Joaquin Phoenix

Joker, di Todd Phillips

Joker di Todd Phillips, ovvero “l’elogio della pazzia criminale”.

«Qualsiasi cosa siano soliti dire di me i mortali, e infatti non sono così sciocca da non sapere quanto si parli male della follia anche da parte dei più folli, tuttavia sono io, io sola, ve lo posso garantire, che ho il dono di riuscire a rallegrare gli dèi e gli uomini. Eccone la prova: non appena mi sono presentata a parlare dinanzi a questa numerosa assemblea, tutti i volti si sono improvvisamente illuminati di una certa nuova e insolita letizia; subito le vostre fronti si sono spianate, subito mi avete applaudito con una risata così lieta e amabile che mi sembra di trovarmi dinanzi a un consesso degli dèi di Omero, come loro tutti ubriachi di nettare e nepente, mentre prima ve ne stavate lì seduti tutti imbronciati e tristi, come se foste appena usciti dall’antro di Trofonio».

[Elogio della follia, Erasmo da Rotterdam]

Joker è tutto giocato sulle aspettative – tradite e soddisfatte – e questo, a seconda del punto di partenza, può voler dire consenso o disapprovazione. Il regista Todd Phillips [Trafficanti, A Star Is Born] ottiene successi planetari di pubblico con dei buddy movie fondati sulla comicità, la trilogia di Una notte da leoni e Parto col folle, e si cimenta inaspettatamente con la genesi di un villain che è prima di tutto un personaggio controverso e mentalmente deviato e che trova reazione alle sue sofferenza in una violenza ingiustificata. Aspettative di riuscita dubbie, nonostante avesse all’attivo anche il successo di A star is born, ma tradite in positivo: il film, per quanto generi discussioni infinite sulla possibile emulazione della violenza, è di notevole interesse, ben costruito e ha ottenuto traguardi importanti.

Joker ha conquistato il Leone d’oro alla 76ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, ha vinto due Golden Globe e due premi Oscar su ben undici candidature, record per l’edizione 2020. È ormai nella storia, inoltre, come la prima pellicola basata su un personaggio DC Comics a concorrere in qualità di miglior film. Prima di Joker solo Black Panther [Marvel] aveva concorso per la stessa categoria.

Per non disattendere, invece, le aspettative dei lettori di Batman, bisogna premettere che questo film su Joker in nessun modo è collegato o collegabile al DC Extended Universe e che non ci si deve approcciare alla visione di questo film come un cinecomic di tipo classico. Sarebbe sbagliato senza “se” e senza “ma”.

La figura di Joker va al di là del personaggio stesso, perché anche se inizialmente la malvagità è reazione alle aspettative tradite di inserimento sociale e di attenzione paterna, successivamente diventa seme di un’idea di rovesciamento del sistema stesso e può essere innestato in un qualsiasi altro soggetto. Né più né meno di quello che avviene in Inception di Christopher Nolan.

Joker non è, quindi, un villain come tutti gli altri checché ne dica lui stesso:

«Ecco tutto ciò che mi separa dal resto del mondo. Solo una brutta giornata!»

La sua complessità deve essere chiara anche nel momento in cui si vede il film. Per non aspettarsi né le scazzottate kitch della serie TV né i piani intricati né le bombe ad orologeria o i congegni a molla e i carillon.

La sceneggiatura a quattro mani di Todd Phillips [Oscar per la sceneggiatura non originale di Borat – Studio culturale sull’America a beneficio della gloriosa nazione del Kazakistan] e Scott Silver [nominato agli Oscar per The fighter] si basa sull’omonimo personaggio dei fumetti DC Comics, in particolare sul graphic novel Batman: The Killing Joke, scritto da Alan Moore [Watchmen] e disegnato da Brian Bolland: la storia approfondisce psicologicamente, come nessun altro albo, il rapporto anomalo e contorto che s’instaura tra il Cavaliere Oscuro e il suo più iconico nemico, permettendo così al genio visionario di Moore di apporre la sua illustre firma su una delle possibili origini del villain.

Anche per quanto riguarda la fotografia e la messa in scena in generale il Joker di Phillips mantiene lo stile grafico deciso da Bolland, costruito a partire da una delle più interessanti trasposizioni cinematografiche del periodo muto: L’uomo che ride, del 1928, liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Victor Hugo, è un melodramma storico stilisticamente riconducibile al movimento espressionista, che impressionò a tal punto gli spettatori per la crudezza delle scene, per la resa fotografica e soprattutto per l’aspetto raccapricciante del protagonista, che fu considerato a lungo un film horror. In effetti la mimica facciale di Conrad Veidt mentre è Gwynplaine è qualcosa di raccapricciante nonostante sia trascorso quasi un secolo.

