instaura tra il Cavaliere Oscuro e il suo più iconico nemico, permettendo così al genio visionario di Moore di apporre la sua illustre firma su una delle possibili origini del villain.

Anche per quanto riguarda la fotografia e la messa in scena in generale il Joker di Phillips mantiene lo stile grafico deciso da Bolland, costruito a partire da una delle più interessanti trasposizioni cinematografiche del periodo muto: L’uomo che ride, del 1928, liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Victor Hugo, è un melodramma storico stilisticamente riconducibile al movimento espressionista, che impressionò a tal punto gli spettatori per la crudezza delle scene, per la resa fotografica e soprattutto per l’aspetto raccapricciante del protagonista, che fu considerato a lungo un film horror. In effetti la mimica facciale di Conrad Veidt mentre è Gwynplaine è qualcosa di raccapricciante nonostante sia trascorso quasi un secolo.

Il Joker di Phillips arriva dopo le prove eccellenti dell’inquietante pazzo criminale con il volto di Heath Ledger ne Il cavaliere oscuro e del volutamente eccessivo gangster di Jared Leto in Suicide Squad, senza dimenticare nel capostipite burtoniano l’interpretazione di Jack Nicholson che ha fatto epoca, sebbene fosse fin troppo legata ad un’iconografia edulcorata da palinsesto per famiglie.

Già questo crea inevitabilmente delle aspettative che possono innescare cortocircuiti che potrebbero portare alla fuga: dello spettatore, che magari ha deciso a priori che il suo Joker di riferimento ha ormai definitivamente le sembianze del suo idolo; dell’attore, che si deve cimentare al posto di colleghi illustri, magari suoi amici, con il peso che questo comporta e le critiche che volente o nolente dovrà reggere su spalle più larghe e ben più forti di quelle che ha fornito al suo Arthur Fleck.

In quale assurdo clima di aspettative deve aver lavorato Joaquin Phoenix [Irrational man, Maria Maddalena, Don’t worry] sul personaggio!

Arthur Fleck [Joaquin Phoenix] è un uomo profondamente alienato che vive, o meglio sopravvive, come può, nella Gotham City del 1981, in un appartamento dei bassifondi con l’anziana madre Penny, ormai incapace di intendere e di volere. In una città che sprofonda giorno dopo giorno nel degrado e nella disuguaglianza sociale, Arthur lavora come clown in affitto per i negozi e con lo stesso travestimento fa servizio civile in ospedale, ma il suo più grande sogno è diventare un famoso comico ed essere ospitato in diretta al suo talk show preferito, il Live! With Murray Franklin.

L’alienazione di Arthur sarebbe sotto controllo se non avessero operato dei profondi tagli alla sanità così l’uomo si ritrova senza assistenza medica e il suo disagio mentale gradualmente si trasforma in vera e propria dissociazione: ha, infatti, un raro ma innocuo disturbo simile alla sindrome pseudobulbare, in cui il danneggiamento dei meccanismi che regolano la normale risposta emozionale della risata sono irrimediabilmente danneggiati. Il risultato filmico è una risata completamente fuori controllo, allegra solo nel suono ma disarmonica rispetto alla mimica facciale, contrita in un misto di vergogna, terrore e disperazione. Da Oscar.

A dispetto del suo rapporto conflittuale con la risata, Arthur viene chiamato “Happy” dalla madre e incoraggiato a continuare a scrivere sketch e barzellette, che non fanno ridere nemmeno lui, e proseguire su quella strada fallimentare, con l’idea che dal fondo del baratro non ci si può che sollevare, ma come e a che prezzo?

«Mia madre mi diceva sempre di sorridere e mettere una faccia felice. Mi diceva che ho uno scopo: portare risate e gioia nel mondo».

È palese come il disturbo della risata sia solo la punta di un iceberg sommerso ancora per poco. Presto diventano chiari i sintomi di una schizofrenia condita da atteggiamenti depressivi: Arthur vive in un’illusione che viaggia parallela alla realtà e ciò che muove i suoi passi è la costante ricerca dell’approvazione di una figura paterna che possa fornirgli concretezza, aderenza al mondo reale o almeno un senso di appartenenza a qualcosa di meglio della feccia in cui quotidianamente annaspa a bracciate scoordinate.

