Song to song, di Terrence Malick

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Austin è l’unico posto al mondo in cui la musica si respira, si assapora, e si vive fino in fondo. Non c’è musicista o aspirante tale che non si sia lasciato trasportare dal ritmo di questo luogo straordinario, mitico a tratti, dove un festival musicale ne insegue un’altro e country, folk, blues, new wave, punk o rock si mescolano in un’unica armonia. Talvolta il ritmo frenetico di Austin fa girare la testa, ma l’unica maniera per scoprire la propria identità è perdersi tra le pieghe della capitale mondiale della musica live, farsi risucchiare dal vortice dei concerti e della vita mondana, incontrare gli artisti, innamorarsi, e lasciare che qualcuno di loro ti cambi la vita, che sia con un bacio o con una canzone.

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Di canzone in canzone e di bacio in bacio, la giovane cantautrice Faye (Rooney Mara) si tuffa a capofitto nella vita musicale di Austin, facendosi rapire prima dalla sensualità esplosiva del suo produttore Cook (Michael Fassbender), impegnato con la cameriera Rhonda (Natalie Portman), e poi dalla dolcezza ingenua di BV (Ryan Gosling), la sua anima gemella musicale. La musica li nutre, li attrae l’uno all’altro più del sesso e li lega in un triangolo amoroso dal quale è impossibile uscire. Ed è proprio in questo momento che il regista Terrence Malick entra nelle loro vite, di soppiatto, senza far rumore, solo per danzare con loro. Sembra quasi che i personaggi vengano scoperti quasi casualmente dalla macchina da presa, che si avvicina ai loro volti tanto da annullare il confine tra l’inquadratura e la loro pelle, ma non tanto da infrangere la loro intimità.

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La loro danza scorre leggera, lenta, come un flusso di adrenalina costante. E loro non fanno altro che volteggiare, attorcigliarsi, abbandonarsi alla bellezza della natura che li ingloba. Ancora una volta Terrence Malick si dimostra un maestro dell’arte mimetica, capace di catturare gli sguardi e i comportamenti discreti e attraverso questi narrare la sua storia. E le immagini mostrate sono talmente magnetiche da ingoiare i dialoghi, lasciando che siano i corpi a parlare, e ancora di più gli spazi in cui si muovono, rappresentazione speculare del loro continua ricerca della perfezione estetica.

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La fotografia fluida di Lubezki impreziosisce la pellicola e riesce a far emergere il lato oscuro e nascosto dei personaggi con un collage di inquadrature studiate in ogni dettaglio, estreme in alcuni casi, ma talmente potenti da risucchiare lo spettatore dentro all’immagine stessa, fino all’abisso in cui sono imprigionati i personaggi. La firma di Malick è evidente in ogni scena, così come la sua capacità di far intravedere l’inferno dietro l’apparenza del paradiso, la corruzione dietro la perfezione, e di affascinare chi nel cinema cerca l’immagine sopra ogni cosa.

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