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RomaFF11 – Manchester by the Sea, di Kenneth Lonergan

A Manchester by the Sea, Massachusetts, fa freddo, un freddo che entra nelle ossa e resta intrappolato nel corpo fino a congelare il cuore. Ora più che mai Lee Chandler (Casey Affleck) sente quanto questo piccolo paese al limitare dell’oceano freddo e claustrofobico, proprio come la cella frigorifera in cui riposa il corpo del fratello. Solo poco tempo prima avrebbe sfidato il mare, il vento e persino la tempesta con la sua barca da pesca sgangherata pur di andare a pesca con Joe (Kyle Chandler) e suo figlio Patrick (Lucas Hedges), ma ora la paura la congela, lo immobilizza, e gli impedisce di andare avanti con la sua vita. Joe è morto all’improvviso e a lui è stata affidata la gravosa responsabilità di fare da tutore a Patrick, ma non è questo a bloccare Lee, ma il ricordo di qualcosa di terribile che pochi anni prima è accaduto proprio lì a Manchester by the Sea e che ha distrutto per sempre la sua vita.

Ora Lee lavora come custode di una palazzina a Boston, vive da solo in una stanza ammobiliata e passa le sue giornate tra piccoli lavori da tuttofare e le serate al bar, dove non di rado alza il gomito e viene coinvolto in una rissa. La su vita scorre così nel silenzio, nella solitudine e nella soppressione del dolore nell’alcol. La natura del suo dolore e della rabbia che lo corrode dall’interno rimane però inspiegata fino a quando non torna a Manchester by the Sea, e qui la sua vita passata inizia a scorrere nella sua mente così come sullo schermo in una serie infinita di flash back, che portano di nuovo in vita il suo terribile fatal flaw. Ogni angolo della città e ogni volto amico gli ricorda chi era prima e gli mostra chi potrebbe tornare ad essere se accettasse di occuparsi di Patrick, ma il peso della responsabilità di un altro essere umano è troppo gravoso da sostenere e il cammino della redenzione scavato nel ghiaccio che avvolge la città e i suoi abitanti.

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Manchester by the Sea è un film sull’accettazione della morte da parte di chi resta in vita, che accarezza tutte le fasi dell’elaborazione del lutto senza mai bruciare le tappe, ma prendendosi tutto il tempo necessario per sviscerare tutti gli stadi attraverso cui passa l’animo umano prima di accettare l’ineluttabilità dei fatti ed andare avanti. Ma per quanto questa possa sembrare un’operazione già alquanto ambiziosa il regista Kenneth Lonergan porta l’elaborazione del lutto su piani temporali diversi, fino a scavare nelle colpe del passato e nei traumi irrisolti che si ripercuotono sul presente. Il ritmo è lento ma scandito anche da una comicità sottile oltre che da un dolore imperante, in una costante alternanza tra commedia e dramma in cui Lonergan, noto soprattutto come sceneggiatore, mostra tutta la sua abilità nella scrittura oltre che dietro la macchina da presa, creando un affresco estremamente complesso dell’essere umano, catturato nel momento esatto in cui incontra la morte.

RomaFF11 – Swiss Army Man, di Daniel Kwan e Daniel Scheinert

Vita e morte si inseguono stravolgendo la linea del tempo in questo film apparentemente nonsense, ma che allo stesso tempo scava a fondo nell’animo umano per far emergere i segreti più nascosti, che in Swiss Army Man prendono la forma curiosa della miscela di gas che ogni uomo fatica a liberare in pubblico. Per quanto sembri assurdo il motore del film di Daniel Kwan e Daniel Scheinert sono proprio le flatulenze di Manny, un cadavere trasportato dalle onde sulla spiaggia in cui Hank sta per impiccarsi, e che si ritrova ad essere utilizzato come “coltellino svizzero” tuttofare dal ragazzo alla disperata ricerca di un aiuto per sopravvivere non solo nella foresta in cui è rimasto intrappolato, ma anche nella vita che lo aspetta una volta tornato a casa.

