donald trump

Roma FF13 – Incontro con Michael Moore per Fahrenheit 11/9

Era il 2004 quando Michael Moore presenta al mondo Fahrenheit 9/11, il documentario provocatorio e sarcastico sulla vittoria di George W. Bush alle presidenziali statunitensi del 2000, sul suo oscuro coinvolgimento negli attentati dell’11 settembre e nella guerra in Iraq. Ora, a oltre un decennio di distanza, con Fahrenheit 11/9 Moore torna a parlare dell’America apocalittica di Donald Trump, eletto presidente il 9 novembre 2016.

Fahrenheit 11/9 nel titolo fa da specchio al film precedente, e nasce ancora una volta dall’urgenza di raccontare al resto del mondo la verità su quanto è successo durante e dopo le elezioni americane del 2016. Ora che Trump è al potere, dobbiamo rimpiangere Bush? “Bush è responsabile per numerosi crimini di guerra, e per aver invaso l’Iraq. – esordisce Moore – ma è importante sapere che sia Bush che Trump hanno perso le elezioni. I democratici avrebbero dovuto combattere per eliminare la clausola secondo la quale anche chi non ha la maggioranza può andare alla Casa Bianca, ma purtroppo non l’hanno fatto e per questo ci siamo ritrovati in una situazione surreale come questa, in cui Trump ha vinto pur avendo ottenuto ben 3 milioni di voti in meno di Hillary Clinton. Trump si presenta come un populista, ma è Hilary Clinton ad aver avuto i voti della classe operaia, delle persone con un reddito annuo di 30.000 dollari o meno. Trump invece ha avuto i voti di chi guadagna 50.000 dollari in media. Poi ha avuto la maggioranza dei voti dai bianchi, il 64 percento di uomini e 53 percento di donne, ma in realtà sono quelli che non hanno votato per nessuno dei due candidati ad aver favorito l’elezione di Trump. Tuttavia al momento la popolazione americana è costituita per due terzi da persone di colore, e ci sono tantissimi giovani che a breve raggiungeranno l’età minima per votare, quindi sono certo che saranno loro a portare gli Stati Uniti al cambiamento definitivo. Questi sono gli ultimi giorni di un dinosauro morente, dell’uomo bianco che da sempre ha deciso la nostra storia”.

Ma come si è giunti a questo punto della storia? Qual è stata, secondo Moore, la funzione e la responsabilità dei media rispetto a un’informazione soverchiata dal puro intrattenimento, e da un leader politico che ha utilizzato la televisione come un teatro in cui inscenare i suoi numeri più esilaranti e guadagnare popolarità? “I media hanno avuto un grosso ruolo nell’instupidire la gente. Sono rimasto molto deluso dal comportamento della stampa nel novembre 2016. Secondo il New York Times Trump aveva il 15 percento di possibilità di vincere, eppure abbiamo visto tutti come è finita. I media purtroppo vivono nella loro bolla, non parlano con la gente e raccontano solo quello che vogliono. Inoltre Trump è un ottimo intrattenimento da tabloid e una gallina dalle uova d’oro per riviste e trasmissioni televisive, in cui ogni sua affermazione, anche la più paradossale esplode e fa notizia. La gente non è intelligente, bisogna prenderne coscienza. E questo deriva dal fatto che negli ultimi tre decenni le scuole sono state praticamente rase al suolo. Sono stati sottratti tanti soldi all’istruzione, soprattutto all’università. Ma se si chiudono le biblioteche e si consente alle multinazionali di controllare i media, si finisce col rincretinire la nazione, e questo la porta ad eleggere persone che abbiamo in questo momento al governo. E non è un caso che in Italia ci siano leader come Berlusconi e Salvini. Sono qui da cinque giorni e ho guardato molta televisione italiana. Non parlo l’italiano ma capisco le immagini e, come negli Stati Uniti, ho visto che alle persone la politica viene presentata come intrattenimento. Gli italiani trovano divertenti Dalvini e Di Maio, così come accade in America con Trump, ma non c’è nulla di divertente in ciò che fanno. E mi dispiace, ma la colpa di tutta questa situazione è della sinistra, che ha pensato per batterli fosse meglio spostarsi più verso il centro. Si pensava che per battere Berlusconi o Salvini non fosse una buona idea essere troppo di sinistra, e noi abbiamo commesso lo stesso errore. Invece persone come Trump o Berlusconi vengono votati perché si presentano per quello che sono, con il loro errori, proprio come Bush, che si vantava di aver studiato poco di sapere poco e per questo suscitava simpatia e consensi in coloro che si riconoscevano nel suo modello. Il paradosso è invece che mio padre era un operaio, ma votava per JFK perchè in lui vedevano una persona che aveva studiato, una persona preparata, che grazie al suo intelletto e alla sua cultura avrebbe potuto guidare al meglio gli Stati Uniti. La sinistra si deve rimpadronire del suo partito, altrimenti avremo un nuovo fascismo, che non avrà svastiche e campi di concentramento a contraddistinguerlo, ma un sorriso in uno show televisivo”.

