Margot Robbie

C’era una volta a… Hollywood, di Quentin Tarantino

C’era una volta…

Così cominciano le fiabe e così inizia l’avventura del nuovo lavoro di Quentin Tarantino: dal titolo. Non quello sovrimpresso nell’incipit del film, volutamente assente e significativamente collocato alla fine. Sto parlando di quello che campeggia sui poster che hanno creato l’attesa spasmodica e che richiamano un’altra epoca, l’epoca d’oro del cinema, che lui ama e che noi stessi amiamo, forse ancora di più proprio perché lui la ama così tanto e ce ne rende immancabilmente partecipi.

Ogni volta, il regista di Pulp fiction e The hateful eight ha lo straordinario potere di sospendere lo spettatore tra sogno e realtà, come un papà che, accanto al letto del bambino, inventa e rielabora, perché non ricorda o fa finta di non ricordare o semplicemente perché da grandi poteri derivano grandi responsabilità, sì, ma se hai il dono di raccontare bene forse puoi anche fare qualcosa di più: cambiare il corso della storia anche solo per il tempo di una fiaba affinché sia davvero una buona notte.

Chi legge questa recensione prima di vedere il film troverà, spero, abbastanza criptica questa introduzione. Lungi da me spoilerare la trama o addirittura il finale! Pensate che per molto tempo sul sito di wikipedia, probabilmente per proteggere il piacere della visione, è stata pubblicata una trama dotata di un finto finale! Perciò non aggiungerò niente di più, se non una piccola sinossi della trama per poi analizzare il film quel tanto che si può, senza scendere troppo nei particolari, cosa non certo facile.

Vedendo C’era una volta a… Hollywood capirete che non è tanto la fine ad essere sotto minaccia dello spoiler quanto più tutte quelle citazioni, quei riferimenti palesi o celati, quel sottotesto velato ma intriso di ammiccamenti ai cinefili che Tarantino è un maestro a disseminare anche in questo suo nono lungometraggio. Non manca niente del suo stile inconfondibile neanche stavolta. Come al solito il “collega spettatore” Quentin ha tenuto fede al suo modo estremamente ludico di far vivere l’esperienza cinematografica:

