Danny Boyle

Berlinale 67 – T2: Trainspotting, di Danny Boyle

Ogni qualvolta ci si trova davanti a un sequel la domanda che ci si pone è sempre la stessa: se ne sentiva davvero la necessità? A vent’anni di distanza dal film che ha portato sul grande schermo i turbamenti di una generazione allo sbando, che sapeva alleviare il male di vivere solo annebbiandosi il cervello con ogni droga possibile, Danny Boyle ci riprova, e torna con un sequel che vede protagonisti gli stessi ragazzi interrotti di Trainspotting, solo con una ventina di anni in più sulle spalle. Cosa è successo nel frattempo ai terribili quattro? Mark Renton (Ewan McGregor), dopo essere fuggito ad Amsterdam con il bottino dei compagni è uscito dal tunnel della droga, ha trovato un lavoro rispettabile e ha messo su famiglia, mentre i suoi compagni Spud (Ewen Bremner), Sick Boy (Jonny Lee Miller), e Begbie (Robert Carlyle), sono rimasti bloccati a Edimburgo, impantanati fino al collo nella droga e nel crimine. Nulla è cambiato eppure è cambiato tutto.

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Quando Mark torna a casa trova ad attenderlo la sua vecchia camera così come l’aveva lasciata, tappezzata di trenini colorati e dei poster dei suoi gruppi rock preferiti. Mette su il disco della colonna sonora della sua giovinezza e inizia il suo viaggio indietro nel tempo. I volti dei suoi compagni di sventura lo inseguono, lo colpiscono, e fanno di tutto per trascinarlo a fondo insieme a loro, per fargli riprovare l’ebrezza dell’oblio, delle visioni stroboscopiche e degli inseguimenti adrenalinici. Ma il disco ormai si è rotto, scricchiola, gira a vuoto, perché non si può mandare indietro l’orologio e prima o poi bisogna fare i conti con il presente e soprattutto con il futuro. Perché a certo punto non basta più restare a guardare la propria vita che scivola via, bisogna viverla.

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Ed eccoci al punto fondamentale: era necessario riesumare un film icona degli anni ’90 per farne qualcosa di nuovo e allo stesso tempo conforme all’originale? Probabilmente sì, perché T2: Trainspotting non è solo un sequel, ma un’opera cinematografica autosufficiente e per certi versi diversa dal primo film. Pur essendosi ispirato anche questa volta ad un romanzo dello scrittore scozzese Irvine Welsh, Danny Boyle rimpasta la materia già nota in qualcosa di sorprendente e estremamente attuale, in cui non mancano le sequenze allucinatorie e contorte, ma qui sono interpretate in chiave moderna e rese ancora più affascinanti grazie all’uso delle nuove tecnologie. E nonostante i pregiudizi di chi non riusciva a immaginare un sequel di Trainspotting, Boyle riesce a intaccare la sacralità della sua prima opera per creare qualcosa di diverso, sicuramente non paragonabile al primo film ma non meno vibrante e rappresentativo di una generazione che non vuole crescere.

Berlinale 67 – Danny Boyle e il cast di Trainspotting 2

Sono passati vent’anni da quando Danny Boyle ha portato per la prima volta sul grande schermo Trainspotting, film icona di una generazione allo sbando, senza certezze né speranze per il futuro, che si crogiolava nell’estasi delle droghe per sfuggire al dolore della realtà. Il film è stato tratto dall’omonimo romanzo di dello scrittore scozzese Irvine Welsh, così come T2: Trainspotting, che si ispira a Porno, la storia che vede gli stessi Renton, Sick Boy, Spud e Begbie di nuovo insieme ad anni di distanza. La squadra quasi al completo, capitanata dal maestro Danny Boyle e composta da Jonny Lee Millers e Ewen Bremner, si è riunita alla Berlinale 67, insieme alla giovanissima new entry Anjela Nedyalkova.