Il Joker di Phillips arriva dopo le prove eccellenti dell’inquietante pazzo criminale con il volto di Heath Ledger ne Il cavaliere oscuro e del volutamente eccessivo gangster di Jared Leto in Suicide Squad, senza dimenticare nel capostipite burtoniano l’interpretazione di Jack Nicholson che ha fatto epoca, sebbene fosse fin troppo legata ad un’iconografia edulcorata da palinsesto per famiglie.

Già questo crea inevitabilmente delle aspettative che possono innescare cortocircuiti che potrebbero portare alla fuga: dello spettatore, che magari ha deciso a priori che il suo Joker di riferimento ha ormai definitivamente le sembianze del suo idolo; dell’attore, che si deve cimentare al posto di colleghi illustri, magari suoi amici, con il peso che questo comporta e le critiche che volente o nolente dovrà reggere su spalle più larghe e ben più forti di quelle che ha fornito al suo Arthur Fleck.

In quale assurdo clima di aspettative deve aver lavorato Joaquin Phoenix [Irrational man, Maria Maddalena, Don’t worry] sul personaggio!

Arthur Fleck [Joaquin Phoenix] è un uomo profondamente alienato che vive, o meglio sopravvive, come può, nella Gotham City del 1981, in un appartamento dei bassifondi con l’anziana madre Penny, ormai incapace di intendere e di volere. In una città che sprofonda giorno dopo giorno nel degrado e nella disuguaglianza sociale, Arthur lavora come clown in affitto per i negozi e con lo stesso travestimento fa servizio civile in ospedale, ma il suo più grande sogno è diventare un famoso comico ed essere ospitato in diretta al suo talk show preferito, il Live! With Murray Franklin.

L’alienazione di Arthur sarebbe sotto controllo se non avessero operato dei profondi tagli alla sanità così l’uomo si ritrova senza assistenza medica e il suo disagio mentale gradualmente si trasforma in vera e propria dissociazione: ha, infatti, un raro ma innocuo disturbo simile alla sindrome pseudobulbare, in cui il danneggiamento dei meccanismi che regolano la normale risposta emozionale della risata sono irrimediabilmente danneggiati. Il risultato filmico è una risata completamente fuori controllo, allegra solo nel suono ma disarmonica rispetto alla mimica facciale, contrita in un misto di vergogna, terrore e disperazione. Da Oscar.

A dispetto del suo rapporto conflittuale con la risata, Arthur viene chiamato “Happy” dalla madre e incoraggiato a continuare a scrivere sketch e barzellette, che non fanno ridere nemmeno lui, e proseguire su quella strada fallimentare, con l’idea che dal fondo del baratro non ci si può che sollevare, ma come e a che prezzo?

«Mia madre mi diceva sempre di sorridere e mettere una faccia felice. Mi diceva che ho uno scopo: portare risate e gioia nel mondo».

È palese come il disturbo della risata sia solo la punta di un iceberg sommerso ancora per poco. Presto diventano chiari i sintomi di una schizofrenia condita da atteggiamenti depressivi: Arthur vive in un’illusione che viaggia parallela alla realtà e ciò che muove i suoi passi è la costante ricerca dell’approvazione di una figura paterna che possa fornirgli concretezza, aderenza al mondo reale o almeno un senso di appartenenza a qualcosa di meglio della feccia in cui quotidianamente annaspa a bracciate scoordinate.

In prima istanza Arthur segue i voli pindarici della madre, convinta che il figlio sia di Thomas Wayne, ma il magnate è inamovibile. Un’altra strada impercorribile che lo porta solo ad un cancello chiuso sotto gli occhi ancora innocenti di Bruce.

