Festa del Cinema di Roma 2015

Festa del Cinema di Roma 2015 – Alaska, di Claudio Cupellini

Fausto e Nadine, entrambi soli al mondo, si conoscono sul tetto dell’esclusivo Hotel Ritz di Parigi, aspirante maître lui, aspirante modella lei. Una storia d’amore che nasce all’improvviso ma che, altrettanto immediatamente, si trova a dover affrontare ostacoli di varia natura.
Fragilità, solitudine e ossessioni dettano scelte che avvicinano e allontanano. Scelte che sembrano dettate dalla Teoria del Caos: ogni tentativo di cambiamento dello stato iniziale da parte dei protagonisti genera conseguenze tragiche per loro stessi o per chi è in relazione con loro. Si tratta di quello che in fisica è conosciuto come Effetto Farfalla. L’intera trama si svolge secondo questa legge di causa-effetto, immersa profondamente in un sistema deterministico in cui nulla avviene per caso e tutto accade secondo ragione e necessità. Come in una canzone di Francesco Renga, sembra che la felicità risieda nell’accettazione che non si possa diventare quello che non si è. Così cambi di direzione, abbandoni insopportabili, episodi drammatici sembrano solo fenomeni passeggeri nel bel mezzo di un vortice di forze ostili ai personaggi del film. Ogni stato di separazione spinge ad un’unione, da ogni stato di sopravvivenza si giunge a tentativi di evasione in cerca di miglior fortuna, che generano puntualmente una nuova, forzata, separazione che mette alla prova il desiderio di unione di Fausto e Nadine. Interessante, poi, come per ogni tentativo di fortuna dei protagonisti ci sia una vittima sacrificale, immolata su una bilancia del destino in perenne disequilibrio in un mondo ostile. Lo stesso accade per questo schema narrativo caratterizzato dalla continua e simmetrica alternanza di stati: la scelta di concludere la struttura ad anello sacrifica la sorpresa dello spettatore perché capito il meccanismo, svelato il finale.

Il film sembra voler affermare che la vita sia un’alternanza di situazioni fisse, tale e quale all’alternanza di schemi narrativi che struttura il film e che, per quanto un personaggio possa intraprendere un viaggio dell’eroe più o meno fortunato, alla fine del percorso formativo, la felicità risieda nella consapevolezza di sé e dei propri mezzi, nel comprendere e accettare la propria condizione di base: non a caso la celebre sentenza “conosci te stesso” è iscritta sul portale del santuario di Apollo a Delfi, sede del famoso Oracolo, un essere considerato in grado di fornire consigli, di predire il futuro e guidare il destino degli uomini.

Una riflessione di Nadine sottolinea come alla mala sorte dell’uno corrisponda la fortuna dell’altra, come se le due esistenze non possano mai trovarsi in equilibrio sulla bilancia del destino. Lo stesso disequilibrio lo ritroviamo nelle scelte registiche che vanificano un po’ il gran lavoro della sceneggiatura.
Non scegliendo un punto di vista, non fornendo una morale, la regia non prende posizione e costringe pure lo spettatore a vagare da un personaggio all’altro, disperdendo un po’ l’attenzione. Incoerente, seguendo questo ragionamento, l’insistenza del regista su piani ravvicinati e macchina a mano che servono a coinvolgere emotivamente lo spettatore, ad esternare la psicologia dei personaggi, proprio l’esatto contrario dell’oggettività professata dalla sospensione di un qualsiasi giudizio. Probabilmente non c’è stata un’unione di intenti regia-sceneggiatura adeguata a costruire un progetto ben ponderato in grado di generare un prodotto di altissima qualità estetica. Probabilmente non c’era altro obiettivo se non il caricare di enfasi una recitazione già nettamente soddisfacente. Da sottolineare l’intensità recitativa di Elio Germano. Astrid Bergès-Frisbey, ex-sirena della saga dei pirati di Verbinski, se la cava bene al suo fianco, ma chissà come sarebbe stato diverso vedere Alba Rohrwacher nei panni di Nadine, come annunciato all’origine del progetto!