Il rapporto tra il cadavere in giacca e cravatta Manny (Daniel Radcliffe), e il sopravvissuto Hank (Paul Dano), è uno dei più strambi che si sia mai visto al cinema, disgustoso e commovente allo stesso tempo, a volte anche nella stessa scena, ma per quanto questa relazione possa sembrare bizzarra è funzionale per entrambi per ricominciare ad amare la vita dopo essere passati dalla morte. Perché se Hank nel suo nuovo amico in decomposizione trova una ragione per vivere nel momento in cui si propone di rimetterlo al mondo, insegnandogli tutto ciò che dimenticato, dai fondamenti del linguaggio, ai grandi classici del cinema, fino all’amore per le donne, Manny dal canto suo assorbe con così tanta voracità gli insegnamenti di Hank che gli sembra quasi di sentire il cuore battere di nuovo nel suo petto.

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Questa è la magia di Swiss Army Man, che rimane sempre in bilico tra ciò che è vero e ciò che è immaginato senza cadere mai, mettendo costantemente in discussione l’identità dei personaggi, il luogo in cui si trovano, e l’effettiva natura del loro rapporto. La genialità di Daniel Kwan e Daniel Scheinert sta proprio nel non dare mai risposte sensate, sospendendo l’incredulità in una serie infinita di colpi di scena, che di volta in volta propongono nuove chiavi interpretative del film. Chi è Hank e perché vuole uccidersi? Perché sceglie un cadavere come compagno di viaggio? E soprattutto, Manny e  è davvero un “morto vivente” o è solo un corpo morto in cui Hank proietta la sua sete di vita?

Non ci sono risposte giuste qui, né profonde riflessioni sulla vita e sulla morte, perché Swiss Army Man è quanto più lontano ci possa essere da un film didascalico. Questo film è l’esaltazione della follia, di tutte quelle immagini disturbanti e disgustose che mai vorremmo vedere al cinema, ma che misteriosamente mescolate insieme riescono a dare vita a qualcosa di incredibile, che sfugge alle definizioni ma che rimane impresso nella memoria, così come la brillante colonna sonora composta per l’occasione da Andy Hull e Robert McDowell, che si fa canticchiare per ore per non dimenticare l’assurda storia del ragazzo che odiava la sua vita ma che un giorno aveva incontrato un cadavere e grazie a lui aveva imparato ad amarla.

RomaFF11 – London Town, di Derrick Borte

Londra, 1979. La città più cool d’Inghilterra è dilaniata dagli scontri tra skinheads neonazisti e punk anarchici mentre l’inflazione sta portando la popolazione alla follia sotto montagne di rifiuti. Gli animi sono in fiamme e il rock inneggia alla ribellione trasformando i concerti in veri e propri campi di battaglia in cui la musica si mescola al sangue in folle oceaniche che neanche la polizia riesce ad arginare. In questo crescendo di rabbia verso la legge i The Clash si fanno portavoce del malcontento che imperversa tra le fila delle giovani generazioni, che rifiutano di piegarsi al sistema capitalista e non desiderano altro che spezzare le catene del passato per creare il futuro con le loro mani.

Il quattordicenne Shay è un figlio della sua epoca, uno di quelli per cui un concerto dei The Clash val bene un pugno in facciao una notte in cella, perché la musica è la sola cosa che ha un senso nella sua vita, la sola fonte di ispirazione in una famiglia economicamente ed emotivamente a pezzi, in cui il padre riesce a fatica a sbarcare il lunario con il suo negozio di pianoforti e sua madre è scappata a Londra per vivere in una comunità di bohemian. L’unica luce di speranza insieme alla musica è la sua amica Vivian, che lo inizia all’anarcho punk e lo segue passo dopo passo nel suo percorso di crescita attraverso i meandri di una città che chiama tutti a raccolta per la rivolta.