In prima istanza Arthur segue i voli pindarici della madre, convinta che il figlio sia di Thomas Wayne, ma il magnate è inamovibile. Un’altra strada impercorribile che lo porta solo ad un cancello chiuso sotto gli occhi ancora innocenti di Bruce.

Ancora, però, il protagonista non si arrende: si può tentare di essere figura paterna, anche non avendone mai avuto una, per il figlio della vicina tanto carina… ma ecco che la malattia si palesa maggiormente in lui e sullo schermo. Sale in cattedra il regista ad aiutare lo spettatore, che finora ha addirittura parteggiato per il protagonista, e lo mette nella condizione di riconoscere lo stato alterato della coscienza di Arthur e ad essere critico nei confronti di una realtà filmica sempre più distorta dal suo sguardo. Un esempio dell’intervento registico è il “fuori bolla” che riprende Arthur nel pianerottolo del condominio prima di rientrare a casa: si tratta di un’inquadratura particolare che si effettua ruotando la mdp in modo che la linea dell’orizzonte filmato non sia più parallela a quella reale e serve a suggerire un’alterazione nella visione del mondo da parte del personaggio a cui fa riferimento, che sia esso inquadrato o che sia in modalità soggettiva. Si fa largo a questo punto un dubbio: cos’è vero? siamo solo spettatori delle allucinazioni di Arthur? Una delle tante possibili interpretazioni.

Nemmeno un’uscita “romantica” con la vicina in una scena al diner che è citazione esplicita di Taxi driver di Martin Scorsese – un chiaro parallelismo dato che non è l’unica – lo porta su una strada di vita percorribile. Dopo le aspettative di ricostruire i legami familiari, anche l’amore che salva il mondo in quasi tutti i film si dimostra un vicolo cieco. Un’altra possibilità di affermazione sociale decade e Arthur, che è privo di una qualsiasi bussola morale, si trova ormai con le spalle piegate dalla sua vita deprimente, in cui campa a stento, contro un muro che non gli lascia che poche alternative.

La svolta è la reazione violenta all’ennesimo atto di bullismo.

«Per tutta la vita, non ho mai saputo se esistevo veramente. Ma io esisto. E le persone iniziano a notarlo»

La genesi del mostro è sottolineata egregiamente da un’indimenticabile scena in cui Joker scende una ripida scalinata di cemento, ballando sulle note di Rock and Roll Part 2 di Gary Glitter. Un’inquietante danza liberatoria che è già diventata virale: la location delle riprese è diventata subito meta di turisti, curiosi e cinefili che voglio farsi immortalare mentre replicano la locandina o si filmano mentre riproducono la coreografia. In pratica è diventata un’icona culturale come un’altra scalinata, quella di Rocky a Philadelphia. La scalinata di Joker si trova a Highbridge, nel Bronx – non proprio un quartiere ospitale – e collega Shakespeare Avenue, più o meno all’altezza del civico 1165, con Anderson Avenue. Poi ci si domanda come mai il New York Times abbia timore di emulazioni

Torniamo al film per un’ultima aspettativa da parte di Arthur. Tradita? Appagata? Dipende dai punti di vista, se il suo o il nostro: in un ultimo tentativo di prendersi quei «15 minuti di celebrità» che ogni persona può avere secondo Andy Warhol, dopo aver assaggiato il sapore della liberazione dal male attraverso il Male, il nuovo Arthur si presenta ospite allo show televisivo che tanto ama. Davanti ad un Robert De Niro [The Irishman, Lo stagista inaspettato, Joy], che per il pubblico è stato il delirante Taxi driver e l’ossessionato Re per una notte – riferimenti evidenti del regista Todd Phillips – Joaquin Phoenix inscena l’apice della follia e l’apoteosi del suo personaggio.

«Quando mi farai entrare mi annunceresti come “Joker”?»

L’aspirante comico deriso non esiste più. La massima attribuita da sempre a Giulio Cesare «se non puoi vincere il tuo nemico, fattelo amico» sembra assumere un nuovo significato per Arthur. L’uomo abbraccia la sua tanto odiata malattia e accoglie in sé la pazzia come compagna di vita: l’ultimo barlume di umanità in lui muore e il Joker viene alla luce dalle tenebre più profonde del super-io. La violenza diventa catarsi. La paura si fa strumento di rivalsa sulla società che gli ha voltato sempre le spalle. Il mostro è uscito dalla gabbia, ha assaggiato il sangue e vivrà di rabbia, odio. È ora il Joker, la Matta, the Fool, non più giullare fallito, ma maschera di morte.