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Ma come mai ci sono voluti tanti anni per realizzare un sequel del film? “In questi anni abbiamo pensato più volte ad un sequel, ha detto Boyle, ma aspettavamo una sceneggiatura che fosse all’altezza. Nel frattempo ci siamo tutti dedicati ad altri progetti, poi quando è arrivato il momento abbiamo ceduto alla nostalgia e abbiamo deciso di iniziare T2: Trainspotting. Ed è proprio la nostalgia la chiave di questo nuovo adattamento, che vuole richiamare alla memoria le scene del primo film, ma allo stesso tempo parlare del tempo che è passato e di quanto, nel bene o nel male siano cambiati sia i personaggi che il cinema stesso. “La nostalgia è molto potente e bisogna saperla controllare, ha sottolineato Boyle, inoltre non si può ignorare quanto sia cambiato il modo di fare film grazie alla tecnologia, che mi ha permesso di realizzare scene che nel 1996 non avrei potuto fare”.

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“Siamo cambiati tutti – ha aggiunto Jonny Lee Miller – ma non ho mai lavorato con un regista come Danny Boyle e sono contento di essere tornato a lavorare con un gruppo così affiatato. Ed Ewen Bremner lo ha confermato: “Danny ha un’energia unica ed è in grado di trasmetterla a tutti quelli che lo circondano. Vent’anni fa aveva un’energia esplosiva e oggi non è cambiato niente. Inoltre Danny ha un modo di girare unico, molto veloce e anche molto economico perché impiega al massimo 6 shots in scene in cui altri registi ne userebbero 20”.

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E come è stata l’esperienza sul set della nuova arrivata Anjela Nedyalkova? “Quando ho visto Trainspotting per la prima volta ero adolescente e sono rimasta molto impressionata da alcune scene, che per me erano troppo crude. Ma quando Danny mi ha proposto il ruolo di Veronika per il sequel del film è stato eccitate, ma anche molto stressante, perché non sapevo se sarei stata all’altezza del lavoro. Questa esperienza mi ha fatta crescere molto, sia a livello lavorativo che personale”.

Steve Jobs, di Danny Boyle

Steve Jobs è diretto da Danny Boyle (premio oscar per The Millionaire) e scritto da Aaron Sorkin (miglior sceneggiatura non originale per The social network), basandosi sulla biografia best-seller di Walter Isaacson. Nel cast artistico spiccano i nomi di Kate Winslet (Oscar per The Reader), Seth Rogen e Jeff Daniels oltre al protagonista Michael Fassbender.

A qualche sprovveduto un elenco di individualisti di tale caratura potrebbe bastare ma non ad un’attenta analisi che consideri il film per quello che deve essere, ossia l’esito di un lavoro di squadra, un orologio con lancette che hanno compiti diversi ma che ruotano intorno allo stesso asse e che girano nella stessa direzione.