Se il momento politico che stiamo attraversando è uno dei più bui mai vissuti, negli Stati Uniti così come in Italia, anche la settima arte  risente di questa situazione, respira l’oscurantismo e si svaluta, privilegiando il mero intrattenimento a scapito della qualità. “Sono preoccupato per la condizione in cui versa il cinema oggi – continua Moore – negli Stati Uniti è raro vedere film stranieri, anche europei. Per questo mi sono impegnato in prima persona per consentire alle persone della mia città, Flint, di andare al cinema. Il cinema è l’arte del popolo, la più accessibile economicamente, visto che un evento sportivo o o un concerto arrivano a costare più di cento dollari, mentre il cinema costa dieci volte meno. Sono vissuto in una città industriale, in cui non esisteva la cultura del cinema, eppure da ragazzino ho visto i film di Fellini e di Kurosawa, e questo mi ha insegnato molto su come si vive in altre parti del mondo. Vivo in un paese in cui il 70 percento delle persone non ha un passaporto, e questo vuol dire che non ha mai avuto l’opportunità di viaggiare. In un contesto del genere il cinema è l’unica porta sul resto del mondo e dobbiamo impegnarci per far vedere film che vengono da ogni parte del mondo, perché è così che si crea maggiore consapevolezza e si evitano le decisioni basate sull’ignoranza. Voi italiani però dovete impegnarvi a fare cinema di valore come quello avete fatto negli ultimi cento anni. Meno spazzatura e più arte”.

Michael Moore conclude il suo intervento invitando l’Italia a fare un passo indietro e a ritrovare se stessa nella storia che sembra aver dimenticato e nell’arte che l’ha resa grande in tutto il mondo. “Nel 1990 quando sono venuto in Italia sono stato intervistato dall’Unità, che all’epoca vendeva un milione di copie e che ora non esiste più. Ricordo di essere rimasto colpito di quanto interesse potesse suscitare una rivista così dichiaratamente schierata. Ora invece mi sembra che la situazione si sia capovolta. Salvini, che è ora al governo, è fondamentalmente un razzista. So che l’Italia ha grandi problemi con l’immigrazione a causa della sua posizione nel Mediterraneo, e mi duole dire che anche il mio è un paese razzista e che non ha dato il suo contributo in questo senso. In italia però ci sono tante persone intelligenti, abbastanza da definire Salvini bigotto, razzista e omofobo. Voi in quanto italiani avete dato tanto al mondo, non solo con l’arte, il cinema e la letteratura ma anche con il cibo, per il modo in cui trattate le cose e nutrite il vostro corpo. Per questo mi intristisce profondamente vedere quello che è successo al vostro paese, tornate ad essere l’italia per favore, e con questo non intendo affatto ‘l’Italia prima di tutto’, ma soltanto l’Italia”.