«Non sono stato felice mai, neanche un minuto della mia vita del cazzo! Sai cos’è buffo? Cosa mi fa veramente ridere? Ho sempre pensato che la mia vita fosse una tragedia, ma adesso mi rendo conto che è una cazzo di commedia!»

Finalmente una risata coerente, figlia di una vita beffarda, creata da un corto circuito che non è esclusiva del film e del fumetto in questione, ed è sicuramente riduttivo considerare i già citati riferimenti cinematografici o aggiungerne altri abbastanza calzanti come Un giorno di ordinaria follia o Arancia meccanica. Come fosse un compendio sull’interconnessione tra risata e insanità mentale, il Joker di Phillips fa venire in mente anche riferimenti illustri. Viene in mente il rapporto conflittuale che fratello Jorge ha nei confronti della risata e delle tesi aristoteliane su di essa ne Il nome della rosa di Umberto Eco.

Ma soprattutto esiste un simile corto circuito tra la comicità desiderata tuttavia inattuabile e il dramma che la prevarica fino ad essere padrone incontrastato della scena, fino a coinvolgere la platea dal proscenio e che troviamo nell’opera lirica I pagliacci di Ruggero Leoncavallo: l’attore che interpreta il clown ha scoperto che sua moglie, e collega, lo tradisce con un altro attore così, mentre porta avanti la commedia, ormai esasperato dalla gelosia dà libero sfogo alla sua rabbia e uccide i due amanti per poi rivolgersi al pubblico ed esclamare «La commedia è finita!» L’aria in questione è la famosissima Vesti la giubba! – una The show must go on ante litteram – che rappresenta il concetto di clown tragico, impeccabile nel suo ruolo comico («but my smile still stays on»), nonostante interiormente viva un profondo dramma personale.

La reazione al dramma interiore è un gesto di violenza improvviso che nello stesso istante trascina in uno stato di alterazione il piano diegetico e l’extradiegetico (la “quarta parete”).

La reazione della folla è sconcertante più del gesto. È il trionfo della follia.

Su questo aspetto si fonda la paura del NY Times: che si possano verificare emulazioni e, il precedente massacro di Aurora alla prima de Il cavaliere oscuro – Il ritorno ad opera di un esaltato che si presentò come Joker, non fa che avvalorare questo sospetto.

Quindi è un film su un pazzo che poco ha a che fare con Batman?

Di nuovo aspettative. Deluse se si entra in sala per vedere un nuovo capitolo della saga del cavaliere oscuro. Soddisfatte in pieno se si analizza il punto d’intersezione dei personaggi.

L’incontro avviene attraverso le sbarre del cancello; significativo ed ambiguo, come il rapporto che intercorrerà da lì in poi tra i loro due alter ego. Da una parte il cancello è un limite invalicabile dall’altra non rappresenta una separazione netta tra i due, che possono interagire attraverso le sbarre: Arthur parla con il piccolo Bruce, come se avesse già deciso che sono fratelli, fratelli di sangue, tanto che arriva ad allungare le mani sul viso del suo futuro nemico per provare a suo modo la parentela attraverso quel sorriso forzato, quella smorfia malata che in lui non trova pace.

È oltremodo significativo che il cancello sia a sbarre come quelle di una prigione: per uno esprimono la giusta pena commisurata ai crimini perpetrati, per l’altro rappresentano la gabbia dorata in cui ancora vive, ignaro del destino che lo attende dietro l’angolo, in vicolo buio, per mano di un emulo del Joker.