  • camei, riferimenti, citazioni e chicche per veri appassionati disseminati in una ricostruzione maniacale delle scenografie e dei costumi, senza dimenticare di inserire qualcuna delle sue fake brands;
  • il fascino per ciò che concerne la cultura pop, l’universo dei B movie, la golden age of exploitation e la filosofia grindhouse, ingredienti affini ma differenti, mescolati e shakerati, in perfetta adesione al postmodernismo, fino a smarrirne i confini distintivi e a perdere soprattutto la differenza tra verità e finzione, tra desiderio e disillusione, tra sogno plausibile e realistico e realtà dura e cruda ad iniziare dalle tanto amate locandine disegnate alle insegne al neon di una Los Angeles di fine anni Sessanta, passando per i megaposter pubblicitari, copertine di riviste come Mad magazine, i drive-in, le sale cinematografiche old style, la vita dei set al di qua e al di là della macchina da presa;
  • la simpatia nei confronti del mondo underground, del retroscena, del reietto, dell’outsider che viene finalmente illuminato dai riflettori della ribalta; spesso le scene a cui assistiamo sono momenti verosimili di vita da set: Rick si blocca durante le riprese e si fa suggerire le battute, Cliff battibecca con Bruce Lee dietro le quinte de Il calabrone verde e lo stesso palesare la presenza degli stuntmen è già di per sé una prova di questa simpatia; curiosità a margine: la presenza di Kurt Russell (lo stuntman Randy, ma anche voce narrante) e Zoë Bell (sua moglie e collega Janet) come coordinatori degli stuntman, sempre per The Green Hornet, è al tempo stesso una conferma di questa rivalsa dell’ombra e un riferimento alla filmografia del regista di Kill Bill: Russell, suppergiù con lo stesso look, aveva interpretato Stuntman Mike in Grindhouse – A prova di morte (2007) dove recitava come attrice la Bell, che in realtà lavora da sempre come controfigura, soprattutto di Uma Thurman; a tal proposito, bisogna aggiungere che Tarantino accredita loro insieme a Michael Madsen e altri come “The Gang”, praticamente i suoi attori-feticcio (proprio Zoë Bell è la regina delle presenze in 7 lungometraggi del regista). Inoltre, un altro habitué, Tim Roth, ne è accreditato come membro, anche se le sue scene sono state tagliate da questo film;
  • la consueta quantità spropositata di dialoghi e monologhi su argomenti solo apparentemente divaganti, ma che risultano coerenti con quel sottotesto intriso di cinefilia;
  • lo stallo alla messicana, o mexican standoff, che ricorre in più punti con protagonista Cliff Booth; 
  • mentre invece è assente il trunk shot, l’inquadratura da dentro il bagagliaio dell’auto, e dire che ci si arriva davvero vicinissimi al ranch! mi sa che Tarantino si è divertito a farcelo credere, questa volta, mantenendo pertanto la nostra attenzione attiva per tutto il film, salvo non si consideri la ripresa da dentro un’ambulanza, come trunk shot, del resto per Bastardi senza gloria lo si è fatto;
  • il foot fetishism, ovvero l’ossessione per i piedi, in questo caso innalzata da mero elemento ricorrente ed eccentrica firma artistica a filo conduttore nascosto e stilema vero e proprio: pensate che i piedi sono presenti nell’inquadratura in ben 36 scene, per un totale di quasi 10 minuti, senza contare che in una scena al ranch della Manson’s family c’è un tripudio di piedi, se mi passate il gioco di parole;
  • i tecnicismi, per veri intenditori, con movimenti di macchina inconsueti; l’utilizzo di dolly, crane e grandangoli; l’alternanza di vari formati di pellicola che presuppone l’utilizzo di svariati tipi di mdp, anche pezzi d’antiquariato; il montaggio tramite jump cut; lo slow motion; il ricorso al piano-sequenza e al piano nomade a sorpresa e con significati profondi;
  • la colonna sonora, ben nutrita, con 37 brani, tra cui anche uno di Charles Manson, potrebbe essere utilizzata, come al solito, per insegnare ogni funzione che può assumere la musica nell’accostamento con le immagini: si va dal semplice commento allo straniamento, dalla consonanza alla dissonanza e così via.

Il regista si diverte – è sicuramente il caso di dirlo – a far sì che tutti questi elementi occupino un’ampia porzione di film, completamente incurante delle ansiose esigenze dello show business e delle regole della comunicazione odierna con la soglia dell’attenzione ridotta ad 8 miseri secondi per l’audiovisivo (per quanto riguarda la lettura avrei già dovuto concludere qualche riga fa per sperare almeno nei fantomatici 25 lettori manzoniani!).

Ambientato nella Los Angeles del 1969, C’era una volta a… Hollywood segue le vicende di un attore in odore di declino, Rick Dalton [Leonardo Di Caprio: Revenant, Django Unchaned], e della sua inseparabile controfigura, Cliff Booth [Brad Pitt: Allied, Bastardi senza gloria]. Tra set, viaggi in macchina, flashback la trama si dipana leggiadra e si fa largo la netta sensazione che l’intero film sia un divertissement di più di 2 ore e mezza, tutt’al più un mockumentary sullo star system dell’epoca, a cavallo tra due periodi fondamentali: l’era del rassicurante cinema classico americano e la cosiddetta Nuova Hollywood, che rinnovava il processo produttivo e contaminava i generi privilegiando il realismo, decretando il successo di personaggi dal carattere complesso e di registi che erano sempre più liberi autori. Un ottimo esempio è proprio il Roman Polanski che, filmicamente parlando, abita proprio accanto a Rick Dalton in Cielo Drive: è rappresentato come l’idolo inarrivabile dell’attore protagonista – ciò lo rende simulacro di un mise-en-abyme di simulacri su cui è meglio non addentrarsi – insieme alla moglie Sharon Tate, interpretata magistralmente da Margot Robbie [Suicide Squad, Tonya], che appare sullo schermo forse meno dei piedi di Di Caprio, ma che riesce con pochi gesti misurati a trasmettere i sentimenti corretti.