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Londra per Shay è una straordinaria avventura, costellata di incontri che vanno oltre ogni immaginazione, come quello con la madre scomparsa da ann, o quello con Joe Strummer, la voce dei The Clash, che nel film è interpretato da un ispirato Jonathan Rhys-Meyers. Le vibrazioni che sprigiona questa città gli cambiano la vita, glie la sconvolgono in un certo senso, trasformando la stagnante quotidianità in un’altalena di sentimenti, e Derrick Borte gli da ancora più risalto trovando nel punk il contrappunto ideale della vita di Shay, dalle esplosioni di rabbia, all’emancipazione dalla famiglia d’origine, fino ai problemi con la giustizia e alla scoperta dell’amore.

London Town di Derrick Borte è la voce di una generazione arrabbiata, pronta a scendere in campo per difendere i propri ideali e a  combattere la violenza con l’arma pacifista della musica, per spianare la strada a coloro che verranno dopo e che raccoglieranno l’eredità della rivoluzione e di una musica immortale, che a distanza di trent’anni continua ancora a risuonare con tutto il suo vigore nelle orecchie dei giovani arrabbiati e a spingerli a non arrendersi mai, ma a lottare sempre per quello in cui credono.

RomaFF11 – Captain Fantastic, di Matt Ross

Nella città ideale di Platone il potere dovrebbe essere messo nelle mani dei filosofi, gli unici in grado di governare con saggezza per la loro innata sensibilità e curiosità intellettuale. Un’idea senza dubbio avanguardista, che però con il tempo è diventata sempre più vicina un’utopia che a una realtà concreata, visti i ritmi frenetici che travolgono il mondo moderno, svuotato di cultura e governato dalla tecnologia invece che dal pensiero. Solo pochi uomini illuminati riescono a non farsi schiacciare dagli ingranaggi di questo falso potere e Captain Fantastic (Viggo Mortensen) è uno di questi.

Ritiratosi a vita privata nelle foreste del nord America insieme ai suoi sei figli, questo straordinario papà ha scelto di allevare un esercito di re-filosofi, temprati dalla natura invece che dalla televisione, e stimolati alla riflessione sulla vita, alla lettura dei classici, all’ascolto della musica e allo studio delle lingue. La loro vita è quanto più lontano possa esistere dalle convenzioni sociali, dalla celebrazione del Natale, più saggiamente sostituito dal compleanno del linguista Noam Chomsky, a quella dei funerali, che non prevede abiti scuri e tristi riti religiosi, ma canti gioiosi in riva al lago e falò purificatori. Ma per quanto le abilità intellettuali dei ragazzi superino di gran lunga quelle dei loro coetanei, la loro capacità di interazione è inversamente proporzionale alla loro sconfinata cultura, e nel momento in cui si trovano ad entrare in contatto con la società tanto denigrata i loro valori vengono messi in discussione e anche il loro “fantastico” papà inizia a interrogarsi su quali scelte di vita siano preferibili per il bene dei suoi ragazzi.

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L’anticonformismo è sempre un bene? Questa è la domanda Matt Ross pone allo spettatore, invitandolo a riflettere sugli effetti positivi e negativi di uno stile di vita alternativo, completamente basato sul dialogo costruttivo, ma allo stesso tempo precluso al confronto con chi la pensa diversamente. Ed è qui che Captain Fantastic sfugge dalla demagogia per diventare un film che spalanca le porte alla riflessione e punta tutto sull’incontro-scontro tra utopia e realtà in cui non ci sono né vincitori né vinti, solo uomini alla ricerca del modo migliore di vivere.

