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Sei ancora qui – I still see you, di Scott Speer

Sei ancora qui dimostra che una storia avvincente, filmicamente ben orchestrata, vale più di centinaia di minuti spesi per un prodotto in CGI con gli attori più in vista del momento a fare i fighi davanti ad un green screen.

Sei ancora qui è un thriller sovrannaturale basato sul romanzo young adult di Daniel Waters Break my heart 1000 times, finora inedito qui da noi; ma niente panico: dal 2 ottobre 2018 il libro sarà disponibile per l’acquisto con lo stesso titolo italiano del film di Scott Speer [Step Up Revolution, Il sole a mezzanotte – Midnight Sun], edito da Sperling & Kupfer, ormai la storica casa editrice di Stephen King e Dean Koontz, per citarne due a tema.

In seguito ad un incidente catastrofico, avvenuto in un laboratorio di ricerche di Chicago, gran parte della popolazione è morta ma non ha abbandonato definitivamente il suo posto.

«Una parte di loro è rimasta. Li chiamiamo “i redivivi”».

Non si tratta dei soliti zombie e nemmeno di ectoplasmi più o meno appiccicosi, né tantomeno di poltergeist che possano infestare i luoghi a cui sono in qualche modo legati. Si tratta invece di presenze, che sono state rese un po’ più materiche di un ologramma dalle particelle sprigionate dall’esplosione nell’atmosfera terrestre, e che, però, si dissolvono come una nuvola di fumo condensato non appena un vivo le sfiora.

«Quando muoriamo lasciamo dietro di noi come una scia. Queste scie sono delle tracce che ci possono condurre indietro per interagire con i vivi».

Una situazione paradossale in cui il bambino protagonista de Il sesto senso di Shayamalan non si sentirebbe di certo più a disagio: è un mondo in cui i morti camminano, mangiano, dormono – in una parola “vivono” – con i vivi.

In questo mondo distopico in cui le barriere tra vita terrena e aldilà hanno subito in qualche modo un cambiamento radicale, le anime sono bloccate in un piccolo loop: appaiono ai vivi in un episodio di routine quotidiana, come il residuo che rimaneva a volte sugli schermi tv catodici quando si spegneva, ma non interagiscono in alcun modo con loro.

Ognuno può continuare a vedere, perciò, i propri cari, ma non solo… Senza interagire, senza poter comunicare e senza che essi possano in alcun modo interferire con i sopravvissuti. Queste sembrano le regole non scritte che valgono per tutti. Tutti tranne uno, che sembra voler a tutti i costi comunicare qualcosa ad una ragazza: Veronica Calder, soprannominata Ronnie, diciassettenne inquieta che non ha mai elaborato il lutto che l’ha colpita, che ogni mattina fa colazione con il padre perso nel famoso Incidente e che tutti i giorni saluta la madre e passa oltre un vicino di casa anch’esso morto oppure, in sella alla sua bicicletta, passa letteralmente attraverso un’anziana che tutti i giorni alla stessa ora cammina in mezzo alla strada nello stesso punto.

Ma Ronnie oltre al compianto papà, e ai vicini, ora vede un’altra presenza in casa. Si tratta di un ragazzo a lei sconosciuto. Lo spirito che vuol comunicare con lei sembra avere uno scopo, una volontà che lo rende diverso dagli altri fantasmi; la segue ovunque, le appare ovunque, non solo nella sua routine residuale. Cosa le vorrà comunicare? Le sue intenzioni saranno meramente platoniche o terribilmente malvagie?

«Ho paura che voglia farmi del male».

Per scoprirlo Ronnie si farà aiutare da un ragazzo asociale ed emarginato come lei, Kirk – interpretato da Richard Harmon [Percy Jackson e gli dei dell’Olimpo – Il ladro di fulmini, Judas Kiss, Adaline – L’eterna giovinezza], e dal suo insegnante di liceo, il professor Bittner – un convincente Dermot Mulroney [Il matrimonio del mio migliore amico, Insidious 3 – L’inizio, Truth – Il prezzo della verità].

 «Sai che qualcosa sta per accadere, vero?».

Ronnie è interpretata da Bella Thorne [La babysitter, Il sole a mezzanotte – Midnight Sun], che aveva già lavorato con il regista e la scelta di affidare a lei il ruolo della protagonista si è rivelata azzeccatissima: l’attrice sa essere convincente nella profonda tristezza che deve trasmettere al pubblico insieme alla frustrazione e al senso di colpa perché all’età di 9 anni ha perso davvero il padre e ha vissuto nascondendo nel profondo dell’animo gli stessi sentimenti del personaggio che è chiamata ad interpretare nel film. Il tocco in più quella parrucca nera che le conferisce un dark mood perenne, quasi voglia reprimere una evidente bellezza per autopunirsi.

I temi della perdita degli affetti e della pena autoinflitta, della presenza casuale a fronte di un’assenza forzata, dell’impossibilità di costruire legami terreni come di spezzare i vincoli con ciò che non c’è più assumono l’aspetto di una punizione estrema, potenzialmente infinita sia per i vivi sia per i morti. Come questo continuo trovarsi davanti il proprio oggetto dell’elaborazione del lutto non porti alla pazzia i personaggi lo sanno solo scrittore e sceneggiatore.

La reiterazione dell’episodio vitale dei cosiddetti “redivivi” congela una loro scena quotidiana come il cinema “immortala” una sequenza di fotogrammi. Un famoso critico dei Cahiers du cinéma, André Bazin, nel suo saggio Morte ogni pomeriggio, si scagliava contro chi spettacolarizzava la morte come fosse un atto superficiale e teorizzava un’origine psicanalitica di questa ossessione delle arti plastiche, e quindi anche del cinema, per la morte e la considerava legata ad un “complesso della mummia”: l’uomo avrebbe infatti il bisogno primordiale di difendersi dal tempo e il cinema assolve questa esigenza, perché “fissa artificialmente le apparenze carnali dell’essere” per “strapparlo al flusso della durata: ricondurlo alla vita”, realizzando il nostro inconscio desiderio di “rimpiazzare il mondo esterno con il suo doppio” e avere l’illusione di sconfiggere il tempo.