BlacKkKlansman, di Spike Lee

Vincitore del Grand Priz della Giuria a Cannes 2018, BlacKkKlansman di Spike Lee rappresenta una nuova maturazione della poetica del regista di Atlanta. Dopo le prove non certo idilliache degli ultimi anni – è sufficiente ricordare Red hook summer o Il sangue di Cristo, senza arrivare al povero remake di Old boy, mai perdonato dai veri fan del Maestro – con BlacKkKlansman, si ritorna alle tematiche sociali raccontate attraverso storie solo all’apparenza banali e ad un’estetica non più esasperata fino all’insopportabile eccesso, ma funzionale alla trama e, soprattutto, al messaggio che si vuole veicolare attraverso il film. Un messaggio che ha l’effetto di uno schiaffo ben assestato in un turbinio di risate: zittisce ogni superficiale commento populista e fa riflettere anche dopo i titoli di coda. Purché si abbia un cervello, logicamente.

La storia di un poliziotto che deve sgominare i complotti di un’organizzazione criminale è un plot come tanti, tantissimi film, forse migliaia.

Ma aggiungiamo che il poliziotto in questione sia afroamericano e che il Male da sconfiggere sia il famigerato Ku Klux Klan (KKK): ecco che il materiale che può far gola allo Spike Lee di capolavori come Fa’ la cosa giusta e Clockers inizia a prendere forma e a risvegliare quella coscienza forse sopita a causa di un’ispirazione non pervenuta.

Poniamo, poi, il caso che questo detective senta in sé una missione, frutto di un mix di inconscia ambizione e di assurda incoscienza:

Per combattere in prima linea la discriminazione razziale, Ron Stallworth [John David Washington] non è solo determinato ad essere il primo afroamericano ad entrare nel corpo di polizia di Colorado Springs. Vuole realizzare un’impresa mai neanche tentata prima di quel fatidico 1979: ottenere la possibilità di infiltrarsi tra le fila del KKK per smascherare le loro macchinazioni sotto traccia e la copertura politica di cui hanno sempre tacitamente goduto. Per uno come lui, dalla parlantina spigliata e dalla battuta pronta, basta una telefonata, ma una volta ottenuta telefonicamente la fiducia come può presentarsi di persona? Occorreva inventarsi qualcosa di valido ed il colpo di genio, in realtà vecchio come una commedia di Plauto o Terenzio, è la sostituzione, il classico scambio di persona. Così ad entrare in scena al posto suo sarà il collega Flip Zimmerman [Adam Driver], ebreo non praticante, innescando un crescendo di tensione man mano che si disinnescano gli equivoci e si scoprono i piani del nemico.

«Mi sento continuamente come fossi due persone».

Nel frattempo, su un fronte che più parallelo e in contrasto non si può, Ron è impegnato ad indagare sui piani di “rivoluzione” del comitato studentesco del Colorado College, dove una bella quanto forte presidentessa, Patrice Dumas [Laura Harrier], promuove attivamente il Black Power e i comizi di Stokely Carmichael [Corey Hawkins], il leader carismatico del gruppo. Un’organizzazione “alla luce del sole” per la rivendicazione dei diritti della popolazione afroamericana contrapposta ai fautori del White Power, della supremazia bianca, del nazionalismo bianco o come lo si voglia chiamare per dire “razzisti anacronistici e ignoranti”, con il loro cosiddetto “impero invisibile”, capeggiato da un David Duke che, nell’interpretazione di Topher Grace, risulta non meno misero, goffo e insignificante dell’originale dietro quella sua maschera da semplice e pacifico cittadino americano. Il David Duke di BlacKkKlansman è un personaggio che si fa portavoce di tutta quella retorica della politica di Donald Trump, criticata anche nelle immagini di repertorio presenti nell’inserto che conclude il film.

«L’America non eleggerebbe mai uno come David Duke».

Se a questo punto vi svelassero che il film è tratto da una storia vera, che la sceneggiatura è stata costruita a partire dal libro del detective Ron Stallworth, pubblicato nel 2014 proprio con il titolo Black Klansman? Da non credere? No. Ormai, dopo tante esperienze di biopic, mockumentary e meta cinema ci siamo desensibilizzati al punto da non lasciarci impressionare più di tanto. Ma questo, in fondo, più che alla trama giova al messaggio, veicolato ovviamente dall’intero film ma reso esplicito soprattutto da un inserto cinematografico, inteso come insieme d’immagini estraneo allo spazio e al tempo diegetico.