Iniziando dalla sceneggiatura, Aaron Sorkin ha dichiarato che il film è costituito da tre parti che narrano i tre eventi più importanti della Apple: il lancio di Apple Macintosh nel 1984, la società NeXT nel 1988 e l’iMac nel 1998, intervallati da alcuni flashback della vita di Jobs. Il film è perciò ambientato nel backstage del lancio dei tre prodotti iconici.
La macchina da presa segue le lunghissime conversazioni, molto cerebrali e serrate, di uno Steve Jobs che fa di tutto per essere un passeggiatore solitario e che invece si ritrova a fare i conti con le relazioni interpersonali, uno dei molti nèi descritti dalla biografia di Isaacson. L’intenzione era di portare lo spettatore dietro le quinte della rivoluzione digitale per introdursi poi nell’intimità più nascosta di un uomo considerato geniale? Forse, ma non è chiara la tesi e altrettanto non è avvincente l’argomentazione. A dimostrazione di ciò il fatto che non si può sintetizzare la trama in poche righe che diano l’idea del viaggio dell’eroe in questione. Una creatura mitizzata cosa diventa senza intorno il suo ambiente mitologico? È un po’ come raccontare le avventure di Superman senza fargli indossare il costume, senza farlo volare, senza fargli usare i poteri ma facendolo passeggiare nei corridoi della testata giornalistica a discutere di buste-paga, ringraziamenti ai tecnici, processi giudiziari, paternità. Magari tutto questo serviva per rappresentare l’umanità del genio, ma non fa altro che scimmiottare un già visto, già premiato, già osannato Birdman. Non gira anche Bill Murray per il backstage di un teatro alla ricerca di un successo che appare lontanissimo dalle possibilità? Non ha anche Birdman un rapporto padre-figlia a fare da filo conduttore e nodo cruciale? Per non parlare del modo quasi soprannaturale di porsi nei confronti dei “comuni mortali”? Solo che lo Steve Jobs di Boyle ne esce davvero con le ossa rotte in questo confronto tra divinità: la caratterizzazione dei personaggi, la cura minuziosa della scenografia, la grande prova di recitazione dell’intero cast e quel montaggio da oscar che ne fa un prodotto eccezionale – “di classe con un ottima strategia di marketing” come si afferma dei prodotti Macintosh nel film – fa pendere la bilancia verso Iñárritu senza ombra di dubbio, quindi perché andarsi a mettere in questo campo minato senza via d’uscita?

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E ancora, i fan dell’universo mac apprezzeranno il fatto che molte delle creazioni che hanno reso celebre la Apple non sono minimamente menzionate nell’estratto di vita degno di nota del loro beniamino?
Tornando alla sceneggiatura, si nota che la reiterazione della struttura narrativa è resa asimmetrica da un diverso susseguirsi di interlocutori ma poi l’evoluzione delle vicende in fin dei conti risulta minima: se “i soldi non sono importanti” come può il denaro diventare uno dei principali motivi di discussione, forse più della difficoltà di mantenere affetti solidi e duraturi. il fulcro del rapporto tra Jobs e i sette personaggi fondamentali del film che doveva essere il tema portante del film, secondo lo sceneggiatore Sorkin, è di fatto legato indissolubilmente all’interesse economico.

È bene chiarire subito che quella portata sullo schermo da Boyle non è LA storia di Steve Jobs ma UNA storia, una possibile interpretazione personale di una vita. Lodevole il tentativo di non farne un biopic classico, quanto possibile oggettivo, ma si perde di vista il mito e si perde di vista l’uomo, manca la leggenda come manca l’obiettività e allora cosa aggiunge a quanto già noto su questo controverso personaggio? Dove sono i fatti, le azioni che portano avanti una storia, la sua storia?
Tra l’altro neanche la ricostruzione storica è ben curata, come ci si dovrebbe aspettare in questi casi e soprattutto pensando ad una regia di tutt’altra pasta: pochi oggetti di scena mac, pochi dettagli, nessuna spiegazione o dimostrazione tecnica delle innovazioni tanto decantate, dei prodotti che hanno cambiato l’umanità intera, fanno sembrare il pioniere dell’informatica un supervenditore di fumo. Il gran pasticcio è infine condito da automobili con targhe anacronistiche e cameraman specchiato sulle lenti degli occhiali.

Mi sembra onesto, al contempo, segnalare una chicca dal sapore sofisticato che magari interessa maggiormente un pubblico smaccatamente tecnico: i tre atti in cui è scomponibile il film sono girati in tre diversi formati per sottolineare le tre diverse ere tecnologiche: un 16mm dalla grana grossa per il primo atto, un pulito 36mm per il secondo e un digitale HD per il terzo.
Ma tutto sommato, niente di rivoluzionario, niente di leggendario.
La sceneggiatura di Sorkin, con i suoi grandi confronti dialettici quasi ininterrotti, con la sua corposità verbale e pregnanza lessicale sarà probabilmente molto più adatta come pièce teatrale.
Il teatro a teatro e il cinema al cinema, però!