Nonostante la sua presenza in scena non sia commisurata a quella dei due protagonisti, il personaggio di Margot Robbie è fondamentale. È suo il compito di far immedesimare appieno lo spettatore. Il momento in cui si giunge addirittura all’identificazione tra le due, anzi, le tre figure è la tenerissima scena in cui Sharon Tate diegetica è al cinema, scalza e con un paio di occhiali più grandi della gonna che indossa – tutto materiale fornito dalla sorella stessa della compianta attrice – a guardare la reale se stessa recitare nel film The wrecking crew (Missione compiuta stop. Bacioni Matt Helm), accucciata sulla poltrona, nel buio della sala, come uno spettatore qualunque, per sbirciare titubante le reazioni del pubblico al frutto delle sue fatiche artistiche.

Carica di significato anche la figura di Cliff, personificazione dell’ombra dietro l’attore. Per Rick è l’alter ego fuori dalle luci dei riflettori e della ribalta ma anche l’amico fraterno che sa consigliare e appoggiare ma anche restare al suo posto, sicuramente più costruttivo del se stesso-villain con cui litiga proprio vestito da villain attraverso lo specchio nella roulotte-camerino in una scena di eccezionale impatto.

Alla luce di tutto questo, C’era una volta a… Hollywood è un evento irrinunciabile per ogni appassionato di cinema, è la summa del processo di maturazione dell’eccentrico Quentin nel Maestro Tarantino. Non più così cinico, ironico e destabilizzante, anche se rimane la predilezione per un montaggio poliedrico e discontinuo dove si connettono spezzoni di film tra veri, falsi e ritoccati ad arte, jump cut, raccordi sugli oggetti e sei movimenti, flashback e inserti. Anche la tanto amata spettacolarizzazione della violenza, con ettolitri di sangue ad invadere lo schermo, lascia spazio all’introspezione, alla riflessione sul cinema e sullo star system. È sicuramente il suo film più personale, passionale e sentimentale pur rifuggendo il sentimentalismo in cui poteva scadere. Chissà se quando ha la sceneggiatura sapeva di mettersi a scrivere una storia per il cinema che riscriveva la storia del cinema!

La matematica annovererà questo come il 9° lungometraggio, ma il sapore che lascia dopo l’attenta analisi di ogni singolo elemento, anche quelli su cui non si può spoilerare, è che C’era una volta a… Hollywood possa tranquillamente rappresentare quello che fu 8e1/2 per Federico Fellini. Dopo The hateful eight quindi ecco il 9e1/2 di Tarantino!

Ma in mezzo ai virtuosismi, al linguaggio metacinematografico, a quel funambolico muoversi sul sottile confine tra sogno e realtà, tra passione sfrenata e malinconia latente, quello che la pellicola trasuda è il medesimo desiderio di rivalsa dei personaggi tarantiniani e così dopo tutto il giro sulla giostra dei ricordi, dopo i giochi di rimandi e citazioni, dopo la semina di quegli elementi ricorrenti e quelle firme autoriali che abbiamo imparato a trovare, il film diventa qualcos’altro: la ricostruzione arriva al momento fatidico, alla sera dell’eccidio di Cielo Drive ma… da questo punto in poi ci si rende conto che tutto ciò che ci è stato mostrato non ha il valore della divagazione – forse il McGuffin più lungo della storia del cinema – e che quell’intersecare sapientemente personaggi realmente esistiti con personaggi fittizi, il declino dietro l’angolo in contrasto con l’ascesa meritata, le ingiustizie della vita reale con le rassicuranti sceneggiature del cinema classico e delle serie tv di allora, porta ad un unico possibile punto di non ritorno, la fiabesca resa dei conti, dove la tensione, cresciuta lenta ma inesorabile per tutto il film, sfocia in un concentrato di assurda violenza – la spettacolare violenza che ci aveva lasciato più di un languorino dopo il breve assaggio al ranch-covo della Manson’s family. È l’equivalente di uno schiaffo che risveglia non, però, dal sogno bensì dalla realtà e nutre il desiderio di rivalsa attraverso un’illusione effimera che viene malinconicamente tarpata dal significativo titolo del film in sovrimpressione. Un piano nomade – espediente tecnico-linguistico già utilizzato in questo film – sottolinea l’artificiosità della storia, ricordando che certamente i sogni son desideri chiusi in fondo al cuor ma che il cinema i sogni li può rendere verosimili solo per il tempo che è concesso dalla visione e per il limitato spazio buio della sala.

