Berlinale 67

Berlinale 67 – El Bar, di Álex de la Iglesia

El Bar è l’anticamera dell’inferno, quel luogo angusto in cui le anime, ammassate le une alle altre nella melma putrescente, aspettano di sapere chi si salverà e chi sarà dannato. Questo è l’inferno per Álex de la Iglesia, una dimensione estremamente umana, in cui le creature più spaventose sono gli uomini stessi, crudeli, abietti e disposti a farsi a pezzi l’uno con l’altro pur di aver salva la vita.

Dopo tutto basta prendere un gruppo eterogeneo di esseri umani, rinchiuderli in uno spazio ristretto per un tempo indefinito, possibilmente con una minaccia che incombe dall’esterno e il gioco è fatto, la miccia è accesa. Che si tratti di un’isola deserta o di un’apocalisse zombie, i meccanismi che si innescano tra le persone sono sempre gli stessi: il sospetto, la caccia e l’omicidio. E Álex de la Iglesia si diverte a giocare con i suoi personaggi come topi da laboratorio, creando situazioni surreali per scatenare reazioni estreme, per scavare a fondo negli uomini e scoprire quanto male sono in grado di farsi l’un l’altro.

A questo punto basta prendere un gruppo di persone che non si conoscono tra loro, intrappolarle in un bar a caso nel centro di Madrid con lo spettro di una minaccia sconosciuta che gli impedisce di scappare, e stare a vedere  che succede. L’inferno, appunto.

Questi sono gli elementi che fanno di El bar un cocktail letale di violenza e comicità demenziale, miscelato come solo Álex de la Iglesia sa fare nella sua commedia del terrore, in cui tutto sembra folle, sopra le righe, ma misteriosamente funziona, tiene incollati allo schermo e fa ridere a crepa pelle. Non si può resistere al suo humor nero, l’unica possibilità è lasciarsi risucchiare in questo vortice di nonsense e vedere cosa accade.

Berlinale 67 – Incontro con James Gray e il cast di The Lost City of Z

The Lost City of Z di James Gray è stato presentato alla 67’ edizione del Festival internazionale del Cinema di Berlino alla presenza del cast al completo, con Robert Pattinson, Sienna Miller e Charlie Hunnam. Il film, ambientato tra l’Amazzonia e l’Inghilterra dei primi del Novecento si ispira alla vita dell’esploratore britannico Percy Fawcett, scomparso nella giungla insieme al figlio nel 1925 mentre era alla ricerca di una mastodontica città, nascosta nel cuore della giungla.

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“Questo film è stata una grandiosa avventura – ha detto Charlie Hunnam – abbiamo dormito nella giungla, siamo stati attaccati dai ragni velenosi e siamo stati persino in pericolo di vita, ma lo rifarei senza pensarci su. Quello che ho amato del mio personaggio è proprio la sua forte spinta verso l’avventura, e la percezione che quello sia il suo destino, ma allo stesso tempo deve affrontare il conflitto con le responsabilità che lo tengono legato all’Inghilterra, come la famiglia ad esempio. Spesso mi sono trovato anch’io in una situazione simile e mi sono sentito egoista a ignorare i miei affetti per il lavoro, a volte ho addirittura riconsiderato tutta la mia vita personale, ma come il mio personaggio non ho mai smesso di andare avanti, di esplorare e cercare nuove opportunità”.

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E il conflitto dopo tutto è il tema centrale del film, che si sviluppa tra l’Europa e il Nuovo mondo, due pianeti diversi in un certo senso, come ha sottolineato James Gray: “Il film parla dello scontro tra due civiltà estremamente diverse, una che si sente superiore all’altra. Il mio obiettivo non era fare un film sull’uomo bianco che parte alla conquista della giungla, perché sono stati già fatti film del genere, e sicuramente di grande valore. L’ha fatto Kubrick e anche Herzog, ma il punto di questo film non è quello di rappresentare il razzismo o il nazionalismo di un gruppo di uomini che hanno l’arroganza di convertire gli indigeni, quanto il desiderio di elevarsi, di esplorare e conoscere. Ci sono certo elementi avventurosi, ma il cuore del film più che la giungla, sono gli uomini”.

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Ma come hanno vissuto un’esperienza così estrema Robert Pattinson, nuovo a questo genere di film? “Ho subito amato lo script – ha detto l’attore – perché era pieno di mistero, e pur non avendo mai fatto film del genere è stata una bellissima esperienza, al punto che questo è stato il ruolo che più ho amato in tutta la mia carriera”. E lo stesso vale per Sienna Miller, che ha dichiarato: “Ho amato molto il mio personaggio, è una donna e una madre straordinaria, una vera suffragetta!”.