Oltre a tutte queste tematiche legate alla morte, in Sei ancora qui è presente un riferimento neanche troppo velato all’11 settembre. Forse anche più di uno, ma lascio che sia la sensibilità dello spettatore a cogliere questo genere di connessioni tra film e vita reale.

Al fine di ottenere il massimo impatto drammatico, in scene che dovevano esprimere anche epicità e mistero, sono stati adoperati gli obiettivi anamorfici Hawk, montati su una immancabile ARRI® Alexa, ed è stata fatta una scelta non si sa quanto dettata dall’economia, ma sicuramente ben giustificata dal regista: «non volevamo fare un film interamente in CGI – spiega Speer – volevamo un film drammatico portato avanti dalla recitazione dei protagonisti in cui ogni tanto potevano comparire degli effetti speciali» e per le sequenze in cui compaiono alcuni personaggi che poi spariscono nel nulla «giravamo l’intera sequenza e poi, con la mdp che ancora registrava, chiedevo all’attore che impersonava il fantasma di camminare fuori dall’inquadratura. La mdp così poteva riprendere tutto ciò che si trovava sullo sfondo. Dopodiché mandavamo tutto alla VFX Cloud di Vancouver. Quelle scene le abbiamo girate in digitale, ma avresti potuto farle anche 100 anni fa, perché fondamentalmente si tratta di una semplice doppia esposizione».

Curioso che dopo i passi in avanti delle tecniche CGI per avere effetti speciali strabilianti si torni indietro nel tempo alla sovraesposizione.  Ma non è il solo elemento vintage addicted molto evidente inserito dal regista, che ha reso palesi i suoi riferimenti cinematografici di genere: «Alfred Hitchcock è stato il mio punto di riferimento per quello che riguarda la messa in moto dei sentimenti di paura e per bilanciare al meglio la tensione tra le emozioni; c’è molto di Vertigo – La donna che visse due volte e alcune influenze di Psycho. Gli horror odierni sono ben fatti ma alla fine, per far spaventare davvero, mi sono dovuto ispirare alla vecchia scuola». Come dargli torto?

Molto lontano dall’essere un capolavoro da rivedere spesso, il Sei ancora qui di Scott Speer, grazie a tutta questa attenzione nei confronti della storia, dei sentimenti e del mistero, si segue volentieri e riesce nell’intento di suscitare qualche riflessione, magari non sul senso della vita ma sicuramente sull’ossessione: che sia per la morte, per la conoscenza o per la verità è un’ossessione che probabilmente avrà un seguito…

In molti si sono chiesti perché far uscire film e libro a settembre e non in un periodo horror-friendly o sfruttando il clima invernale da neve, dato che il film cerca dichiaratamente «quella sensazione di inverno permanente» che c’è in Se7en di David Fincher.
La scelta di far uscire il film di 27 settembre non convince ma è spiegabile con dei ragionamenti di marketing basilari: Sei ancora qui si svolge più che altro in ambiente e periodo scolastico; a settembre il ritorno tra i banchi di scuola spinge il target giovanile di riferimento verso un luogo di evasione che può essere il cinema; pur non essendo ben marcata è presente una venatura horror, ma non tale da propendere per il periodo di Halloween quando in un film si cerca qualcosa di meno profondo e più goliardico; in più, uscendo in sala ora, può puntare a fare cassa a febbraio con il mercato homevideo.
Tutto ha una spiegazione tranne la morte.

Ready Player One, di Steven Spielberg

Ready Player One di Steven Spielberg è un concentrato di avventure e prove svolte su due piani narrativi differenti, il reale-filmico e il virtuale-filmico che dialoga in continuazione con la realtà spettatoriale con citazioni metamediali, che spaziano dal linguaggio verbale a quello cinematografico, dal musicale al letterario, dalle allusioni a videogiochi moderni fino al rispolvero di retro arcade da sala giochi anni ’80, il tutto mantenendo altissimo il ritmo adrenalico. Il cuore di ogni nerd, geek, cinefilo o gamer può battere all’impazzata, si sconsiglia l’assunzione di troppi zuccheri e sostanze eccitanti prima o durante la fruizione del film.
La visione di Ready Player One è caldamente raccomandata ad un pubblico che sappia ancora cosa vuol dire sognare, che abbia voglia di ritrovare il proprio passato proiettando se stesso in un futuro fantasticamente verosimile. Quindi che cosa state aspettando? Non leggete tutta la recensione! Andate a vederlo subito! Diventate anche voi gunter alla ricerca di tutti gli easter egg sparsi nelle inquadrature. Mettetevi alla prova, lasciatevi coinvolgere. Giocate e non ne rimarrete delusi. È questo lo spirito del film, nonché il messaggio che Ernest Cline trasmette con il suo bestseller da record. Se non ci sono chicche negli end credit immaginate quanto ogni fotogramma sia zeppo di materiale di omaggio alla cultura pop! Se non mi credete continuate a leggere, ma non farò spoiler, al massimo qualche esempio di questi riferimenti.

Iniziamo dalla storia, fondamento imprescindibile di qualsiasi produzione artistica:

Ready Player One è la storia di Wade, un ragazzo che, come tanti altri utenti, in un futuro distopico, “vive” una realtà virtuale attraverso il suo avatar. Il creatore del mondo immaginario a cui si connette, idolatrato da lui come da tutti, è deceduto e ha invitato tutti ad intraprendere una ricerca che ha come premio la sua eredità: chi supererà le tre prove otterrà tre chiavi, le tre chiavi permettono di conoscere altrettanti indizi per raggiungere l’obiettivo finale che consiste in un easter egg che, nella realtà live action, si traduce in quote azionarie della società sviluppatrice del software e rendono chi ne è in possesso il suo proprietario assoluto. Per raggiungere l’obiettivo non basta essere dei bravi giocatori, occorre conoscere anche il più piccolo dettaglio della biografia dell’autore, condividere il suo amore per la cultura popolare e avere a cuore, forse più di lui, i migliori sentimenti che governano il mondo reale.