Ancora, però, il protagonista non si arrende: si può tentare di essere figura paterna, anche non avendone mai avuto una, per il figlio della vicina tanto carina… ma ecco che la malattia si palesa maggiormente in lui e sullo schermo. Sale in cattedra il regista ad aiutare lo spettatore, che finora ha addirittura parteggiato per il protagonista, e lo mette nella condizione di riconoscere lo stato alterato della coscienza di Arthur e ad essere critico nei confronti di una realtà filmica sempre più distorta dal suo sguardo. Un esempio dell’intervento registico è il “fuori bolla” che riprende Arthur nel pianerottolo del condominio prima di rientrare a casa: si tratta di un’inquadratura particolare che si effettua ruotando la mdp in modo che la linea dell’orizzonte filmato non sia più parallela a quella reale e serve a suggerire un’alterazione nella visione del mondo da parte del personaggio a cui fa riferimento, che sia esso inquadrato o che sia in modalità soggettiva. Si fa largo a questo punto un dubbio: cos’è vero? siamo solo spettatori delle allucinazioni di Arthur? Una delle tante possibili interpretazioni.

Nemmeno un’uscita “romantica” con la vicina in una scena al diner che è citazione esplicita di Taxi driver di Martin Scorsese – un chiaro parallelismo dato che non è l’unica – lo porta su una strada di vita percorribile. Dopo le aspettative di ricostruire i legami familiari, anche l’amore che salva il mondo in quasi tutti i film si dimostra un vicolo cieco. Un’altra possibilità di affermazione sociale decade e Arthur, che è privo di una qualsiasi bussola morale, si trova ormai con le spalle piegate dalla sua vita deprimente, in cui campa a stento, contro un muro che non gli lascia che poche alternative.

La svolta è la reazione violenta all’ennesimo atto di bullismo.

«Per tutta la vita, non ho mai saputo se esistevo veramente. Ma io esisto. E le persone iniziano a notarlo»

La genesi del mostro è sottolineata egregiamente da un’indimenticabile scena in cui Joker scende una ripida scalinata di cemento, ballando sulle note di Rock and Roll Part 2 di Gary Glitter. Un’inquietante danza liberatoria che è già diventata virale: la location delle riprese è diventata subito meta di turisti, curiosi e cinefili che voglio farsi immortalare mentre replicano la locandina o si filmano mentre riproducono la coreografia. In pratica è diventata un’icona culturale come un’altra scalinata, quella di Rocky a Philadelphia. La scalinata di Joker si trova a Highbridge, nel Bronx – non proprio un quartiere ospitale – e collega Shakespeare Avenue, più o meno all’altezza del civico 1165, con Anderson Avenue. Poi ci si domanda come mai il New York Times abbia timore di emulazioni

Torniamo al film per un’ultima aspettativa da parte di Arthur. Tradita? Appagata? Dipende dai punti di vista, se il suo o il nostro: in un ultimo tentativo di prendersi quei «15 minuti di celebrità» che ogni persona può avere secondo Andy Warhol, dopo aver assaggiato il sapore della liberazione dal male attraverso il Male, il nuovo Arthur si presenta ospite allo show televisivo che tanto ama. Davanti ad un Robert De Niro [The Irishman, Lo stagista inaspettato, Joy], che per il pubblico è stato il delirante Taxi driver e l’ossessionato Re per una notte – riferimenti evidenti del regista Todd Phillips – Joaquin Phoenix inscena l’apice della follia e l’apoteosi del suo personaggio.

«Quando mi farai entrare mi annunceresti come “Joker”?»

L’aspirante comico deriso non esiste più. La massima attribuita da sempre a Giulio Cesare «se non puoi vincere il tuo nemico, fattelo amico» sembra assumere un nuovo significato per Arthur. L’uomo abbraccia la sua tanto odiata malattia e accoglie in sé la pazzia come compagna di vita: l’ultimo barlume di umanità in lui muore e il Joker viene alla luce dalle tenebre più profonde del super-io. La violenza diventa catarsi. La paura si fa strumento di rivalsa sulla società che gli ha voltato sempre le spalle. Il mostro è uscito dalla gabbia, ha assaggiato il sangue e vivrà di rabbia, odio. È ora il Joker, la Matta, the Fool, non più giullare fallito, ma maschera di morte.

«Non sono stato felice mai, neanche un minuto della mia vita del cazzo! Sai cos’è buffo? Cosa mi fa veramente ridere? Ho sempre pensato che la mia vita fosse una tragedia, ma adesso mi rendo conto che è una cazzo di commedia!»