In questa costante ricerca dell’equilibrio tra libertà del pensiero e conformismo, Ross trova il contrappunto perfetto in una messa in scena eccentrica, che attinge a una tavolozza di colori brillanti ma che ciò nonostante non disciolgono la drammaticità dei contenuti nell’eccentricità, al contrario la esaltano nel contrasto degli estremi. E così Captain Fantastic diventa il punto in cui correnti di pensiero totalmente opposte trovano il loro punto di congiunzione in un mondo ideale ma estremamente concreto.

RomaFF11 – Matt Dillon presidente di giuria per Alice nella città

L’attore e regista statunitense Matt Dillon è sbarcato alla Festa del Cinema di Roma in qualità di Presidente della Giuria del premio Camera D’Oro Taodue per la sezione Alice nella Città, mostrando grande entusiasmo per questa esperienza.”È la prima volta che mi trovo nei panni del presidente di giuria e devo ammettere che è un compito alquanto difficile giudicare un film, perché avendo lavorato sia come attore che come regista so bene quanto sia difficile, ma in questo caso il livello dei film è straordinario e pur essendo ospite in una città meravigliosa ho accettato volentieri di passare diverso tempo in una sala cinematografica per vedere i 12 film in gara”.
Matt Dillon, noto per le sue memorabili interpretazioni in Rusty il selvaggio, Tutti pazzi per Mary e nella più recente serie TV Wayward Pines, ha scelto di affiancare la carriera di attore a quella di regista e, dopo aver debuttato nel 2002 con City of Ghosts, è nuovamente impegnato in un progetto cinematografico che lo vede dietro la macchina da presa: “È da molto tempo che non faccio il regista, e non perché questa esperienza non mi sia piaciuta ma perché nasco come attore e questa è una benedizione e una maledizione allo stesso tempo. Il film che sto realizzando è un documentario su Francisco Fellové, conosciuto nel mondo del jazz come El Gran Fellové. Le riprese sono iniziate nel 1999, quando il cantante stava incidendo il suo ultimo disco, ma non avevo ancora usato il materiale che avevo girato. Ora è giunto il momento di farlo”. Ma cosa significa essere un attore e un regista allo stesso tempo? “Siamo quello che siamo perché dipendiamo dalle circostanze. Questo documentario pur non trattando di me è molto personale, perché parla di un uomo povero, di un nero vissuto in un’epoca in vivere a Cuba non era semplice ma che è riuscito a superare le difficoltà.  Essendo un attore mi ritengo molto fortunato perché faccio un lavoro che amo, ma ciò nonostante non dimentico le mie origini. Quello che cerco in un film è l’autenticità e i film in concorso qui a Roma trattano di tematiche che riguardano i giovani e le difficoltà da superare, per questo sono onorato di far parte di questa giuria, perché spero di poter dare ad almeno uno di loro una chance per sfondare nel mondo del cinema”.

RomaFF11 – Incontro con Viggo Mortensen per Captain Fantastic

Viggo Mortensen, il Captain Fantastic di Matt Ross, ha presentato il suo ultimo film alla Festa del Cinema di Roma, raccontando il suo rapporto con il personaggio e con il suo stile di vita alternativo.”Quello di Captain Fantastic è uno dei copioni più belli che mi sia mai capitato di leggere. – ha detto Mortensen – La storia di questo personaggio, padre di sei figli, che vive nella foresta lontano dal mondo, è un viaggio emotivo straordinario.  All’inizio dal titolo pensavo si trattasse di un supereroe e in un certo senso lo è per la costanza con cui mantiene il suo stile di vita alternativo e si oppone alle idee conservatrici. Di solito quando scelgo di fare un film non penso al budget in ballo o all’impatto che avrà sullo star system, ma scelgo di far parte di storie che io stesso andrei a vedere al cinema, storie come questa. Forse tra me e il mio personaggio c’è qualche elemento di analogia, perché nella vita mi piace essere onesto  e sono d’accordo con un modello di famiglia basato sull’onestà, sulla curiosità e su un dialogo aperto, ma non sono così estremo. Questo papà si rivolge ai figli piccoli parlando di sesso, morte, e malattie mentali come se avesse davanti degli adulti, io invece sono più cauto con determinati argomenti. Ma ciò che amo di più di questo film è che non ci sono buoni e cattivi, perché tutti amano questi sei ragazzi e tutti in qualche modo sono condizionati dal dolore. Quindi la magia sta nel fatto che tutti attraverso questo viaggio on the road cambiano gradualmente punto di vista compreso il protagonista, che non si piega mai completamente alla società, ma si apre ad uno stile di vita più tollerante”.