Ci sono tutti gli ingredienti del racconto immortale: nella trama di Ready Player One si annodano in maniera perfetta e indissolubile gli elementi del viaggio dell’eroe di Vogler, lo studio dei miti di Campbell e molte delle funzioni della fiaba analizzate da Propp, shakerate con le esigenze della narrativa cinematografica contemporanea. L’eroe riluttante che risponde al richiamo dell’avventura da cavaliere solitario, ma sotto mentite spoglie, per intraprendere una quest in una dimensione altra in cui ognuno è un mutaforma grazie agli ultimi ritrovati della hi-tech. Dovrà superare prove che hanno il retrogusto del rito d’iniziazione e imparare lezioni di vita: imparare a distinguere gli amici dai nemici e capire se si cerca nei sogni ciò che non si può avere nella realtà o se è la realtà a generare la materia di cui sono fatti i sogni.

È il 2044, il mondo è stato colpito da una grave crisi energetica e, l’economia, di conseguenza, è giunta al collasso. Il divario tra indigenti e classi agiate è diventato sempre più evidente. Ma una via d’uscita, seppur illusoria e temporanea, c’è: si tratta di Oasis, una simulazione virtuale in cui le persone possono fuggire dalla vita quotidiana ed essere, durante l’arco di tempo della connessione, tutto quello che hanno sempre voluto essere: un supereroe, un mostro divoratore di uomini, un cavaliere senza macchia e senza paura, una modella supersexy, Freddy Krueger, Michael Jackson, Batman. Ognuno può scegliere di rivivere potenzialmente all’infinito ricordi e avventure del proprio passato o prendere parte a qualche avvenimento della storia del cinema, esplorare galassie lontane. L’unico limite a tutto questo è l’ immaginazione.

«La gente viene su OASIS per tutto quello che si può fare. Ma ci rimane per tutto quello che si può essere.»

Ma nel mondo reale c’è chi vorrebbe porre un limite anche economico all’utilizzo di Oasis e sfruttare questa tecnologia per il proprio tornaconto personale, per arricchirsi e ottenere sempre più potere. Si tratta di Nolan Sorrento [Ben Mendelsohn, Rogue One: A Star Wars Story, L’ora più buia], passato da stagista porta caffè, con ambizioni di potere e brama di denaro, a villain multitasking che riesce nell’impresa di tramare su due realtà diverse anche se profondamente interconnesse. Con la sua società di hardware appositamente sviluppati per giocare, la Innovative Online Industries (IOI), inventa nuovi prodotti e tecniche di guerrilla marketing per aumentare il fatturato e puntare a diventare il proprietario assoluto di Oasis. Ovviamente ridurre sul lastrico gli utenti non intacca minimamente la sua immoralità. Il modo che Nolan propone per gestire Oasis sarebbe l’esatto opposto dell’idea primordiale. Oasis è stato concepito come una fuga dalla realtà decadente e l’accesso è stato sempre rivolto a tutti indistintamente.

Il creatore di questo paradiso multisensoriale è James Donovan Halliday [Mark Rylance, Il GGG – Il grande gigante gentile, Dunkirk e Oscar® per migliore attore non protagonista 2016 per Il ponte delle spie], un genio tanto estroso nel piegare la tecnologia alle sue utopie quanto riservato, ai limiti dello schivo, nei rapporti interpersonali. Affiancato dal socio e migliore amico Ogden Morrow [Simon Pegg, A Fantastic Fear of Everything, L’alba dei morti dementi, Le avventure di Tintin – Il segreto dell’Unicorno] si è sempre opposto a commercializzare in maniera selvaggia la sua creatura tecnologica. Quando Halliday, però, sente approssimarsi il giorno della sua morte, indice una gara In tutto questo, però, James Halliday ha deciso di lasciare degli easter egg, delle prove da superare per ereditare la sua immensa fortuna dopo la sua morte. A contenderselo ci sono, potenzialmente, tutte le persone di Oasis e la IOI. Segreti di certo non facili da scovare nell’immenso mondo virtuale. Tutti infatti brancolano nel buio, finché però, quasi per caso, il giovane Wade Owen Watts non trova un indizio…

«Prima la chiave! Poi l’easter egg!»

Curioso che a fornire linfa vitale, ventate di freschezza, a un cinema che rispolvera il glorioso passato con remake e reboot, sia un veterano a cui la nuova generazione avrebbe dovuto “fare le scarpe”, come si suol dire. Tre Oscar® vinti e 33 film diretti. Un novello Tolkien conierebbe per lui un nuovo epiteto, una delle sue formule mutuate dalla tradizione orale delle antiche leggende popolari. Il regista che da sempre sperimenta e continua a sperimentare in eterno, Steven Spielberg, Maestro di ogni genere. È passato quasi un secolo da quando i movie brats, “i ragazzacci del cinema”, hanno deciso di far fronte comune e spalleggiarsi per portare avanti la loro innovativa idea di cinema. Si tratta di Francis Ford Coppola, Martin Scorsese, Brian De Palma, George Lucas, Paul Schrader, Michael Cimino, John Milius, Robert Zemeckis e Stanley Kubrick. I visionari di allora, che hanno fatto e sono la storia del cinema mondiale, non hanno mai avuto degli eredi veri e propri e così eccone uno che è costretto agli straordinari. Non che ci dispiaccia. Spielberg, in un anno solare, presenta due film, il candidato all’Oscar 2018 The Post e Ready Player One, che non potrà non dire la sua alla cerimonia del prossimo anno. E quello che lascia sbalorditi è la sua continua voglia di rimettersi in gioco e sperimentare.

I movie brats, chi più chi meno, hanno omaggi disseminati per tutto il film. Eliminato, invece, ogni riferimento del romanzo allo stesso Spielberg: «nel libro c’erano molti riferimenti ai miei film come regista e produttore degli anni ’80, ma non volevo che il film mostrasse lo specchio di me stesso».