Presentato alla Festa del Cinema di Roma 2015, il nuovo film di Claudio Cupellini, che inizialmente doveva intitolarsi I principianti, è un dramma romantico come tanti altri che non risplende e non affascina. Ci si aspettava molto di più da un prodotto ritenuto di notevole interesse culturale nazionale tanto da meritare un budget di centinaia di migliaia di euro stanziato dalle regioni Lombardia e Alto Adige e dal MIBACT, senza contare la coproduzione francese. Un budget di tale entità dovrebbe generare prodotti cinematografici di qualità ben superiore, da proporre in contesti ben più illustri. Tanto rumore per nulla.
Cupellini cerca, in extremis, di inserire elementi culturali d’effetto. Un esempio su tutti: la romanza “Ebben? Ne andrò lontana” tratta da “La Wally”, opera lirica in quattro atti di Alfredo Catalani, in cui Wally preferirebbe andarsene tra le nevi alpine piuttosto che accettare le catene di un matrimonio combinato, viene utilizzata per esteriorizzare il pensiero di Fausto che doveva essere forse criptico, ma che, in realtà, era scontato da tempo. Il fatto è che non basta citare il repertorio classico per affascinare o giustificare il budget ottenuto. Non c’è epicità nell’ingannare lo spettatore.
Tutto qui il cinema italiano che lo Stato finanzia?
Alaska manca di concretezza, di finalità programmatica, di un senso di regia generale, di una voglia di uscire dagli schemi, manca di coraggio. Senza infamia e senza lode.

Festa del Cinema di Roma 2015 – La delgada línea amarilla, di Celso García

Cinque uomini devono tracciare la linea che separa i due sensi di marcia di una strada che unisce due cittadine del Messico. Separazione e unione sintetizzano in due parole il percorso di formazione che i cinque operai si trovano ad intraprendere in questo particolare road movie. Cinque uomini solitari in necessità di denaro, cinque modi di vivere differenti, ognuno generato da percorsi di vita diversi. Per tutti il passato è un pesante fardello che soffoca il presente, ostacolando le relazioni umane: Antonio “Toño” è pieno di rimorsi per il lavoro e per la famiglia, avrebbe voluto morire in un incidente in cui sono morti i suoi colleghi, è separato e ha smesso dopo 15 anni di cercare il figlio emigrato negli States; Mario è stato in galera per furto e non sa fare altro; Gabriel guidava camion ma ha bisogno di operarsi agli occhi; Atayde, all’apparenza spensierato e fanfarone, è un ex-circense e rimpiange il suo vecchio lavoro; Pablo, l’outsider in mezzo a tanti pesci fuor d’acqua, è un ragazzetto pronto a fare qualsiasi sacrificio pur di rimediare i soldi che gli occorrono per raggiungere il fratello negli Stati Uniti. Tutti hanno smarrito in qualche modo la strada e cercano una nuova via per sollevarsi: una via di 217 km da completare in 15 giorni lavorando in squadra. Una sfida che si trova al crocevia del loro destino. Una linea che fa da guida per chi la percorre ma che diventa di fatto una guida anche per chi la realizza.

Interessante come i dialoghi siano spezzati, permeati di rimozione, di frustrazione. In ogni scambio di battute è chiara una reticenza a parlare dei propri problemi. Man mano che si lasciano indietro chilometri, però, queste barriere psicologiche di difesa crollano. La linea gialla diviene allegoria di una felicità raggiungibile. Strumento e personificazione di quest’allegoria è, a sorpresa, il più giovane del gruppo: sebbene abbia molto da imparare sul lavoro, Pablo, con le sue azioni da anima candida e con la sua voglia di leggerezza, dà lezioni di benevolenza, di lealtà, di condivisione, funge da collante per il gruppo e conquista così il centro della scena. La sua curiosità unisce. La differenza d’età, e di vedute, separa. Di nuovo questo forte contrasto da vincere. Di nuovo è il viandante più giovane quello che ha il consiglio più saggio. Con il suo walkman sempre pronto a salvarlo da un mondo dominato dalla depressione, Pablo ascolta una musica carica di speranza, lasciatagli dal fratello, una musica che lo protegge dal male di vivere, che alleggerisce ogni tensione, che guida verso un domani migliore. Contagiosa come un virus, la speranza viene trasmessa, insieme con la musica, di mano in mano e dimostra che un sorriso può essere sempre più forte di una lacrima.