Finalmente una risata coerente, figlia di una vita beffarda, creata da un corto circuito che non è esclusiva del film e del fumetto in questione, ed è sicuramente riduttivo considerare i già citati riferimenti cinematografici o aggiungerne altri abbastanza calzanti come Un giorno di ordinaria follia o Arancia meccanica. Come fosse un compendio sull’interconnessione tra risata e insanità mentale, il Joker di Phillips fa venire in mente anche riferimenti illustri. Viene in mente il rapporto conflittuale che fratello Jorge ha nei confronti della risata e delle tesi aristoteliane su di essa ne Il nome della rosa di Umberto Eco.

Ma soprattutto esiste un simile corto circuito tra la comicità desiderata tuttavia inattuabile e il dramma che la prevarica fino ad essere padrone incontrastato della scena, fino a coinvolgere la platea dal proscenio e che troviamo nell’opera lirica I pagliacci di Ruggero Leoncavallo: l’attore che interpreta il clown ha scoperto che sua moglie, e collega, lo tradisce con un altro attore così, mentre porta avanti la commedia, ormai esasperato dalla gelosia dà libero sfogo alla sua rabbia e uccide i due amanti per poi rivolgersi al pubblico ed esclamare «La commedia è finita!» L’aria in questione è la famosissima Vesti la giubba! – una The show must go on ante litteram – che rappresenta il concetto di clown tragico, impeccabile nel suo ruolo comico («but my smile still stays on»), nonostante interiormente viva un profondo dramma personale.

La reazione al dramma interiore è un gesto di violenza improvviso che nello stesso istante trascina in uno stato di alterazione il piano diegetico e l’extradiegetico (la “quarta parete”).

La reazione della folla è sconcertante più del gesto. È il trionfo della follia.

Su questo aspetto si fonda la paura del NY Times: che si possano verificare emulazioni e, il precedente massacro di Aurora alla prima de Il cavaliere oscuro – Il ritorno ad opera di un esaltato che si presentò come Joker, non fa che avvalorare questo sospetto.

Quindi è un film su un pazzo che poco ha a che fare con Batman?

Di nuovo aspettative. Deluse se si entra in sala per vedere un nuovo capitolo della saga del cavaliere oscuro. Soddisfatte in pieno se si analizza il punto d’intersezione dei personaggi.

L’incontro avviene attraverso le sbarre del cancello; significativo ed ambiguo, come il rapporto che intercorrerà da lì in poi tra i loro due alter ego. Da una parte il cancello è un limite invalicabile dall’altra non rappresenta una separazione netta tra i due, che possono interagire attraverso le sbarre: Arthur parla con il piccolo Bruce, come se avesse già deciso che sono fratelli, fratelli di sangue, tanto che arriva ad allungare le mani sul viso del suo futuro nemico per provare a suo modo la parentela attraverso quel sorriso forzato, quella smorfia malata che in lui non trova pace.

È oltremodo significativo che il cancello sia a sbarre come quelle di una prigione: per uno esprimono la giusta pena commisurata ai crimini perpetrati, per l’altro rappresentano la gabbia dorata in cui ancora vive, ignaro del destino che lo attende dietro l’angolo, in vicolo buio, per mano di un emulo del Joker.

Per entrambi, oltre ad una separazione labile, quel cancello, quelle sbarre, quell’impossibilità di comprendersi mette in luce la loro condizione di ineluttabilità del destino, un destino in continua lotta, con se stessi prima di tutto, poi con la propria eterna nemesi. Ed è proprio a questo punto che s’incontra un altro nodo che tormenta i detrattori del film: questo personaggio sfortunato e penoso, che spinge lo spettatore a tifare per lui a lungo, può essere all’altezza della situazione? Può essere quello che Moriarty rappresenta per Sherlock Holmes: un orditore di trame assurdamente intricate e piani intellettualmente eccentrici? Può essere un gangster senza scrupoli a capo di una miriade di clown criminali? La risposta la fornisce il fumetto che è l’origine di tutto: Joker non è un uomo, non è un criminale; Joker è un’idea, il seme di un’idea che s’innesta e cresce a nuova vita sui terreni fertili creati dalla società stessa con le sue ingiustizie, la violenza, l’indifferenza, la miseria materiale e culturale, che costringono le ultime ruote del carro ad un’agnizione che non potranno mai conquistare. Di nuovo aspettative deluse.