Berlinale 67 – Una mujer fantástica, di Sebastian Lelio

Marina Vidal è una donna fantastica. Bella, coraggiosa e con una voce straordinaria. Anche se per la legge è ancora Daniel, e per molti un curioso scherzo di natura, il suo corpo, con le sue fattezze aggraziate e una sensualità sottilmente androgina, urla al mondo la sua crescente femminilità. Il suo cuore appartiene a Orlando (Francisco Reyes), un uomo molto più grande di lei, che dopo averla conosciuta ha lasciato la sua famiglia per vivere a pieno questo amore così travolgente e inaspettato. Ma proprio nel momento in cui il loro rapporto è al culmine della passione, Orlando all’improvviso si accascia sul pavimento e non si sveglia più. Da quel momento la vita di Marina piomba dalla luce all’oscurità, dal sogno all’incubo.

Oltre al dolore per la perdita del compagno, Marina (Daniela Vega) si trova costretta ad affrontare l’ira della famiglia di Orlando, che la ritiene colpevole della sua morte e le nega qualsiasi diritto, persino quello di partecipare al funerale. Cacciata di casa, picchiata, umiliata sia come donna che come essere umano, Marina diventa l’icona dell’intolleranza, il suo corpo il luogo in cui il pregiudizio conosce i suoi picchi più violenti.

Marina rimbalza tra le mani dei suoi carnefici, che come scimmie impazzite fanno a gara a distruggere quello che non comprendono, e pertanto temono come la peste. Nulla è risparmiato allo sguardo dello spettatore, neanche se sequenze più violente, perché Sebastian Lelio vuole rappresentare il mondo dal punto di vista di Marina,  senza sconti o inutili buonismi, in tutta la sua crudeltà. Costantemente pugnalata dagli sguardi taglienti dalla gente, che la scruta fin sotto la gonna per capire se è una donna completa o se conserva ancora una parte maschile, Marina non smette mai di lottare per la sopravvivenza, per non perdere la dignità e l’identità di donna costruita con tanta fatica. Per questo è una creatura fantastica, e quanto più lontano possa esistere dal fenomeno da baraccone, perché tra le mani del regista cileno ritrova tutta la sua umanità.

Berlinale 67 – The Dinner, di Oren Moverman

Una cena indigesta, un appuntamento atteso da tempo. Due fratelli riuniti con le loro mogli attorno al tavolo di un ristorante in cui ogni portata è un’opera d’arte, unica e irripetibile. Ma la perfezione estetica del cibo è in netta contrapposizione con l’imperfezione morale delle persone che lo consumano, impeccabili all’esterno, corrotte all’interno. Questa è la sostanza di cui è fatto The Dinner di  Oren Moverman, dell’eterna guerra tra apparenza e realtà.

Paul Lohman (Steve Coogan) è un insegnante di storia sull’orlo di una crisi di nervi, mentre suo fratello Stan (Richard Gere) è un uomo politico all’apice della sua carriera, amato da tutti, eccetto che da suo fratello. La cena in questione dovrebbe essere un momento d’incontro, di riconciliazione, ma i dissapori che serpeggiano all’interno della famiglia non riescono ad essere coperti dai sapori sublimi che incontrano nelle diverse pietanze, rigorosamente scandite come le stagioni dell’anno. Ma quello che è peggio è che la calma apparente della cena, la rabbia controllata dei fratelli Lohman, non trova riscontro nello stato d’animo dei loro figli, che nel mentre sono impegnati a dare fuoco a un senzatetto. I Lohman si sforzano di mantenere il controllo anche di fronte a questa notizia scioccante, ma lentamente, in un crescendo di rabbia repressa e violenza, la cena si trasforma in un campo di battaglia in cui nessuno ne esce illeso.

Per il suo film Moverman si ispira all’omonimo romanzo di Herman Koch ed è talmente affezionato alla materia di partenza che nonostante gli sforzi non riesce a staccarsi da un impianto narrativo prettamente teatrale, in cui la verbosità sovrasta l’immagine e la offusca. Gestire un testo del genere sulla scena è un’impresa non da poco, perché riunire un intero film in un’unità di spazio e di tempo presuppone una straordinaria capacità di giocare con lo script in modo tale da mantenere l’attenzione dello spettatore sempre viva e incollata al testo, ma in questo Moverman fallisce, mettendo in scena un film talmente gonfio di parole da slabbrarsi irreparabilmente scena dopo scena.

Berlinale 67 – Danny Boyle e il cast di Trainspotting 2

Sono passati vent’anni da quando Danny Boyle ha portato per la prima volta sul grande schermo Trainspotting, film icona di una generazione allo sbando, senza certezze né speranze per il futuro, che si crogiolava nell’estasi delle droghe per sfuggire al dolore della realtà. Il film è stato tratto dall’omonimo romanzo di dello scrittore scozzese Irvine Welsh, così come T2: Trainspotting, che si ispira a Porno, la storia che vede gli stessi Renton, Sick Boy, Spud e Begbie di nuovo insieme ad anni di distanza. La squadra quasi al completo, capitanata dal maestro Danny Boyle e composta da Jonny Lee Millers e Ewen Bremner, si è riunita alla Berlinale 67, insieme alla giovanissima new entry Anjela Nedyalkova.