RomaFF11 – 3 Generations. Una famiglia quasi perfetta, di Gaby Dellal

Ray è un ragazzo intrappolato nel corpo di una ragazza, un’adolescente che da quando ha memoria non desidera altro che svegliarsi una mattina e come per incanto riconoscersi nell’immagine che vede riflessa nello specchio. Con il passare del tempo il desiderio di Ray (Elle Fanning) è diventato sempre più bruciante e la sofferenza che gli causa ogni giorno la sua situazione, tra atti di bullismo e amori impossibili, ha convinto sua madre Maggie (Naomie Watts) a consultare un medico per iniziare la terapia ormonale che trasformerà per sempre sua figlia in un ragazzo. Il percorso che Ray dovrà affrontare è lungo e faticoso ma soprattutto difficile da accettare non solo per sua madre, ma anche per sua nonna Dolly (Susan Sarandon), nonostante conviva felicemente con una donna e si sia battuta sin dai primi anni ’70 per la parità dei diritti degli omosessuali.

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Con una mamma single e una nonna lesbica dichiarata la famiglia di Ray è sicuramente poco convenzionale e lontana da un’ideologia tradizionale bigotta, ma è proprio questo che rende 3 Generations di Gaby Dellal un film fresco e originale, lontano dal raccontare l’incomprensione tra generazioni diverse, e che invece si concentra sull’incontro spirituale di queste tre donne in una situazione che richiede grande coraggio e una mente priva di barriere. Ray, Maggie e Dolly sono chiamate ad affrontare i cambiamenti, a guardare oltre l’identità sessuale per soffermarsi sull’essenza delle persone più che sulla forma, e soprattutto ad accogliere per la prima volta nella loro casa l’uomo che mancava.

Gaby Dellal sorprende per la delicatezza con cui sa raccontare questa storia nei colori pastello delle emozioni, da un punto di vista che è esplicitamente quello di una donna introspettiva e misurata, a cui non interessano le tragedie familiari urlate, ma i sentimenti sussurrati, e che sa accompagnare i suoi spettatori per mano verso un futuro in cui l’identità sessuale abbandonerà le tinte forti del pregiudizio per accarezzare tutte le sfumature dell’essere umano.

RomaFF11 – Incontro con Oliver Stone per Snowden

Il regista americanoOliver Stone ha presentato alla Festa del Cinema di Roma Snowden, il biopic su Edward Snowden, il whistblower più famoso del mondo, ex tecnico della CIA e consulente informatico della NSA, che nel 2013 ha rivelato al giornalista del The Guardian Glenn Greenwald e alla documentarista Laura Poitras i segreti dei sistemi di sorveglianza di massa delle comunicazioni perpetrati dal governo statunitense per garantire la sicurezza nazionale a discapito di tutte le leggi di tutela della privacy. “Era una storia complicata e imponente – ha dichiarato Stone – perché le informazioni in possesso di Snowden erano così complicate che bisognava interpretarle prima di poterle rivelare. Con questo film ho voluto rendere più chiaro questo messaggio, e risvegliare l’attenzione su quanto è accaduto, perché ci riguarda da vicino ed è una questione ancora aperta, visto che Snowden si trova ancora in Russia in attesa di ricevere un giusto processo negli Stati Uniti”.