Insomma, è nato prima il clown del pipistrello? Non proprio. Il Joker di Todd Phillips è la genesi di quell’idea. Quello che Arthur diventa è quello che in gergo viene definito proto Joker. Il primo di tanti. Come un eroe anche l’antagonista può avere un’evoluzione. In questo sta la grandezza della scrittura di Batman. In questo sta la grandezza di questo film. Clown criminali potenzialmente infiniti come eterna è la lotta al crimine in questa Gotham City inedita, per la prima volta fornita di una connotazione temporale ben precisa.

«I ricordi sono ciò su cui si fonda la nostra ragione. Se non riusciamo ad affrontarli, neghiamo la ragione stessa! D’altra parte, perché no? Non siamo legati alla razionalità per contratto! Nessuna clausola di sanità mentale! Perciò, quando ti ritrovi avviato lungo binari difficili, diretto verso luoghi del tuo passato in cui le urla si fanno insopportabili, ricorda che c’è sempre la follia. La follia è l’uscita di sicurezza… Permette di farsi da parte e di richiudere la porta su tutte quelle cose terribili che sono successe. Di rinchiuderle… per sempre.»

[Batman: The Killing Joke, Alan Moore e Brian Bolland]

Maria Maddalena, di Garth Davis

La tradizione iconografica e storica ci ha tramandato l’immagine di Maria Maddalena come donna “penitente”, emblema di un umanità peccatrice che redime se stessa grazie alla misericordia divina. Senza dubbio però la figura di questa donna ha sempre esercitato un fascino particolare su artisti di ogni epoca e genere, e al di là della facile identificazione con il lato più umano – e più carnale – del Nuovo Testamento, la Maddalena risulta essere il fulcro di una serie di simbologie e misticismi che dai vangeli apocrifi arrivano fino alla versione di Dan Brown.
La pellicola di Garth Davis, nelle sale cinematografiche dal 15 marzo, si propone di restituire a un personaggio spesso oscurato e quasi sempre frainteso, lo spessore e la complessità che merita.

La vicenda prende avvio sulla sponda occidentale del lago di Tiberiade, nel villaggio di pescatori chiamato Magdala, dove Maria, giovane donna, vive con la sua famiglia e possiede suo malgrado un carattere tenace non tollerato dalla società patriarcale e gerarchica dominante. Il conflitto con il nucleo familiare si esaspera quando la donna rifiuta di sottostare alla volontà paterna di darla in sposa a un uomo.
La figura di Maria è da subito associata a un certo simbolismo legato al femmineo: è nota nel villaggio per il dono innato di alleviare le sofferenze delle partorienti, ritornano di frequente le immagini della luna e soprattutto è costantemente presente l’elemento liquido. È nell’acqua che, come racconta lei stessa a Gesù, amava abbandonare il suo corpo da bambina per percepire la sensazione di un’anima immersa nella Fede, è con l’acqua che la famiglia cerca di esorcizzarla e di ammansirla ed è proprio dall’acqua che Gesù la fa risorgere a nuova vita tramite il Battesimo.
La tradizione evangelica viene dunque preservata ma sottoposta a rielaborazione laica: i sette demoni della Maddalena di cui parla il Nuovo Testamento altro non sarebbero che una forza di volontà inaccettabile per una donna dell’epoca, mentre l’incontro con Gesù, profeta e guaritore di passaggio nel suo villaggio, è salvifico ma non redime Maria da una vita dissoluta e peccaminosa, agisce piuttosto da riscatto rispetto a una vita che lei sente non appartenerle.


La sceneggiatura di Philippa Goslett e Helen Edmunson ripercorre l’ultimo arco temporale della vita di Gesù dal punto di vista narrativo di Maria, che diventa testimone degli episodi evangelici più rappresentativi: dalle guarigioni miracolose alla resurrezione di Lazzaro, dalla predicazione itinerante all’Ultima cena. Se la sua figura in un contesto inequivocabilmente maschile sembra quasi schiacciata, indifesa, trova tuttavia una dimensione propria in un dialogo privilegiato con Gesù e si ritaglia un ruolo determinante nella predicazione, la sua conversione diventa uno strumento per dare voce alle donne di Galilea. Farne una moderna paladina femminista sarebbe stato facile e scontato, il regista invece calibra sapientemente il suo ruolo femminile non perdendo mai di vista le insormontabili difficoltà che la accompagnano, come dimostra lo splendido dialogo con un’altra figura chiave della fede cristiana, la madre di Gesù: non c’è banale complicità nel breve scambio di battute tra le due Marie, emerge piuttosto una compassione reciproca di due donne consapevoli di amare un uomo fatalmente legato al suo ruolo e al suo destino.