«This joint is based upon some fo’ real, fo’ real shit».

Questa trama, già di per sé estremamente pregna di significanti più o meno evidenti e spunti di riflessioni da trascorrerci ore, è infatti racchiusa in due inserti collegabili “solo” ideologicamente ad essa ed al messaggio insito in essa. Nell’incipit Spike Lee propone un cameo molto particolare: Alec Baldwin [The cooler, Zona d’ombra, Getaway], che ha già abbondantemente ridicolizzato Trump con la sua imitazione da antologia al Saturday Night Live, interpreta un senatore razzista ripreso in stile mockumentary nell’atto di registrare un discorso di propaganda elettorale: mentre esalta i presunti «valori dei bianchi protestanti» e demonizza parità, integrazione e matrimoni misti, viene proiettata sulla sua figura qualche scena del film Nascita di una nazione, di David Wark Griffith, una delle opere più importante della storia del cinema mondiale per aver introdotto e diffuso le regole del montaggio analitico con i suoi raccordi sull’asse, sullo sguardo, sugli oggetti e sui movimenti creando quello che poi è diventato un vero e proprio linguaggio tecnico. Il caso, o più probabilmente, un’assurda macchinazione alle spalle del regista, ha voluto che proprio quando le scene si facevano più dense sul piano tecnico-formale, la trama – si tratta, infatti, del primo film narrativo della storia – deviasse verso un risvolto nichilista, sottolineato dal primo montaggio alternato in parallelo, ponendo i membri incappucciati del KKK nella parte dei cavalieri salvatori della patria in contrapposizione ai neri visti come delle bestie senza regole e senza cultura. Sin dalle prime proiezioni il film ispirò proteste, disordini, persino omicidi. Si dice addirittura che da allora il KKK sia rinato a nuova vita. Profondamente turbato Griffith girerà subito Intolerance che condannava ogni forma di violenza e intolleranza, ma ormai il potere del medium di massa aveva avuto i suoi effetti devastanti.  In BlacKkKlansman, Spike Lee prende coraggiosamente posizione nei confronti di chi continua a strumentalizzare i media e diffonde un nuovo messaggio In questo senso potrebbe essere considerato il capolavoro assoluto del regista, il film della maturità acquisita, come avremo modo di analizzare tra poco. Tornando agli inserti, quello finale, invece, è un vero e proprio schiaffo che risveglia le coscienze: un montaggio giustapposto di immagini di repertorio in cui si documentano gli scontri di Charlottesville che hanno portato alla morte di Heather Heyes e i commenti imbarazzanti e fuoriluogo di Donald Trump e David Duke, quelli reali, ed è davvero il caso di aggiungere un “purtroppo”.

«Mi serve il fascicolo di un “ROSPO».

A parte il cameo del regista, l’ambientazione a Brooklyn e gli end credits evocatici, che stavolta si sarebbero rivelati fuoriposto, tutta la poetica, lo stile e le ossessioni di Spike Lee tornano in questo memorabile BlacKKKlansman. E la maturità sta nel fatto che ogni cifra stilistica o elemento poetico è funzionale alla trama o all’intreccio.

Per quanto riguarda la POETICA:

  • tematiche sociali, in questo caso alleggerite dai temi del doppio, dello scambio di identità e della loro negazione, il mimetismo (da attribuire forse più ai coproduttori Jordan Peele (regista di Scappa – Get out) e Jason Blum della Blumhouse Production (La notte del giudizio – Election year, The visit);
  • lotta al razzismo;
  • personaggi femminili forti;
  • attenzione ai dialoghi, mai banali, ma casomai referenziali o autoreferenziali;
  • attenzione nella scelta della musica, sempre ricercata e significativa (Too late to turn back now, per fare un esempio su tutti)
  • citazioni culturali, cinematografiche, metacinematografiche e riguardanti l’attualità.

Le SCELTE STILISTICHE prevedono:

  • fotografia caratterizzata da colori saturi, senza eccedere stavolta;
  • contrasti marcati, stavolta meno “rumorosi” rispetto al solito.