Questo film affronta delle questioni molto delicate, dalla sicurezza nazionale, al controllo dei cittadini da parte del governo, fino al coinvolgimento diretto di figure politiche di spicco nella vicenda Snowden come Barack Obama. “Obama si è messo in questa situazione con le sue stesse mani. Ha avuto l’occasione di cambiare le cose e non l’ha fatto. Confesso che all’inizio della mia carriera ero conservatore, ma poi sono rimasto sconcertato da ciò che è accaduto in Vietnam e ho cambiato radicalmente orientamento e anche il mio cinema ha sempre seguito le questioni politiche molto da vicino. Snowden ha avuto un grande coraggio, al punto che la sua malattia spirituale è sfociata nell’epilessia, e proprio per questo dobbiamo accogliere il suo invito a stare sempre attenti alle informazioni che ci scambiamo online, perché dall’osservazione dei terroristi si è passati all’osservazione di massa”.

RomaFF11 – Premio alla carriera a Tom Hanks

Nel corso della Festa del Cinema di Roma è stato assegnato il premio alla carriera a Tom Hanks, ora al cinema con Inferno di Ron Howard, ed è stata dedicata all’attore una retrospettiva che comprende tutti i film che lo hanno reso più famoso, dalle commedie romantiche Insonnia d’amore e C’è post@ per te, fino a Forrest Gump, Cast Away e Prova a prendermi. Non penso ai film del passato – ha commentato Tom Hanks – perché anche se li rivedo non cambiano, e mi ricordano solo che sono invecchiato. Ad oggi mi reputo davvero fortunato perché ho fatto un di lavoro imponente e nonostante il passato del tempo continuano ancora a coinvolgermi in nuovi progetti, quindi vuol dire che il mio lavoro viene ancora apprezzato. Poi ogni film è diverso, ogni esperienza è nuova e ogni qualvolta mi viene proposta una sceneggiatura cerco sempre di seguire l’istinto, e non me ne sono mai pentito. Non è facile dire no a un film perché ti pagano, puoi baciare una bella ragazza, viaggiare o lavorare con un direttore della fotografia che ammiri, ma a volte ci sono aspetti che non ti interessano e non richiedono la passione assoluta che dovrebbe esserci. Quando non sei felice di alzarti la mattina per girare non vale la pena accettare”.

In una carriera così lunga capita di restare legati a un certo tipo di personaggio? “Spesso ho interpretato il ruolo del buono della situazione, pur avendo un un modo di pormi che potrebbe funzionare anche da cattivo. Come attore non ho intenzione di interpretare il tipico cattivo che digrigna i denti, però ci sono dei ruoli in cui sarei credibile anche come cattivo. A me piacciono i film in cui protagonista e antagonista si sorreggono su basi solide, quindi avrei il piacere di fare l’antagonista avendo motivazioni sensati, senza diventare un archetipo”.  Quindi potrebbe essere considerato l’ultimo erede di una tradizione americana di ruoli fortemente morali? “Non metto moralità nei miei ruoli. Con Spielberg ho lavorato su Salvate il soldato Ryan e non so se in questo caso si possa parlare di moralità. Per Prova a prendermi invece mi sono relazionato con degli agenti dell’FBI a cui piaceva mettere i cattivi in carcere per fare del bene e in quel caso sì c’è una moralità. Poi in The Terminal e volevo rendere omaggio a mio suocero fuggito dalla Bulgaria e in Il ponte delle spie volevo esplorare la storia politica. Quindi non decido quale film fare in base alla moralità del mio personaggio ma inbase al desiderio di interpretare personaggi diversi ed entrare in vite diverse. Oggi potrei essere qui a promuovere Forrest Gump 8,  e forse sarebbe anche economicamente vantaggioso, ma non avrebbe senso, perché la cosa più interessante è ripartire sempre da zero. Dopotutto Il bello è andare al cinema e vedere qualcosa che non ci si aspettava di vedere”.