Dall’entrata a Gerusalemme tutto scivola velocemente verso l’epilogo decisivo, i fatti non contano, o contano quanto basta per far emergere le emozioni coinvolte. Nessuna traccia dunque del processo a Gesù, di Ponzio Pilato, dei sacerdoti o di Barabba, l’ellisse è facilmente giustificata da uno svenimento di Maria durante la cattura al monte degli Ulivi. Ci ritroviamo traghettati direttamente sul percorso del Calvario, quando la forza della Maddalena sembra per un attimo venire meno, e infine ai piedi della croce dove lei occupa con coraggio il posto che l’iconografia le ha sempre riservato.
La scelta narrativa di eliminare ogni elemento ultraterreno, dagli squarci nel cielo agli angeli di guardia al sepolcro, consente ai rapporti personali e ancora di più a quelli psicologici di essere inquadrati in un ottica tanto provvidenziale quanto umana. Non ci sono pedine investite da un ruolo provvidenziale ma uomini con speranze e timori e ogni azione assume un’urgenza immediata che sembra coincidere con il progetto divino precostituito solo per puro caso.

Inevitabilmente spicca la figura di Pietro, interpretato da Chiwetel Ejiofor già candidato all’Oscar per 12 anni schiavo, il discepolo dell’impulsività, rappresentato come un uomo desideroso di dimostrare al gruppo la sua leadership e geloso del dialogo intimo che si instaura tra il Rabbì e quella giovane donna arrivata a portare scompiglio nel gruppo che lui sente invece la responsabilità di gestire. La portata metaforica del loro rapporto conflittuale raggiunge un apice narrativo nella scena estremamente toccante tra i moribondi di Samaria: il ruolo istituzionale e razionale di Pietro, che incarna la Chiesa, si scontra e viene annientato dalla volontà granitica di Maria, spirito missionario e misericordioso, che soccorre i bisognosi senza mai vacillare.

Ma è Tahar Rahim nei panni di Giuda a godere di una particolare trattamento. Ci troviamo di fronte a un personaggio inaspettatamente a tutto tondo, a cui non serve il celebre bacio per trovare posto nella storia. L’emblematicità del suo ruolo ha sempre tenuto la figura di Giuda sospesa tra la rappresentazione di un semplice strumento divino privo di volontà propria e la malvagità di un’ispirazione demoniaca improvvisa. Il film ribalta ogni meccanismo strutturale e ci consegna finalmente la storia di un uomo, con un passato difficile e con delle aspettative rispetto al Messia. Il suo tradimento è un gesto di disperazione e speranza generato da un fraintendimento fatale del messaggio di Gesù, talmente ingenuo da risultare quasi commovente. Anche il suicidio viene assorbito dalla storia personale del personaggio ed è impossibile non empatizzare con il carico di fallimento che si porta dietro.

Gesù ha il volto di Joaquin Phoenix, il cui indiscutibile talento conferisce alla figura chiave del racconto apostolico una malinconia e una concretezza ammirevole. Un Gesù il suo che appare stanco, affaticato non tanto dalla missione divina, quanto dalla ripetuta incomprensione che le sue parole e le sue azioni generano negli uomini che ha scelto come discepoli. Trova rifugio spirituale e conforto umano solo nel dialogo che instaura con la Maddalena, la sola davvero capace di comprendere il suo messaggio di salvezza e il peso di una natura umana votata al sacrificio. Maria è l’unica a non pretendere nulla da Lui, l’unica che non ha aspettative se non quella di stargli accanto fino alla fine.

La due volte candidata all’Oscar Rooney Mara interpreta una protagonista forte, tenace, che però non perde mai la femminilità e soprattutto la dignità, a dimostrazione che il femminismo autentico è ben lontano dagli stereotipi con cui viene oggi identificato. Il suo sguardo magnetico si accosta al racconto evangelico con un disincanto capace di affascinare lo spettatore, mentre la sua fisicità esile traduce sullo schermo tanto l’inadeguatezza dell’uomo di fronte al mistero divino quanto lo sforzo di essere donna in una società implacabile. La sua interpretazione offre allo schermo una Maddalena che è una sintesi di fragilità umane e forza morale, di misericordia incrollabile e etica irreprensibile.