Una storia magari non originalissima ma senza difetti, personaggi molto approfonditi psicologicamente e messaggi importanti, delicatamente celati nel sottotesto ed elegantemente veicolati, più che da parole, da immagini ben ponderate, che dialogano direttamente con il cuore dello spettatore.

Festa del Cinema di Roma 2015 – Incontro con Jude Law

L’attore britannico, in trasferta a Roma per girare la miniserie diretta da Paolo Sorrentino, The Young Pope, ha incontrato il pubblico della Festa del Cinema di Roma, ripercorrendo la sua carriera cinematografica attraverso una carrellata di clip tratte dai film che ha amato di più.

L’esperienza al fianco di Steven Spielberg in A. I. Intelligenza artificiale è stata una delle più significative della sua carriera. Come è stato lavorare con questo straordinario regista?
Jude Law: La sceneggiatura era stata scritta da Stanley Kubrick, e era un progetto a cui lui teneva particolarmente, purtroppo però non aveva fatto in tempo a girarla, e stava a noi celebrare la sua memoria.  Spielberg è un regista estremamente disponibile e considera i suoi attori non solo come ingranaggi di una grande macchina, ma come veri protagonisti del film che sta girando, ed è pronto ad accogliere suggerimenti e idee per mettere in scena al meglio i personaggi.  Inoltre Spielberg è uno dei miei registi preferiti. Ricordo che quando da bambino guardavo Incontri ravvicinati del terzo tipo questo film mi terrorizzava, ma quando l’ho rivisto da adulto, da padre e poi da attore è cresciuto sempre di più, mostrandomi sempre più chiaramente il legame imprescindibile tra normalità e fantasia.

In molti dei suoi film ha interpretato personaggi della letteratura così come realmente esistiti. Come si prepara per affrontare questi ruoli?
Jude Law: Se indietro nel tempo a quando ho iniziato a recitare, ricordo che all’epoca lavoravo di istinto, poi però ho capito che la parte migliore del lavoro è proprio quella di studiare il personaggio e l’opera da cui è tratto il personaggio, ed entrare nella storia. Come attore ho la possibilità di costruire la mia interpretazione in questo modo, ma non è una strategia universalmente valida, perché ciò che conta per il regista è il risultato finale, indipendentemente dalla strada che si percorre per raggiungerlo, e anche l’istinto in questo senso può essere di grande aiuto. Per Anna Karenina per esempio ho iniziato dalla lettura della sceneggiatura, scritta da Tom Stoppard, per poi ritrovare nel libro tutti gli elementi che avevo visto nel film, che in più si concentrava sull’aspetto intimistico della storia.

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È più divertente interpretare un personaggio simpatico come in Sherlock Holmes o antipatico come in Sleuth?

Jude Law: Non si giudica mai un personaggio, anche perché nessun cattivo si ritiene tale, e anche i buoni hanno dei lati oscuri e così come i buoni delle sfumature d’ombra. In realtà mi sento molto fortunatoperchè mi sono divertito in tutti i film che ho fatto, grazie anche alle persone con cui ho lavorato. E poi se non mi divertissi a fare ciò che faccio sarebbe preoccupante. Inoltre l’esperienza di Sleuth per me è stata la realizzazione di un sogno perché mi ha dato la possibilità di lavorare con Michael Caine, che io ammiravo molto, in un film scritto da Harold Pinter e diretto da Kenneth Branagh. Non potevo desiderare di più.