Fino ad arrivare alle cosiddette “CIFRE STILISTICHE” che diventano delle firme personali dell’autore:

  • attori che parlano verso la mdp e relativo sfondamento della parete “proibita”;
  • la famosa “wake-up-call”, la telefonata che sveglia, immancabile;
  • il “double-dolly-shot”, anch’essa immancabile: si tratta di una sequenza in cui il personaggio è inquadrato con un piano ravvicinato, mentre è immobile sul carrello in movimento. Il risultato è uno straniamento dello spettatore che percepisce l’immobilità del soggetto rispetto al cambiamento dello sfondo intorno.

John David Washington [The Old Man & the Gun, Love Beats Rhymes, Malcolm X], ex giocatore di football americano ma, soprattutto, figlio di quel Denzel Washington [Barriere, The equalizer, I magnifici 7] che è stato protagonista di parecchi Spike Lee’s Joint [Malcolm X, Inside man, He got game], ha conquistato pubblico e critica, donando al suo personaggio la spavalderia tipica della sua gente e il posato raziocinio dell’eroe senza macchia e senza paura che occorreva per rendere più evidente il contrasto tra tematica e messa in scena e tra i toni della commedia e la realtà drammatica dei fatti.

«Improvvisa! Come nel jazz!».

Oltre ai già nominati Adam Driver [L’uomo che uccise Don Chisciotte, Star Wars: Il risveglio della forza, Star Wars: Gli ultimi jedi], Topher Grace [Interstellar, Truth – Il prezzo della verità, Spider-Man 3], Laura Harrier [Spider-Man: Homecoming, Fahrenheit 451 serie tv], Corey Hawkins [Straight outta Compton, Iron Man 3, Kong: Skull Island], del cast, fra new entry e vecchi amici, fanno parte anche Ryan Eggold [La scomparsa di Eleanor Rigby, Padri e figlie, 90210 serie tv], Jasper Pääkkönen [Vikings serie tv], Robert John Burke [Miracolo a Sant’Anna, Person of interest serie tv], Ken Garito [S.O.S. – Summer of Sam], Paul Walter Hauser [Tonya], Ashlie Atkinson [The wolf of Wall Street, Inside man].

A completare il cast due fratelli d’arte. Uno è Michael Buscemi [Animal factory, Insieme per forza] il fratello del più famoso Steve Buscemi. L’altro è una vecchia conoscenza del regista e presente in Fa’ la cosa giusta, Mo’ better blues, Jungle fever e Malcolm X. Si tratta di Nicholas Turturro, fratello di John Turturro, che ha quel ruolo che sin dalla tragedia greca viene definito deus ex machina, ovvero un personaggio, il più delle volte una divinità, che compare improvvisamente sulla scena per dare una risoluzione ad una trama ormai irrisolvibile secondo i classici principi di causa ed effetto; tale espressione è ora, di fatto, assunta per indicare un evento o un personaggio che risolve inaspettatamente la trama di una narrazione, al punto di apparire altamente improbabile o come il risultato di un evento fortuito.

Cameo fondamentale inoltre quello affidato ad Harry Belafonte su un montaggio alternato che crea un parallelo tra il suo intervento all’incontro con gli studenti afroamericani ed il “battesimo” dei nuovi adepti suprematisti del KKK. Un montaggio alternato che può scolpirsi nella memoria come quello de Il padrino, sempre con un battesimo di mezzo, stavolta il rito cristiano è per un neonato, abbinato all’ascesa al potere del nuovo boss.

Dopo la standing ovation di sei minuti, e il premio ovviamente, a Cannes 2018, BlacKkKlansman ha ricevuto un’ottima accoglienza anche negli Stati Uniti, complice anche la scelta di farlo uscire il 10 agosto, anniversario di Charlottesville.