Ready Player One, pubblicato per la prima volta nell’agosto 2011, è, probabilmente, il romanzo di fantascienza più importante dal 2000 ad oggi, ed è forse destinato a diventare uno dei romanzi di fantascienza più rilevanti di sempre. Ernest Cline trasforma la fiaba moderna di Willy Wonka in una sci-fi quest adventure in cui tutti gli elementi classici della fantascienza si mescolano per trovare la forma accattivante di un romanzo brillante e innovativo. Storia, personaggi ed eventi si intrecciano in un modo unico, riuscendo contemporaneamente sia a riportare il lettore negli anni ’80, sia a dare nuova e meritata visibilità a serie e film ormai classici come Shining, Tron, Akira, Il gigante di ferro, Gundam, Wargames e i sempreverdi Star Wars, Mad Max, Ritorno al futuro e King Kong (solo per citarne un numero minimo).

L’ottimo materiale di partenza ha generato altissime aspettative intorno al film di Spielberg. Lui ha risposto surclassando se stesso. Ha guidato i maghi degli effetti della Industrial Light & Magic e della Digital Domain e la loro tecnologia all’avanguardia dimostrando che va utilizzata per coadiuvare un film e raccontare meglio una storia e non per prendere il centro della scena offuscandone personaggi e sceneggiatura. Tra motion capture, live action, animazione 2D e 3D, CGI, occhiali VR «sembrava davvero la realizzazione di quattro film in contemporanea», confessa il regista, ma deve essere stato fantastico per lui poter usufruire della tecnologia VR come strumento per pianificare le riprese, dirigere gli attori e i loro avatar, decidere i punti macchina in un ambiente virtuale indossando cuffia, occhiali e microfono. Un vero viaggio nel futuro, non più simulato. Possiamo solo immaginare quanto si sarà divertito a poter gestire rapidamente gli obiettivi o regolare le angolazioni con un sistema di mdp virtuali e una fotocamera palmare ergonomica appositamente costruita per monitorare tutto, inquadrare, ottenere inquadrature impossibili e panoramiche spettacolari che, su un tipico set, avrebbe richiesto un numero di riprese poco sostenibile.

«Volevo che questo film fosse proprio questo tipo di avventura… un film talmente veloce da far volare i capelli all’indietro mentre corri verso il futuro».

Spielberg ha lavorato a stretto contatto con ogni settore dalla fotografia, per la quale ha scelto Janusz Kaminski [Schindler’s list, Salvate il soldato Ryan] che ben conosce la sua sensibilità per l’illuminazione, il colore e il contrasto.

Per la musica, un po’ costretto per la non disponibilità dell’amico di sempre John Williams, il regista ha messo a contratto un certo Alan Silvestri e l’autore della colonna sonora di Ritorno al futuro e non delude di certo alla sua prima collaborazione con il maestro, innestando alla sua già emozionante partitura, intrisa di percussioni adrenaliniche, una coinvolgente playlist di successi degli anni ’80, pop, rock e dance. Si spazia dalla hit Jump di Van Halen ai Tears for fears, da Prince al tema di Godzilla composto da Akira Ifukube, dai Depeche Mode ai Twisted Sister per arrivare al progressive rock della Tom Sawyer dei Rush. Chicche per intenditori tra gli easter egg musicali.

Stupendo anche il lavoro di Kasia Walicka Maimone [Il ponte delle spie, A quiet place] per confezionare costumi che non siano dei copia-incolla degli 80s ma che siano reinventate in chiave postmoderna.

Un ultimo – breve – pensiero, prima di concludere, riguarda la scelta dei nomi, mai banali o casuali in questo genere di storie. Il protagonista interpretato da Tye Sheridan, che è stato Ciclope in X-Men: Apocalypse indossando goggles come quelli VR del film – sarà stato anche questa skill a far propendere per lui? – e protagonista di Scouts Guide to the Zombie Apocalypse, uno zombie teen movie goliardico divenuto e da poco tradotto in Manuale scout per l’apocalisse zombie si chiama Wade (Owen) Watts [ha un nome che suona in inglese come un invito all’azione “Cosa aspetti? Quando ti muovi?”, un’esortazione nascosta, il richiamo all’avventura dell’eroe riluttante e l’avatar che lo rappresenta in Oasis si chiama Parzival, una storpiatura del nome del cavaliere che trovò il Sacro Graal nel ciclo bretone. Art3mis, l’alter ego scelto da Samantha [Olivia Cooke, Quel fantastico peggior anno della mia vita, Ouija, la serie Bates Motel], è la dea della caccia, l’abbinamento perfetto con l’altro egg hunter (il termine gunter usato dal film è una crasi, appunto, di queste due parole). Per il migliore amico di Wade, che rappresenta la più grande disparità tra umano e avatar, il nome è Aech, un anagramma di “each” (“ogni”) quindi una sorta di uno, nessuno e centomila. Oasis ovviamente è l’oasi nel deserto, ma questo suo richiamo alla natura contrasta con la freddezza della IOI (la Innovative Online Industries di Nolan) che, secondo il codice binario, rappresenta il numero 6 da cui derivano i Sixers, gli scagnozzi del villain, riconoscibili solo dai loro numeri di matricola. E IOI non è forse il contrario della pronuncia di Ohio (OIO), lo Stato che fa da sfondo alle vicende del film? Una coincidenza? Impossibile!

Ready Player One coinvolge perché parla, neanche troppo fra le righe, del modo in cui viviamo le nostre vite, di come, con il passare del tempo, siamo sempre più disconnessi dalle interazioni personali nel mondo reale, di come affidiamo pigramente i nostri pensieri alle tastiere veloci, alle emoticons o alle gif animate, di come preferiamo messaggiare invece di massaggiare, di come ci mettiamo un secondo a condividere un contenuto multimediale e una vita ad aprirsi con il cuore a chi ci sta attorno. Un mondo come quello scritto da Cline e filmato da Spielberg non appare poi così tanto improbabile. Rimaniamo coinvolti da Ready Player One come spettatori, perché da utenti ne siamo affascinati e nello stesso momento terrorizzati, perché, in fondo, potrebbe rappresentare una previsione del nostro imminente futuro.