Qual è il film che ami di più?
Jude Law: Senza dubbio scelgo La morte corre sul fiume di Charles Laughton, un film che mi ha fatto vedere mia madre quando da adolescente ho iniziato ad appassionarmi alla recitazione e da lì è nato il mio amore assoluto per il cinema. Io sono molto legato al teatro e alla magia che si si crea attorno a questa forma di spettacolo e credo che la teatralità poco usata nel cinema, perché ci si concentra troppo sulla verisimiglianza. Questo film invece crea il giusto equilibro tra la storia cupa e l’involucro fiabesco in cui è inscritta, e questo si evince nella famosa scena in cui la barca scivola sul fiume e l’obiettivo si sofferma sulle creature della notte che lo circondano.

Festa del Cinema di Roma 2015 – Incontro con Ellen Page

Attrice candidata all’oscar e grande sostenitrice della comunità GLBT americana, Ellen Page è volata a Roma insieme al regista Peter Sollett per presentare Freeheld,  il film manifesto della lotta per l’uguaglianza dei diritti delle coppie di fatto, basato sull’omonimo cortometraggio di Cynthia Wade.

Come si è preparata per questo ruolo?
Ellen Page: Per quanto mi riguarda, l’aspetto più interessante di questo lavoro è stato passare del tempo con la vera Stacie Andree, per comprendere a pieno la sua storia, dai tempi dell’innamoramento con la poliziotta Laurel Hester alla battaglia legale delle due donne per essere riconosciute come coppia.

In Italia c’è un dibattito molto vivo su questo argomento. Pensa che il film possa risvegliare le coscienze?
Ellen Page: Sì, di sicuro la speranza è quella e la storia americana più recente ne è la prova, anche se ci sono ancora 31 stati in cui gli omosessuali rischiano il licenziamento e persino di perdere la casa. Il cambiamento può avvenire e deve passare attraverso il riconoscimento della parità dei diritti. Per questo motivo spero che un numero crescente di persone si sensibilizzi a questo argomento, perché solo così si può cambiare davvero.

Nei personaggi che interpreta molto spesso si parte da storie personali per parlare di temi universali. Quanto di tutto questo fa parte della sua personalità?
Ellen Page: La scelta dei ruoli non è cambiata molto in questi anni e così il mio desiderio di farne parte. Quando vedo una storia vera ed emozionante la scelgo all’istante, ma la questione dell’uguaglianza dei diritti poi mi tocca più di qualunque altra cosa.

A Hollywood quanto è difficile fare coming out?
Ellen Page: Prima di dichiarare la mia omosessualità non mi sentivo libera di essere me stessa e per questo ero triste, chiusa, e sicuramente meno ispirata, mentre ora sono molto più felice. Quello che mi auguro è che ci siano sempre più persone pronte a superare questa paura e di essere io stessa di ispirazione per le generazioni più giovani che si sentono prigioniere della loro identità. D’altro canto le persone come Laurel e Stacie, con la loro libertà e determinazione, ispirerebbero chiunque e sono un esempio formidabile per chi fa parte della comunità LGBT.

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Come è stato lavorare con Julianne Moore?
Ellen Page: Naturalmente lavorare con Jullianne è stato speciale. Lei è una persona molto generosa e presente e io mi sento molto fortunata ad averla conosciuta. Lei crede molto dall’uguaglianza e come me anche lei si è sentita profondamente toccata dalla storia di Laurel e Stacie.

In italia c’è una parte della comunità LGBT che partecipa ai pride e una contraria a questo esibizionismo, lei come si pone a riguardo?
Ellen Page: In qualsiasi movimento ci sono opinioni tattiche e metodologie diverse. Il gay pride è molto importante per le persone che non hanno la possibilità di esprimersi e rappresenta un’opportunità unica per manifestare liberamente la propria sessualità. A me piace moltissimo, ma è giusto che siano modi diversi di praticare l’attivismo.

Nei film parli di sogni. Ma qual è il tuo sogno?
Ellen Page: I miei sogni sono molto simili a quelli di Stacie, dopotutto sono una romantica e ciò che vorrei è semplicemente vivere la mia vita con qualcuno a fianco, e viaggiare incessantemente.