Una fotografia calibrata, attenta alle sfumature e ai dettagli dirige un ritmo narrativo incentrato sulle emozioni più che sui fatti ben noti della vita di Gesù, mentre gli uomini e i loro progetti appaiono come sovrastati costantemente da una natura silenziosa e imponente.
Tanti i set italiani: dopo Pasolini e Mel Gibson, anche la produzione di Mary Magdalene sceglie come location strategica per rappresentare le vicende evangeliche quella dei Sassi di Matera. Altre scene sono state girate tra la provincia di Trapani e Napoli, dove un’irriconoscibile Piazza del Plebiscito è stata utilizzata per la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme.

L’elemento più innovativo e sorprendente è forse l’onestà intellettuale con cui il film, distribuito dalla Universal Pictures, sceglie di trattare una figura così emblematica e così discussa della storia secolare e religiosa, tralasciando ogni aspetto di morbosa curiosità legata alla sua vicenda.
Non c’è traccia per tanto nel film né della tradizione popolare che associa Maria Maddalena alla prostituta salvata dal Messia da un’atroce morte per lapidazione – versione per altro derivata da una errata sovrapposizione con altre due adultere di cui si parla nel Vangelo – né della versione complottistica e romanzata che la vuole la ricca amante dell’uomo Gesù, vero Sacro Graal e quant’altro.
La forza del film sta piuttosto nella volontà di una ricostruzione che sia fedele alla versione canonica dei Testi sacri ma non documentaristica e che al tempo stesso risulti coinvolgente senza però ricorrere all’esasperazione degli elementi che la compongono. La “discepola tra i discepoli” prima testimone della Resurrezione del Cristo recupera così quella investitura ufficiale che, come una didascalia alla fine del film precisa, per troppo tempo la Chiesa ha cercato di soffocare con la calunnia e che solo di recente ha riscoperto.

La salvezza della Maddalena dunque non è un dono ma una conquista. È lei che, non senza tormenti o dubbi, decide di prendere in mano la sua vita e di liberarsi letteralmente da una rete di rapporti che la sovrastano e la ingabbiano, è lei che sceglie di seguire il suo istinto e il suo cuore. Una donna coraggiosa che costruisce il suo destino dunque ma anche una testimone della Fede, Maria Maddalena non si limita ad affrontare un viaggio fisico e metaforico di redenzione, quel percorso lo analizza, ne valuta le implicazioni, e infine lo incarna nella sua vita perché ne comprende il significato. La narrazione sceglie di associare la vocazione di Maria alla parabola del seme (ritorna un elemento associabile al femmineo, simbolo di fecondità ma anche di conoscenza per il legame con la mela di Eva) attraverso cui Gesù descrive il Regno di Dio, tuttavia i discepoli, e con essi la Chiesa, non colgono subito il senso autentico delle sue parole: la più imprevedibile delle rivoluzioni può scaturire da un elemento piccolo e all’apparenza insignificante. È questa la lezione di Maria Maddalena.

Berlinale 68 – Gus Van Sant e Joaquin Phoenix per Don’t Worry, He Won’t Get Far on Foot

Don’t Worry, He Won’t Get Far On Foot, il biopic ispirato a John Callahan, il vignettista satirico americano, rimasto paralizzato all’età di 21 anni in seguito a un incidente d’auto, è stato presentato al Festival del Cinema di Berlino dal regista Gus Van Sant e dall’attore protagonista Joaquin Phoenix. Il film si concentra sulla vita dell’artista dopo l’incidente, sul lungo percorso di disintossicazione dall’alcol e sulla forte influenza che l’arte ha avuto nel suo ritorno alla vita.


“Quando negli anni ’90 mi è stato chiesto di lavorare a un film su Callahan, questo personaggio mi era già molto familiare – ha detto Van Sant – e conoscevo bene le sue vignette. Lo spunto per il film è nato dall’omonimo libro di Callahan, anche se naturalmente alcuni eventi sono frutto di fantasia e funzionali alla narrazione cinematografica, così come ha fatto lui stesso nel suo libro. Ma credo che la parte più interessante di questo progetto sia il fatto che ci siamo concentrati sulla riabilitazione fisica e su quella dall’alcol, come se la sua vera disabilità fosse il bere. John era un artista anche prima della paralisi, ma una volta aver raggiunta la consapevolezza che la sua vita fosse cambiata a causa dell’alcol, ha trasformato la disabilità in arte “. E come ha ribadito lo stesso Phoenix: “Le persone reagiscono diversamente agli incidenti, e nella reazione di Callahan sta la sua forza”.