Ricordate: niente crazy credits o altre sorprese durante i titoli di coda. Avrebbero tradito lo spirito ludico degli easter egg e il messaggio stesso del film che è divertirsi!

It: Capitolo uno, di Andrés Muschietti

Feroce, crudele, macabro e violento nella misura richiesta dal pubblico, apprezzato in ogni suo aspetto formale, l’It: Capitolo uno di Andrés Muschietti si eleva a capolavoro indiscutibile del genere horror adolescenziale. Il Pennywise che Bill Skarsgård [Allegiant, Atomica bionda] si è cucito addosso, ammalia e terrorizza con i suoi occhi penetranti e taglienti, con le sue movenze scattose e una verve che fa quasi impallidire il generoso Tim Curry che da solo, letteralmente da solo, salvava la ormai dimenticabile produzione televisiva degli anni ‘90.

Il Male innominabile, nascosto nel profondo di ogni comunità, per quanto piccola, e nel profondo del subconscio di ogni essere umano, per quanto coraggioso, si manifesta principalmente nelle sembianze di un clown che indossa un costume dal design molto ricercato e studiato nei minimi particolari. Per riassumere in un unico capo d’abbigliamento tutte le generazioni in cui It ha portato a termine il suo bisogno di sangue, la costumista Janie Bryant ha ideato una tuta sagomata che include contemporaneamente reminescenze medievali, rinascimentali, elisabettiane e vittoriane, con tanto di plissettatura fortuny che contribuisce a rendere ancora più barocco, e quindi enigmatico, per anacronia, tutto l’insieme.

Una sorta di “lasciate che i bambini vengano a me”, ma con un epilogo contrario al messaggio evangelico-cristiano. Pennywise rappresenta il baratro della paura più profonda, il buio denso dove ogni cosa può perdersi per sempre, persino la più pura delle innocenze. Il Male nel suo stato più beffardo: orditore di inganni, come il Diavolo delle leggende popolari. Una creatura mutaforma che vive del dolore e delle sofferenze altrui e si nutre di sangue innocente, non prima di averlo annegato nella paura più soffocante.

«Galleggerai quaggiù! Tutti galleggiamo quaggiù! Sì! Galleggiamo!»

A sorprendere piacevolmente, se così si può dire anche in un horror, sono anche le molte trasformazioni di It, ben bilanciate tra citazioni letterali del romanzo e nuove idee che scavano nell’immaginario collettivo. L’essere senza forma che vive nelle acque nere e che, come l’acqua per mostrarsi in forma tangibile assume le sembianze di qualsiasi recipiente che possa scatenare sgomento, la bestia che sopravvive nei secoli dei secoli grazie ad un tacito tributo di carne fresca, fornito da vittime innocenti, non è che la naturale evoluzione di un archetipo che ha origine nella notte dei tempi: non c’è bisogno di scomodare trattati di antropologia per riconoscervi la paura allo stato puro, quella che i primi uomini esorcizzavano disegnando nelle grotte, protetti dal fuoco. È scritto nel nostro stesso DNA. Basta solo che ciascuno di noi ricordi. Stephen King ha solo dato voce a quello che abbiamo vissuto, per diretta esperienza, figurata o reale che sia, e che torna virtualmente negli incubi notturni, quando siamo più fragili e indifesi. O nel buio di una sala, come ha fatto egregiamente Muschietti.

L’opera più corposa di Stephen King (1986) è diventata negli anni il prototipo di tutta una sequenza di storie, nella sua stessa bibliografia come in quella di altri scrittori e sceneggiatori successivi. Da Stand by me a Cuori in Atlantide, se si vuole rimanere tra le pagine kinghiane, da I Goonies al più vicino, per ordine di tempo e per le sue molte affinità, Stranger things, tutti hanno raccolto spunti a piene mani, imparando la lezione che una ricetta perfetta è il risultato di una successione di ingredienti ben ponderati e pesati.


Un pizzico di Goonies, una bella dose di Stand by me, tanto Nightmare on Elm Street e, per finire, una spolverata quanto basta di Stranger things e la ricetta per il successo del nuovo It è pronta, basta infornare in una grande sala buia, ben climatizzata e dall’audio avvolgente e aspettare solo che la storia faccia il suo corso. E che storia! Una rivisitazione della fiaba gotico-grottesca tipica dei Grimm con tanto di utilizzo del sottotesto allegorico: sono tantissime le allusioni ai rituali d’iniziazione, alla perdita dell’innocenza, alla crudeltà amorale dell’infanzia, ai patti di sangue e ai tributi e sacrifici ad una divinità latente. Ma se sono una presenza costante nel romanzo, non lo sono così tanto nel film, per non appesantirne troppo la fruizione, probabilmente. Alla luce di questo, per quanto sia entusiasta di It: Capitolo uno, rimango dell’opinione che, per mettere ben in evidenza questi interessanti aspetti nascosti del romanzo, la forma perfetta sia una serializzazione di più ampio respiro. Netflix, pensaci tu!

«Prenderò tutti voi e mi nutrirò della vostra carne come mi nutro delle vostre paure!»

Resta scritto negli annali, comunque, che il più famoso romanzo di King ha finalmente avuto il degnissimo adattamento che meritava, con buona pace dei fan più integralisti. La Warner Bros, dopo ben due defezioni che avrebbero potuto minarne alle fondamenta la progettazione, ha coraggiosamente affidato il film ad un regista emergente ed è stata ripagata davvero a peso d’oro. Andrés Muschietti, argentino di chiare origini italiane, aveva diretto in precedenza solo un altro film: La Madre, un horror-thriller ben giudicato dalla critica internazionale, che ha come protagonista la Jessica Chastain che, quasi sicuramente, interpreterà la Beverly adulta in It: Capitolo due.