«– Test della verità? Colpi di pistola? Volete coglionarmi? è un dannatissimo bordello! Aaah… teste di cazzo! Mi prendete per il culo? Tu mi stai intortando, tu mi stai intortando, il capo me lo sta mettendo in quel posto: è una grande inculata collettiva! Vi fa ridere? perché se Bridges lo viene a sapere, tutta questa cazzo di operazione verrà chiusa. Sì, fa ridere… E io verrò mandato davanti a una scuola del cazzo nel fottuto ghetto di Five points!
– Ma lo verrà a sapere, Sergente?
– Verrà a sapere che cosa? (buttando il fascicolo in un cassetto)».

BlacKkKlansman è una black comedy dove il riso diventa amarissimo con lo schiaffo della realtà dei fatti di Charlottesville. Per l’intero film si può ridere con le lacrime agli occhi ma sui titoli di testa, viceversa, non ci è permesso piangere con il sorriso: è un pianto di rabbia.

«Non volevo certo che la gente uscisse dal cinema ridendo».

Quello che per altri film di genere costituirebbe l’obiettivo finale, in BlacKkKlansman si trasforma in pochi secondi nel setting di un’altra storia ben più profonda (il riferimento è all’accettazione senza precedenti di un afroamericano nella polizia di Colorado Springs). Il tema del razzismo, tanto caro a Lee, si unisce a quello dell’emancipazione, creando una fitta rete di rimandi. Così il discorso non si limita all’accettazione di un nero nella polizia, ma diventa lotta contro quell’impero invisibile che, celato dietro una maschera da rispettabili membri di una società in giacca e cravatta che non ammette intrusioni esterne, estranee – nemiche, ostili come si tramanda nel termine latino hostes – al loro circolo chiuso, che reputano virtuoso così com’è. Nemmeno le donne vi sono ammesse. Le loro donne. La critica di Spike Lee alla società attuale passa attraverso quest’ambientazione anni ’70, prende come pretesto la storia di Ron Stallworth e poi la trascende, spingendosi a sovrapporre parallelismi forti: l’ebreo non praticante che si trova a dover difendere le proprie origini in un ambiente ostile; l’afroamericano che viene emarginato dai suoi stessi fratelli in quanto poliziotto; il poliziotto nero che deve sentirsi bullizzato nel suo ambiente di lavoro dai suoi stessi colleghi; la donna che non risulta mai abbastanza credibile come sesso forte o che non avere pari opportunità reali sulla scena politica – o terroristica, per giunta! – se non in ruoli secondari, da gregario.

«Sono abbastanza rispettoso per te, agente “ROSPO”?».

BlacKkKlansman è una black comedy dove l’aggettivo non indica il colore della pelle: dietro la farsa, dietro le risate, seppur spesso amare, si fa largo una riflessione profonda sul senso di appartenenza ad una comunità e ad una nazione che finalmente siano unite ed emancipate da ogni forma di intolleranza, sul confine che deve esistere tra rivendicazione dei diritti e terrorismo e su tanti elementi che sembrano insignificanti se non si guarda il quadro generale: la blaxploitation operata dal cinema negli anni ‘70/’80 [si citano Cleopatra Jones, Coffy, Superfly e Shaft, complici, come Tarzan e Via col vento, nella diffusione di dinamiche sociali sbagliate o distorte] o i luoghi comuni che stentano a scomparire sono additati da Lee alla stessa stregua dei discorsi assurdi dei suprematisti bianchi, perché contribuiscono a diffondere immagini che danneggiano il popolo afroamericano. La critica non si limita, quindi, a demonizzare il succitato Nascita di una nazione di Griffith, ma si allarga a puntare il dito sul potere che i media esercitano sulla massa, sulla politica, che è troppo spesso un ulteriore modo di vendere odio, sull’irrazionalità che c’è dietro certi discorsi, certe spiegazioni, sulla giustizia che non esiste senza la verità e su una verità soggettiva che non può generare una giustizia violenta e sommaria. Mai.

Curioso che Adam Driver sia contemporaneamente nelle sale cinematografiche italiane con L’uomo che uccise Don Chisciotte di Terry Gilliam, che tocca alcune tematiche simili: la ricerca di una reale verità e il forte condizionamento – un rumore, un disturbo sarebbe meglio dire – dei mass media sull’opinione del pubblico e sui suoi desideri di felicità.