C’era una volta…

Così iniziano le fiabe e così conclude Tarantino.

Birds of Prey, di Cathy Yan

Come si fa a diventare Harley Quinn? Basta laurearsi a pieni voti in psicologia, farsi assumere nel manicomio di Arkham, innamorarsi follemente di uno dei pazienti, fuggire con lui e diventare una delle criminali più ricercate di Gotham City. Un’impresa impossibile, tant’è che Harley è unica nella sua dolce follia, nei suoi colori sgargianti e nella sua incredibile abilità con il martello, o con la mazza da baseball, a seconda delle occasioni. Harley brilla, qualunque cosa faccia, ed esplode sul grande schermo, proprio come la fabbrica di prodotti chimici che ha visto nascere la sua storia d’amore con Joker. E che ora non è che fuoco, fumo e polvere.

Harley si è lasciata tutto alle spalle e si avvia sorridente e piena di speranza verso un futuro tutto da ridisegnare. L’arlecchino che vive all’ombra del padrone di Gotham non esiste più, perché ora è padrona di se stessa, responsabile dei suoi disastri e libera di crearsi una squadra a sua immagine e somiglianza. E quale scelta migliore di una squadra di donne pronte a sfidare le regole, a farsi giustizia da sole, e a mettere a tappeto a colpi di calci, urla assordanti e balestra tutta la malavita di Gotham?

Le Birds of Prey sono delle outsider, delle donne in cerca di vendetta, o di giustizia, a seconda del punto di vista, impossibili da inquadrare tra i buoni o i cattivi, perché ognuna di loro ha qualcosa per cui combattere, e lo fa senza farsi scrupoli di alcun tipo. Huntress, figlia del mafioso Franco Bertinelli, si allena da tutta la vita per vendicarsi dei sicari che hanno sterminato la sua famiglia, Black Canary, dotata di un formidabile urlo sonico, vuole affrancarsi dal nuovo cattivo Black Mask, Renee Montoya, la più brillante detective del dipartimento di polizia di Gotham, combatte per dimostrare il suo valore ai suoi colleghi maschilisti, e poi c’è la giovane Cassandra Cain, che si è messa nei guai entrando in possesso di un preziosissimo diamante e che è subito diventata la pupilla di Harley Quinn.

Da sottomessa a mentore, a leader indiscusso, questa è la fantasmagorica rinascita di Harley Quinn, protagonista assoluta di Birds of prey, in cui tutta la giostra di Ghotham gira attorno a lei, che scorrazza con pattini e martello mietendo vittime senza sosta. Ma nonostante la violenza spietata e la brutalità che hanno sempre contraddistinto Gotham City siano rimaste immutate, la città non ha più nulla della metropoli cupa e fumosa che faceva da sfondo alle avventure di Batman. Perché Cathy Yan mostra la città attraverso gli occhi di Harley Quinn, dal suo punto di vista, e l’immagine che arriva è quella di un gigantesco luna park, di un’esplosione di colore e musica, in cui di Batman non resta altro che il simulacro di una iena che porta il suo nome.

Birds of prey è Harley Quinn, nient’altro. Un viaggio lisergico nel suo immaginario folle e complesso, ma soprattutto una celebrazione del suo potere ritrovato, della sua forza. Che ci siano o no dei nemici da combattere, o dei nuovi alleati, passano sicuramente in secondo piano rispetto a questo straordinario personaggio, che rispetto a Suicide Squad, qui ha finalmente il giusto respiro per raccontarsi e per scatenarsi, senza vincoli, senza freni. Libera dalla presenza ingombrante di Joker, Harley esprime finalmente a pieno il suo potenziale e diventa un’icona non meno potente del suo maestro, e soprattutto più sfaccettata e incontrollabile, portando alle stelle l’attesa per le sue prossime mosse.