Dopo l’enorme successo ottenuto da It: Capitolo uno, per Muschietti si vocifera già di un nuovo ambizioso progetto da tramutare in oro: la trasposizione live-action di Robotech, la risposta datata 1985 agli anime giapponesi della Tatsunoko, di genere sci-fi war, che ha per protagonista un’intera fanteria di giganteschi robot. Nell’attesa, analizziamo quello che è a tutti gli effetti da considerare il nuovo horror campione d’incassi della storia del cinema.

I sette “Perdenti” [“Losers” in originale, come si può notare dalla scritta sul gesso di Eddie] hanno ottimamente interpretato i loro ruoli coinvolgendo non poco un target molto ampio di spettatori. Jaeden Lieberher [Midnight special, St. Vincent] è BILL DENBROUGH, che non ha mai superato la scomparsa del fratellino Georgie, finita nelle fauci di It. Il chiacchierone dalle mille voci RICHIE TOZIER è interpretato da Finn Wolfhard [protagonista di Stranger Things], Jeremy Ray Taylor [42, Geostorm] è l’architetto in erba BEN HANSCOM; Jack Grazer [Tales of Halloween, e prossimamente Shazam!] invece è il cagionevole EDDIE KASPBRAK. A completare il cast Wyatt Oleff [Guardiani dellae Galassia] alias STANLEY URIS, Chosen Jacobs, ossia MIKE HANLON, e Sophia Lillis, attrice estremamente fotogenica che sembra già di un altro pianeta mentre interpreta il personaggio di BEVERLY MARSH, e ha ancora solo 15 anni.

Al momento non è stata annunciata ufficialmente la lista completa degli attori chiamati ad interpretare i teenager ormai divenuti adulti in It: Capitolo due. Vi terremo aggiornati!

Lady Bird, di Greta Gerwig

Arriva nelle sale italiane dal 1° marzo 2018 uno dei migliori film americani del 2017: Lady Bird!

Il film d’esordio di Greta Gerwig, attrice di media fama, conosciuta più per aver interpretato e/o scritto alcuni film di Noah BaumBach [Mistress America, Frances Ha, Lo stravagante mondo di Greenberg] piuttosto che per aver preso parte a film più o meno di successo come Jackie o To Rome with love. A quanto pare, però, è una regista di sensibilità e intelligenza notevoli, così la sua commedia introspettiva si posiziona al primo posto nella classifica annuale della rivista Variety, finisce al 19° posto nella classifica dei 25 migliori film dell’anno secondo Sight & Sound e guadagna un onorevole 5° posto sul sito Rotten Tomatoes, che per fama non è mai prodigo di voti, nemmeno con pellicole di indubbio successo.

Scritto e diretto dalla stessa Gerwig, Lady Bird ha aperto la sezione Special Presentations al TIFF [Toronto International Film Festival] del 2017, ricevendo una standing ovation dal pubblico estasiato. In tutto il mondo ha ricevuto e riceve tuttora ottimi riscontri da parte anche della critica, riscontri che si sono tradotti in parecchi riconoscimenti tra cui 2 Golden Globe su quattro candidature e le cinque nomination agli Oscar® 2018: miglior film; miglior regista per Greta Gerwig; miglior attrice per Saoirse Ronan; miglior attrice non protagonista per Laurie Metcalf; migliore sceneggiatura originale. Realisticamente a pochissime chance, ma le sorprese possono verificarsi.

«Chiunque parli dell’edonismo californiano non ha mai trascorso un Natale a Sacramento [Joan Didion]».

Ambientato nella città di Sacramento, città natale della regista, Lady Bird racconta un anno della vita di una teenager all’ultimo anno di high school (2002 – 2003), Christine MacPherson [Saoirse Ronan, Amabili resti, Brooklyn]. Christine vuole evadere dalla sua famiglia e dalle restrizioni della provincia americana in modo da avere la possibilità di costruire il proprio futuro in un college che sia lontano dall’asfissiante realtà in cui vive tutti i giorni. Ama farsi chiamare “Lady Bird”, proprio per una più o meno consapevole voglia di spiccare il volo e andarsene via per lasciarsi tutto alle spalle: la città, gli amici, l’amore, la famiglia. Christine vive un periodo di ribellione e contrasto nei confronti dell’autorità e di quanto la vita sembra offrirle e cambiare il nome è un primo atto di emancipazione. Lady Bird desidera l’avventura, vorrebbe «vivere qualcosa di memorabile», l’amore che cambia la vita, un’università di alto livello e frequentata da persone “strafighe”, persegue la raffinatezza o l’eccentricità, tutto pur di farsi notare, e pretende l’opportunità che l’America dovrebbe offrire a ognuno, ma non trova nulla di tutto questo né nel suo liceo cattolico né in tutta la città di Sacramento.

«Odio la California! Preferisco la East Coast»

Ad essere perennemente sotto esame per Christine è il suo rapporto con gli altri, sempre troppo patetici e problematici per una ragazza che sente di meritare di più. Si sente relegata «dal lato sbagliato della ferrovia» e sogna di abbandonare la sua bassa estrazione sociale guadagnandosi un posto migliore nei quartieri alti, poco importa se le sue azioni possono rovinare le sue più antiche amicizie o mortificare ogni dinamica familiare. In questo contesto di ribellione e ansia da prestazione, è soprattutto il rapporto di amore/odio con la madre, la sorprendente Laurie Metcalf [Io e zio Buck, Pappa e ciccia], a tessere la ragnatela di riflessioni psicologiche più fitta. Le due alternano momenti di amorevole tenerezza e gesti d’affetto a periodi di attriti continui e conversazioni asettiche da diplomatici internazionali in tempo di guerra fredda. L’incipit del film è proprio una loro discussione in macchina dopo aver ascoltato Furore di John Steinbeck e la conclusione del diverbio è a dir poco originale ed esilarante.

Questo tipo di spaccati sociali tipici del panorama indie sono da sempre amati dal pubblico americano e dalla critica autorevole delle kermesse cinematografiche, perché raccontano e riflettono una società più vicina alla realtà dello spettatore medio. Nel corso degli anni la differenza tra cinema mainstream e indie si è andata via via assottigliandosi e molte grosse case di produzione hanno investito nel settore con compagnie-satellite o hanno inglobato gli indipendenti originari, ma è bello vedere in Lady Bird quel coraggio di affrontare tematiche complesse come l’omosessualità, le angosce esistenziali, le droghe, la disoccupazione, le malattie, i rapporti difficili con la scuola o con la famiglia attraverso un registro drammatico-introspettivo che mal si abbina alla commerciabilità del prodotto film.