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Ma come mai ci sono voluti tanti anni per realizzare un sequel del film? “In questi anni abbiamo pensato più volte ad un sequel, ha detto Boyle, ma aspettavamo una sceneggiatura che fosse all’altezza. Nel frattempo ci siamo tutti dedicati ad altri progetti, poi quando è arrivato il momento abbiamo ceduto alla nostalgia e abbiamo deciso di iniziare T2: Trainspotting. Ed è proprio la nostalgia la chiave di questo nuovo adattamento, che vuole richiamare alla memoria le scene del primo film, ma allo stesso tempo parlare del tempo che è passato e di quanto, nel bene o nel male siano cambiati sia i personaggi che il cinema stesso. “La nostalgia è molto potente e bisogna saperla controllare, ha sottolineato Boyle, inoltre non si può ignorare quanto sia cambiato il modo di fare film grazie alla tecnologia, che mi ha permesso di realizzare scene che nel 1996 non avrei potuto fare”.

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“Siamo cambiati tutti – ha aggiunto Jonny Lee Miller – ma non ho mai lavorato con un regista come Danny Boyle e sono contento di essere tornato a lavorare con un gruppo così affiatato. Ed Ewen Bremner lo ha confermato: “Danny ha un’energia unica ed è in grado di trasmetterla a tutti quelli che lo circondano. Vent’anni fa aveva un’energia esplosiva e oggi non è cambiato niente. Inoltre Danny ha un modo di girare unico, molto veloce e anche molto economico perché impiega al massimo 6 shots in scene in cui altri registi ne userebbero 20”.

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E come è stata l’esperienza sul set della nuova arrivata Anjela Nedyalkova? “Quando ho visto Trainspotting per la prima volta ero adolescente e sono rimasta molto impressionata da alcune scene, che per me erano troppo crude. Ma quando Danny mi ha proposto il ruolo di Veronika per il sequel del film è stato eccitate, ma anche molto stressante, perché non sapevo se sarei stata all’altezza del lavoro. Questa esperienza mi ha fatta crescere molto, sia a livello lavorativo che personale”.

Berlinale 67 – Richard Gere presenta The Dinner

The Dinner, diretto da Oren Moverman e tratto dall’omonimo romanzo di Herman Koch, è stato presentato alla 67’ edizione del Festival internazionale del cinema di Berlino alla presenza del regista e del cast, composto da Richard Gere, Laura Linney e Steve Coogan. “Il titolo del film, ha detto Moverman, è lo stesso del libro a cui mi sono inspirato, l’unica differenza è che il libro è interamente ambientato durante una cena, con le scene sono scandite dalle diverse portate, nel film invece ci sono anche scene che raccontano quello che accade fuori dal ristorante”.

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In una narrazione che si svolge quasi interamente in un unico luogo un ruolo fondamentale lo giocano i personaggi, in particolare Steve Coogan, che nel film interpreta un insegnante di storia sull’orlo di una crisi di nervi. “Mi piacciono i personaggi complessi e tormentati – ha dichiarato l’attore – ma questo è stato una vera e propria sfida perché c’erano tanti dialoghi e tante parole e quindi tanta pressione, ma con i partner giusti diventa tutto più facile”.

Primo tra tutti Richard Gere, che in The Dinner interpreta un uomo politico completamente in balia della sua carriera. “Quando mi è stato proposto di fare questo film sono stato subito intrigato dal mio personaggio, che raccoglieva tutti i cliché dell’uomo superficiale, ma ho deciso di non leggere il libro prima di girare. All’inizio il personaggio non emergeva nella storia, ma poi ho cercato di costruirlo scena dopo scena, grazie all’aiuto di Oren, con cui si è creato un rapporto di fiducia reciproca e di conseguenza una bella atmosfera sul set. Fare un film dopo tutto è un processo creativo e come tale non si sa dove può portare, l’unico segreto per farlo funzionare è annullare la pressione nel corso della lavorazione”.

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Un ruolo fondamentale è stato anche quello di Laura Linney, moglie amorevole di un marito psicotico e madre iperprotettiva di un figlio allo sbando. “Forse anche il mio personaggio è malato, anche se inconsapevolmente, perché è disposta a tutto pur di difendere la propria famiglia, anche ignorare crimini molto gravi”. A questo proposito Richard Gere ha aggiunto: “Dopo l’elezione di Trump il numero di crimini simili a quello che si vede nel film è aumentato a dismisura in American e lo stesso sta succedendo in Europa. Ormai siamo in preda alla paura e dobbiamo stare attenti a cosa facciamo e a come parliamo con gli altri. Trump ha sfruttato la paura del terrorismo per suscitare paura verso i rifugiati, e questo è un crimine gravissimo, perché dovremmo aiutarli, non temerli. L’unico modo per superare la paura è stringerci gli uni agli altri