Per entrambi, oltre ad una separazione labile, quel cancello, quelle sbarre, quell’impossibilità di comprendersi mette in luce la loro condizione di ineluttabilità del destino, un destino in continua lotta, con se stessi prima di tutto, poi con la propria eterna nemesi. Ed è proprio a questo punto che s’incontra un altro nodo che tormenta i detrattori del film: questo personaggio sfortunato e penoso, che spinge lo spettatore a tifare per lui a lungo, può essere all’altezza della situazione? Può essere quello che Moriarty rappresenta per Sherlock Holmes: un orditore di trame assurdamente intricate e piani intellettualmente eccentrici? Può essere un gangster senza scrupoli a capo di una miriade di clown criminali? La risposta la fornisce il fumetto che è l’origine di tutto: Joker non è un uomo, non è un criminale; Joker è un’idea, il seme di un’idea che s’innesta e cresce a nuova vita sui terreni fertili creati dalla società stessa con le sue ingiustizie, la violenza, l’indifferenza, la miseria materiale e culturale, che costringono le ultime ruote del carro ad un’agnizione che non potranno mai conquistare. Di nuovo aspettative deluse.

Insomma, è nato prima il clown del pipistrello? Non proprio. Il Joker di Todd Phillips è la genesi di quell’idea. Quello che Arthur diventa è quello che in gergo viene definito proto Joker. Il primo di tanti. Come un eroe anche l’antagonista può avere un’evoluzione. In questo sta la grandezza della scrittura di Batman. In questo sta la grandezza di questo film. Clown criminali potenzialmente infiniti come eterna è la lotta al crimine in questa Gotham City inedita, per la prima volta fornita di una connotazione temporale ben precisa.

«I ricordi sono ciò su cui si fonda la nostra ragione. Se non riusciamo ad affrontarli, neghiamo la ragione stessa! D’altra parte, perché no? Non siamo legati alla razionalità per contratto! Nessuna clausola di sanità mentale! Perciò, quando ti ritrovi avviato lungo binari difficili, diretto verso luoghi del tuo passato in cui le urla si fanno insopportabili, ricorda che c’è sempre la follia. La follia è l’uscita di sicurezza… Permette di farsi da parte e di richiudere la porta su tutte quelle cose terribili che sono successe. Di rinchiuderle… per sempre.»

[Batman: The Killing Joke, Alan Moore e Brian Bolland]

Providence, di Alan Moore con i disegni di Jacen Burrows

I critici l’hanno definito il Watchmen dell’horror. Providence è la nuova fatica di Alan Moore (V per Vendetta, Watchman, La lega degli uomini straordinari) disegnata da Jacen Burrows (Neonomicon, Ultimate Spider-Man Special #1), edita in Italia dalla Panini Comics: una miniserie di 12 numeri che unisce creature mostruose, incubi ancestrali e un protagonista decisamente atipico in una serie di cui in Italia sono disponibili i primi quattro episodi pubblicati in un unico volume.

Il titolo è già evocativo: tutta la trama ruota attorno ai miti e ai racconti creati dal cittadino emerito di Rhode Island, Howard Phillips Lovercraft, considerato tra i grandi scrittori di horror non solo statunitensi ma mondiali (celebri i suoi  Il caso di Charles Dexter Ward, Le montagne della follia e La maschera di Innsmouth). Providence è una sorta d preludio ad altre due opere del fumettista britannico, Neonomicon e Il Cortile, dedicati a Cthulhu, Dagon e alle altre orribili e inquietanti divinità che vanno sotto il nome di “Grandi Antichi”. Il protagonista è Robert Black, un giornalista dai modi gentili che, partendo da una serie di suicidi sospetti legati a un libro chiamato Sous le monde, si avventura sempre più nel profondo di un’indagine che lo condurrà alla scoperta di inquietanti cittadine americane, in cui uomini dai lineamenti stranamente simili a quelli dei pesci seguono culti antichissimi con lo scopo di risvegliare ciò che dovrebbe dormire per sempre.

Providence - Alan Moore

Il legame con Lovercraft è evidente: squallore urbano, le scene di sesso, il rock, le droghe, gran parte dello splatter e l’ambientazione moderna che avevano creato polemiche, scandali e persino censura si uniscono in Providence a una  narrazione che inizia nel 1919, epoca in cui l’autore era a malapena conosciuto, e che ci mostra il suo legame con i racconti e leggende che possono averlo ispirato. Moore ha dichiarato che con Black voleva creare un personaggio che fosse specchio del suo tempo, nel modo di agire, pensare e scrivere, ma che allo stesso tempo riuscisse a distaccarsi e distinguersi dalla massa.