Lady Bird sembra continuare idealmente un viaggio psicanalitico a ritroso delle sceneggiature di Greta Gerwig: Frances Ha è la storia della fortuna altalenante di un’aspirante ballerina di 27 anni e Mistress America racconta l’esperienza poco emozionante di una matricola del college. Magari è presto per parlare di autorialità, ma la “ragazza” va tenuta d’occhio.

Nonostante una sceneggiatura spigliata, velatamente autobiografica, e una recitazione sentita, non si può dire che Lady Bird sia particolarmente curato dal punto di vista formale: non presenta un montaggio accattivante, originale o stilisticamente degno di nota; nemmeno la fotografia brilla e la musica si palesa quel tanto che occorre per alleggerire e commentare le scene. Ma allora, cosa di Lady Bird ha conquistato l’America e il resto del mondo, tanto da far inserire il film nella lista dei migliori film dell’anno o da renderlo meritevole di una statuetta o più agli Oscar® 2018? Pare che negli ultimi tempi sia molto in auge premiare chi segue il detto LESS IS MORE, da intendersi, ovviamente, non nell’interpretazione operata da Downsizing. Greta Gerwig scrive e dirige un’opera che fa dell’essenzialità il suo pregio più grande.


La trama scorre senza divagazioni sterili coinvolgendo gli spettatori, chi più chi meno, in una crisi esistenziale di fine adolescenza, nella quale risulta importante il percorso e non la meta finale, parafrasando la massima di Thomas Stearns Eliot. Il Nobel 1948 per la letteratura non è l’unico ad aver ispirato le riflessioni filosofiche della neoregista americana: l’intero viaggio esistenziale della protagonista richiama alla mente le riflessioni di Marcel Proust, “la scoperta non consiste nel cercare nuovi posti ma nel vedere con occhi diversi”, e di Seneca, per il quale “viaggiare e cambiare luogo infonde nuovo vigore alla mente”. Ma è citando Steinbeck nell’incipit che la regista fornisce la chiave per interpretare il film: L’uomo è un animale che vive d’abitudini. Si affeziona ai luoghi, detesta i cambiamenti. […] Ho finito per persuadermi che un uomo deve lasciarsi vivere. Prendere la vita come viene, e non cercare di modificarla.

«Alcuni non sono fatti per essere felici»

Nota a margine: il compositore di Se mi lasci ti cancello e Ubriaco d’amore, Jon Brion, ha curato la colonna sonora di Lady Bird inserendo anche brani tratti da musical di successo: Being alive [Company], Everybody says don’t [Anyone can whistle] e Giants in the sky [Into the Woods], tutte scritte da Stephen Sondheim, che ha anche composto il musical “Merrily we roll along” in cui si esibiscono Lady Bird e gli altri membri del corso di recitazione.

Fa parte del cast anche Timothée Chalamet, candidato all’Oscar® 2018 per il ruolo di Elio Perlman nel film Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino.

Edward Mani di Forbice – Qualche anno dopo, di Kate Leth e Drew Rausch

Quando a maggio 2017 mi è stato chiesto di recensire questo fumetto la mia gioia è stata immensa. Spesso si suggerisce di non giudicare un libro dalla copertina. Ecco, mai consiglio fu più vero! Ho aspettato tanto perché a caldo il mio giudizio sarebbe stato affrettato, figlio naturale di un pregiudizio e di un’aspettativa tradita. Nel frattempo ho meditato, letto e indagato, non proprio in quest’ordine, diciamo in ordine sparso e ho maturato che nel caso di Edward Mani Di Forbice – Qualche anno dopo i lettori non possono che trovarsi un po’ spaesati per il contrasto grafico fra la copertina scelta dall’editore e i disegni sulle pagine che poi ci si trova a sfogliare. Per onestà di giudizio, bisogna ammettere che in fin dei conti si tratta di un prodotto che chiaramente vuole ottenere degli obiettivi economici specifici e, probabilmente, lo fa egregiamente, sfruttando quella gran voglia di sequel e remake che caratterizza l’attuale target, la fascia di mercato che detiene in questa fase storica il potere d’acquisto maggiore: la generazione x, che ha visto il film di Tim Burton e che vuol colmare il gap con i figli-screenager.

Negli Stati Uniti Edward Scissorhands è edito dalla IDW Publishing. Il successo delle nostalgiche sceneggiature della canadese Kate Leth e delle avanguardistiche illustrazioni dell’artista californiano Drew Rausch ha spinto la casa editrice californiana a creare una serie di 10 numeri, poi raccolta nella versione deluxe, oversized handcover che ha convinto la Nicola Pesce Editore a pubblicarne la traduzione: Edward Mani Di Forbice – Qualche anno dopo è un volume 14×21 cm, brossurato [cartonato in originale], con alette, di 128 pagine tutte a colori. Nessun problema fin qui, se non fosse per la copertina scelta: quella che è una variant cover celebrativa nell’originale, in Italia diventa la copertina ufficiale, creando, di fatto, un’incoerenza grafica molto forte con i disegni che poi caratterizzano l’intero fumetto.

Questo fumetto non è un pedissequo adattamento del film, che di per sé avrebbe avuto poco senso data la perfezione della pellicola. Si tratta invece di una storia nuova, poetica come l’originale, gotica e toccante”, tranquillizza e spiega la descrizione del prodotto sul sito ufficiale della casa editrice e questo è sufficiente per chiudere la questione e pensare a Edward Mani Di Forbice – Qualche anno dopo per quello che è: un fumetto per ragazzi che riprende il filo della narrazione di un film che ha fatto epoca per fornirgli una vita più che nuova, in un contesto contemporaneo… è un po’ la storia stessa di Edward, no?

