It Follows, di David Robert Mitchell

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“È strano. Fantastichiamo su quando saremo grandi abbastanza per avere un appuntamento, gli amici con la macchina. Ho sempre immaginato come sarebbe stato tenere per mano un ragazzo carino, ascoltare la radio e viaggiare, forse verso nord, mentre gli alberi iniziano a cambiare colore. Non si tratta di andare da qualche parte, ma di essere liberi, immagino”.

L’adolescenza è attesa, sogno, idealizzazione di una vita che sta per iniziare, e di cui si possono appena percepire i profumi nei caldi pomeriggi d’estate, in cui ci si riunisce con gli amici per vedere insieme un film di paura, per attraversare la città in bicicletta e poi tuffarsi in piscina, ma soprattutto per condividere i turbamenti d’amore, la curiosità e l’emozione per quello che sta per accadere e che è ancora una fantasia. Ma è anche il momento in cui per la prima volta si cammina da soli sul filo sottile che separa il bene dal male e, ondeggiando tra gli ammonimenti dei genitori, i consigli degli amici e l’attrazione irrefrenabile verso ciò che è sconosciuto ed eccitante, si fanno le scelte più importanti della vita, senza che nessuno segni la strada giusta da seguire.

L’attrazione fatale verso l’ignoto, unita alla sconsideratezza tipica della’adolescenza, porta la diciannovenne Jay (Maika Monroe) dritta tra le braccia di Hugh (Jake Weary), un ragazzo di cui non sa nulla ma che ai suoi occhi ha le sembianze del principe azzurro che la porterà per mano verso il suo sogno romantico. Come spesso accade il suo si infrange all’alba, in un amplesso sui sedili posteriori di un’auto parcheggiata in riva al lago, ma l’amarezza della delusione viene soffocata dalla paura all’istante. Jay si risveglia senza vestiti e incatenata a una sedia a rotelle in un casolare abbandonato, e questo è solo il principio. Il ragazzo misterioso con cui è appena andata a letto le confessa di averle trasmesso qualcosa, una malattia, una presenza sconosciuta che la perseguiterà per il resto dei suoi giorni e che non si fermerà fino a che non l’avrà uccisa. L’unico modo per liberarsene è trasmetterla a qualcun altro.

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Il sesso è la maledizione e il suo antidoto, quello da cui tutto ha inizio e che tutto può curare. Perché non c’è altro modo per fermare questa cosa, questa presenza oscura, che può assumere qualunque forma, quella di uno sconosciuto tra la folla o quella di una persona cara, chiunque la aiuti ad avvicinarsi alla sua vittima. Questa cosa non pensa, non ha pietà e non si ferma, il suo unico obiettivo è uccidere colui che porta addosso la maledizione. Ed è da questa sensazione di impotenza che nasce l’orrore, dall’inquietudine di essere costantemente braccati da un male invisibile che serpeggia tra la folla e che non si può eludere, né tanto meno uccidere. Il gioco al massacro messo in scena da David Robert Mitchell non prevede spargimenti di sangue, ma una caccia silenziosa e spietata da parte di una presenza che ogni volta si incarna in corpo diverso, sempre più spaventoso, e che ha come unica arma il potere di comparire all’improvviso e di trascinarsi lenta verso la sua vittima fino a che non si abbandona al suo triste destino.

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David Robert Mitchell ha confessato di aver preso spunto per il suo film da un incubo ricorrente che aveva da bambino, quando sognava di essere inseguito da qualcosa di lento, ma sempre presente, come poteva essere un ragazzino nel cortile della scuola che camminava dritto verso di lui e continuava a seguirlo fino a casa. E la stessa angoscia che provava nei suoi incubi Mitchell l’ha trasposta alla perfezione nei suoi personaggi, che non fanno altro che guardarsi alle spalle e scappare, nascondersi per poi scappare ancora, tutto pur di liberarsi di una maledizione che non gli lascia scampo. Le stesse emozioni le prova lo spettatore, che percepisce la minaccia insieme ai personaggi, e non è aiutato in alcun modo dalla cinepresa nell’individuazione del pericolo, ed è costretto a cercarlo sullo schermo fino a che non arriva, ed è solo allora che lo sente, vicinissimo.

Il grande potere di It Follows e ciò che lo distingue da tutti gli horror che negli ultimi anni hanno infestato le sale cinematografiche è proprio la straordinaria capacità di generare la paura allo stato puro, di attaccare addosso allo spettatore la sensazione di avere una presenza maligna alle spalle, che può saltargli alla gola in qualunque momento. E poi c’è uno stile visivo raffinato, realistico nei frequenti long take e onirico nelle panoramiche e negli zoom, che creano nello spettatore un senso di disagio generale e di disorientamento rispetto alla storia. Lo spazio e il tempo sono sospesi, non dichiarati, perché l’unico tempo che conta è il tempo della paura, del gioco al massacro tra la vittima e ciò che la insegue, e per accentuare questo stato di tensione continua il film è costruito  in maniera tale da non far capire con esattezza se là fuori ci sia qualcosa o meno. L’unico modo per scoprirlo è guardarsi sempre alle spalle e aspettare che qualcosa accada, godendosi ogni fremito di quell’attesa straziante.

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