Tonya, di Craig Gillespie

Tonya Harding (Margot Robbie) è un’ex campionessa di bassa estrazione sociale a cui l’infanzia è stata di fatto negata e che ha sgomitato in un mondo frequentato da giudici di gara snob che le hanno sempre preferito atlete meno talentuose ma dal sorriso perfetto, appartenenti a famiglie di gran lunga più gradite. Eppure è stata lei la prima statunitense a realizzare un triplo axel in gara, vincendo così le resistenze e l’ostracismo dell’ambiente.

Il primo incontro che facciamo con Tonya è quando all’incirca a 4 anni viene accompagnata dalla madre LaVona (Allison Janney) ad una scuola di pattinaggio. È una bambina bellissima, violentata nella psiche e nel fisico da una madre bieca, cinica e anaffettiva che le usa violenza fisica nessuna pietà. Crescendo Tonya incontrerà giovanissima il suo futuro marito, Jeff (Sebastian Stan): il loro amore durerà un battito di ciglia e lascerà spazio a percosse, ripicche e minacce di morte. Il tutto è ricostruito da brevi stralci di interviste che spesso e volentieri tendono a rinnegare quanto visto nel film, producendo un singolare effetto comico che stempera i toni drammatici delle vicende, che si concluderanno con l’aggressione alla pattinatrice artistica Nancy Kerrigan per cui la Harding – il cui ruolo nell’episodio incriminato non è così chiaro – verrà condannata a 3 anni di libertà vigilata e radiata a vita dalla federazione sportiva di appartenenza.

Girato nello stile del mockumentary, Tonya viene annunciato come un film “basato su interviste totalmente prive di ironia, contraddittorie e vere al 100% fatte a Tonya Harding e Jeff Gillool”. In questo modo il biopic consente ai suoi protagonisti di infrangere la quarta parete tramite l’espediente del camera-look e si avvale di un voice-over che ricorda da vicino l’artificio utilizzato nell’assordante circo di The Wolf of Wall Street. In realtà, per come è realizzato dal regista Craig Gillespie (Fright Night – Il vampiro della porta accanto, Million Dollar Arm, L’ultima tempesta), nel film (scritto da Steven Rogers), gli elementi che più ci impressionano non riguardano la ricostruzione di episodi della vita di Tonya, né la violenza che esplode in un singolo ed eccezionale snodo. La violenza interessante è quella che abita l’intera vita della protagonista: l’elemento per lei più famigliare, letteralmente e simbolicamente. Come indica il titolo originale (I, Tonya), il film intende metterci, finalmente, davanti alla verità di Tonya. Tonya è in protesta perpetua e prende le botte da tutti: non solo dalle rivali con cui, una volta smesso il pattinaggio, combatterà la boxe, ma dalla madre, dal marito, e in un certo senso pure da chi, durante le gare, non ammette di farla vincere perché non corrisponde ai canoni di “bella presenza” o non indossa un costume da cinquemila dollari. Tutto è scorretto nella sua vita, compreso il triplo Axel, un salto “fuori dalla norma” che di solito nemmeno si fa.

Un’altra tensione su cui si gioca il nucleo forte del film è la relazione. Da una parte la madre LaVona, una strepitosa Allison Janney, vincitrice di un meritato Oscar come attrice non protagonista, che cerca riscatto dalla miseria, lavorando disperatamente per cucire un destino di successo addosso alla propria figlia; o il marito Jeff, amato e scelto per evadere da una prigione di abusi e violenze, per poi rivelarsi un ennesimo motivo di frustrazione per Tonya (un Sebastian Stan baffuto è riuscito a trasporre queste caratteristiche in modo davvero essenziale, per un ruolo calzante e forse il suo migliore finora). Dall’altra Tonya, sempre profondamente sola in tutto ciò che la vita le sottopone, mai compresa profondamente nemmeno da se stessa. E se sono molti i punti che rendono Tonya oltre un grande biopic e uno dei migliori film dell’anno, a spiccare su tutto e tutti è una grandiosa Margot Robbie nei panni della protagonista. Nascondendo sotto un trucco importante i suoi perfetti e bellissimi lineamenti, l’attrice è riuscita a calarsi perfettamente in una parte molto complessa, dove a venire fuori doveva essere soprattutto una forte determinazione. La Robbie è così stata capace di indossare i pattini della controversa atleta, sfigurando nell’aspetto ma entusiasmando finalmente nella recitazione, mai così potente e sentita.