Le strisce satiriche hanno un ruolo fondamentale nel ritmo del film, ne scandiscono i tempi e restituiscono un’immagine vivida dell’autore. Ma con quale criterio sono state scelte le vignette da mostrare nel film? “Ho scelto i fumetti che mi piacevano, ha chiarito Van Sant. Alcuni sono stati pubblicati sul libro su cui abbiamo lavorato. Certo, a volte alcune vignette sembrano offensive, ma non lo sono. Più che approfondire la psicologia dei fumetti, abbiamo scelto le vignette che ritenevamo più divertenti, a prescindere dall’essere più o meno politicamente scorrette. Dopo tutto l’arte stessa di Callahan segue questa strada, e lui stesso tira in ballo nei suoi lavori la disabilità e l’alcolismo”.

Irrational Man, di Woody Allen

«Molta filosofia è solo masturbazione verbale»

Abe Lucas (Joaquin Phoenix) è un Irrational Man, tormentato professore di filosofia che arriva nel piccolo college di Braylin sulla East Cost per provare a dare una svolta a una vita di cui non riesce più a cogliere il senso. Il cambiamento sperato, tuttavia, non arriva subito, a differenza dei pettegolezzi sul passato del prof. Lucas che suscitano un fascino irresistibile sulla brillante Jill Pollard (Emma Stone), studentessa di filosofia, e sull’insoddisfatta insegnante di scienze Rita Richards (Parker Posey), catturate sin da subito dallo straniero bisognoso d’affetto e cure. A fare le spese di questo arrivo è Roy (Jamie Blackely), fidanzato di Jill messo da parte a causa di quella che diventa non una semplice relazione tra professore e studentessa, ma una sorta di missione intellettuale di salvataggio. Quando ogni tentativo sembra non sortire alcun fatto, una conversazione ascoltata per caso e una torcia vinta ad un Luna Park cambieranno le vite dei protagonisti per sempre.

Joaquin Phoenix e Parker Posey

L’Irrational Man Abe Lucas è una pedina in balia del caso, del destino e della fortuna, entità ricorrenti in molte pellicole del regista newyorchese (da Match Point a Blue Jasmine) e che in questa in particolare vengono snocciolate in tutta la loro essenza. La fortuna è diversa dal caso che a sua volta è diverso dal destino ma insieme le tre forze sono in grado di avviluppare i protagonisti della storia in un buco nero di illusioni e sentimenti, smorzati e conditi dai divertenti e paradossali scherzi della vita; pur ruotando tutto sulla filosofia (questa volta in maniera aperta ma i grandi quesiti dell’umanità fanno da sfondo a ogni pellicola di Woody Allen ), nessun tema esistenziale viene tuttavia approfondito adeguatamente, né dai comportamenti dei personaggi né dalle riflessioni delle voci fuori campo. L’elemento più forte che emerge è l’egocentrismo di ciascuno dei protagonisti. Abe pretende di trovare senso alla propria esistenza nel mondo solo con il compimento di un gesto, non più astratto come nell’iperuranio delle sue speculazioni filosofiche, ma concreto e in grado di affermare la propria taratura intellettuale e morale; dal canto loro Jill e Rita si considerano la ragione unica della guarigione del professore, crocerossine vittoriose ma, comunque, mai completamente appagate; unico outsider è il povero Roy, cane tante volte bastonato e altrettante fedele al proprio padrone, macchietta che non spicca nell’economia della storia.

Emma Stone e Joaquin Phoenix

Se della filosofia rimangono aforismi da riciclare senza rimorsi sui social network, Irrational Man rimane una pellicola alleniana in tutto e per tutto, godibile nelle scelte di regia (proverbiali le scene girate a tavola, punti nevralgici della storia così come in Match Point o in Crimini e misfatti) ivi incluse le belle riprese in cinemascope, nella colonna sonora dei Ramsay Lewis Trio dal beat incessante e in perfetta sincronia con le scene, nella sceneggiatura meglio gestita rispetto agli insignificanti To Rome With Love o Vicky Cristina Barcelona ma che si avvicina solo di striscio a Io&Annie, nell’interpretazione di Emma Stone e Joaquin Phoenix, perfetti nel ruolo ed espressivi così come lo erano già stati in Birdman e Her, le loro migliori performance.