La sceneggiatura, è vero, ricalca molto l’ambientazione dei primi del Novecento, con un ritmo poco incalzante e dialoghi lenti, spesso caratterizzati da un linguaggio fedele a livello storico ma poco coinvolgente. Dov’è la relazione che le storie di Lovercraft riescono a stabilire col lettore? Dove quella capacità di tratteggiare un piccolo universo parallelo in cui sospendere per un momento l’incredulità per porsi alcune domande che camminano sul filo del visibile e dell’invisibile? La scelta, ad esempio, di intervallare lo svolgimento della storia con pagine intere di diario che non aggiungono nulla di nuovo ma ribadiscono quanto era già stato disegnato nelle tavole precedenti, riulta sorprendente vista la maestria a cui Moore ci aveva abituato nel coniugare le voices off con le scene a fumetti. Non giungono in aiuto nemmeno i disegni di Burrows. Il suo tratto, che solitamente entra in perfetta sintonia con le idee di Moore, manca di una verve orrorifica in grado di rendere coerente il contenuto con ideologico con l’espressione a fumetti.

Providence - Alan Moore

Questo primo volume di Providence lascia senza dubbio con qualche perplessità ma, al tempo stesso, con la curiosità di scoprire con quali avventure Robert Black dovrà fare i conti, certi che Alan Moore avrà altre (e sorprendenti) sorprese da riservarci.

The Spirit – Le nuove avventure, di Will Eisner

Spirit è Will Eisner. Impossibile affidarlo a mani che non siano le sue. Non tanto per referenzialità o per una inscindibile personificazione dell’autore nella propria creatura, quanto per l’unicità di un modo di raccontare. Il giustiziere vestito di blu, dopo i primi passi da semplice avventuriero pulp, si è indubbiamente trasformato nel veicolo di Eisner per sperimentare strutture narrative totalmente proprie e fuori dai canoni, nuove ed avulse dalle caratteristiche di un personaggio dalle poche sfumature, diventando così semplice pretesto per racconti di ogni genere. Un banco di lavoro insomma.

Spirit equivale quindi al modo di raccontare di Eisner, alla rievocazione del mito. Anche se, chiamando a raccolta alcuni tra i migliori autori americani in circolazione, non poteva che essere un esperimento fallimentare in partenza. Nel peggiore dei casi una vuota imitazione, nel migliore un qualcosa di profondamente diverso. Ciò nonostante l’importanza storica del personaggio non ha mai fatto tirare indietro l’industria del fumetto dal tentativo di provarci. L’aurea di mito che circonda il nome Spirit garantisce interesse e va giustamente alimentata.
Tra i vari tentativi di revival, quello del 1998 uscito sotto forma di antologia di storie brevi dal titolo “Le nuove avventure di Spirit”, pubblicato per la prima volta integralmente in una pregevole edizione cartonata da PaniniComics, è probabilmente quello più interessante per via degli altisonanti nomi coinvolti. Kurt Busiek, Mike Allred, Paul Chadwick, Joe Lansdale e Paul Pope fanno però quello che prevedibilmente ci si aspetta da loro e cascano nella trappola dello sterile omaggio al pulp. A volte ironico, a volte surreale, sempre ben disegnato, ma comunque dal netto sapore di riempitivo.

Non stupisce invece la perfetta prova di Alan Moore (in coppia con il fidato Gibbons), che realizza ben quattro storie brevi, sfornando la sua solita classe e capacità di comprensione del media fumetto. Ottimo il suo lavoro mimetico, dove l’autore si cala alla perfezione nei meccanismi Eisneriani partendo direttamente dal mito delle “origini” del personaggio e del suo principale nemico: Octopus. Una serie di scatole cinesi e di giochi visivo/narrativi di rara eleganza, preambolo di quello che sarebbe diventato anni dopo il suo Greyshirt, che per quanto estremamente calcolati e “freddi” valgono da sole il prezzo del biglietto, compreso un lirico epilogo ambientato in un lontanissimo futuro, dove emerge tutta l’arte letteraria del bardo di Northampton.

Promossi anche Neil Gaiman, John Wagner e Eddie Campbell (qua anche in veste anche di scrittore), che cogliendo appieno il gioco di raccontare attraverso Spirit le sciagurate vite altrui – non importa che esse siano personaggi con la testa tra le nuvole, predestinati o semplici oggetti (in)animati – bilanciano verso il segno positivo il giudizio globale di questa antologia.

M.N.