Sono passati tanti anni, Kimberly, l’amore mai dimenticato di Edward, non c’è più, mentre Edward non è invecchiato di un giorno e continua ad essere l’emblema della solitudine, un mostro dal cuore tenero che il mondo non ha mai capito ma isolato nel suo maniero abbandonato, consolato dalla sola compagnia delle sue creazioni artistiche: figure scaturite dal taglio delle siepi o del ghiaccio. Talmente è solo che quando un giorno trova un altro androide, disattivato perché pericolosamente incompleto, Edward lo riattiva pensando di poterlo gestire… Intanto, Megan, una ragazza curiosa e piena di sentimenti positivi, in tutto e per tutto identica a nonna Kimberly, indaga sul passato della sua famiglia e quindi, in cerca di risposte, si avventura nel vecchio maniero dove vive Edward…

I disegni di Drew Rausch sono intriganti e freschi, accattivanti nei loro colori desaturati e segnati da contrasti decisi, sebbene troppo deformati comicamente per il gusto dei burtoniani. Manca una profondità dei neri, e qui ci sarebbe da sviluppare un discorso infinito su quanto il gotico sia legato necessariamente ad un ampio ventaglio di tonalità dark, in questo caso stranamente mancanti. Soprassediamo e torniamo invece ai pro, visto che il contro è ormai chiarissimo: sono bellissime le tavole di intermezzo fra i capitoli con gli a solo di Edward e le siepi tagliate ad arte sotto un cielo stellato; in appendice altre meravigliose tavole realizzate da vari artisti che hanno reinterpretato secondo la loro natura artistica i personaggi creati da Tim Burton; in più bozzetti, bibbia dei personaggi e dei luoghi e le prove di montaggio di alcune tra le pagine più interessanti.

Se lo si potesse considerare un fumetto a sé, ossia slegato completamente dal prodotto cinematografico originale, Edward Mani Di Forbice – Qualche anno dopo sarebbe passabile, per giunta piacevole per molti aspetti, un modo simpatico per avvicinare nuove generazioni ad uno dei personaggi più iconici del già particolare mondo gotico di Tim Burton.

Il risultato finale dipende quindi da quale sia il pubblico chiamato a comprarlo: se si tratta di un’operazione di mercato tipo “Bambini, venite a conoscere Edward” se ne può anche parlare e, seppur, con una certa riluttanza, accettare, ma se l’obiettivo è “Fan di Edward, guardate un po’ chi è tornato”, beh, non ci siamo proprio, perché a venir meno è lo spirito che era alla base di quel novello Frankenstein in cerca di amore.

Il giudizio molto personale e quindi non certo insindacabile del sottoscritto è che Edward Mani Di Forbice – Qualche anno dopo sia un poco riuscito connubio di tematiche horror e mood da commedia adolescenziale con un personaggio talmente fuori dalla sua “naturale” ambientazione gotica da sembrare la caricatura di sé stesso.

Peccato per le incongruenze, peccato per chi si aspettava un fumetto differente, maggiormente conformato all’originale cinematografico.

Billy Lynn – Un giorno da eroe, di Ang Lee

Una coproduzione Stati Uniti – Regno Unito – Cina permette ad Ang Lee di adattare per il grande schermo il romanzo di Ben Fountain Lynn’s Long Halftime Walk [È il tuo giorno, Billy Lynn!] ed il regista di Vita di Pi, La tigre e il dragone ed I segreti Brokeback Mountain, lo utilizza per sperimentare una frequenza di cattura e riproduzione dei fotogrammi da record. Billy Lynn – Un giorno da eroe è, infatti, il primo film ad essere realizzato a 120 fotogrammi al secondo in 3D con una risoluzione ad altissima definizione (4K) ottenuta grazie ad una Sony CineAlta F65, equipaggiata con lenti Zeiss Master Prime.

«È strano essere celebrato per il giorno più brutto della tua vita!»

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Il diciannovenne soldato William “Billy” Lynn diventa un eroe nazionale dopo un pericolosa azione di guerra in Iraq. Rimpatriato per due settimane insieme ai suoi commilitoni della Bravo Squad, deve affrontare il Victory Tour, ossia tutta una serie di interviste, comizi pubblici che si concludono con la partecipazione alla Thanksgiving Thursday Night, la tradizionale partita di football del giorno del ringraziamento, con tanto di show delle Destiny’s Child [controfigure sempre riprese di spalle, una vera caduta di stile e di prestigio per una produzione di così alto livello]. Lynn, ancora traumatizzato dall’esperienza in Iraq e dalla morte di un suo superiore, dovrà vedersela con un nemico interiore difficile da battere: il proprio istinto di sopravvivenza e il desiderio di essere felice, entrambi illuminati dalle luci della ribalta. Sia lui che i suoi compagni mostrano chiari i sintomi del disturbo post-traumatico da stress, o Post-Traumatic Stress Disorder (PTSD) secondo la dicitura internazionale. Riusciranno a non impazzire? E Billy cosa sceglierà tra i desideri da ragazzo che cercano di farsi largo nel suo cuore di soldato e il simulacro dell’eroe che i media hanno costruito e che lui continua ad interpretare con estrema lucidità? sempre che una scelta ce l’abbia davvero…

«Siamo una nazione di bambini andati a crescere da un’altra parte o a farsi ammazzare»

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Billy Lynn è Joe Alwyn al suo esordio come protagonista. Se la cava bene: molto espressivo e ben calato nella parte dell’ex-teenager che si ritrova catapultato in una situazione troppo spesso mitizzata dai media e che si dimostra più grande di lui. Billy Lynn dovrà decidere cosa fare della sua vita, se crescere e tornare al fronte dove forse è già stata sparata la pallottola con il suo nome sopra o se avere una seconda occasione di vivere la propria vita in tranquillità, godendosi il successo effimero delle sue gesta eroiche. Del cast fanno parte anche Kristen Stewart, Vin Diesel, Steve Martin, Chris Tucker e un sorprendente Garrett Hedlund [è stato Patroclo nel Troy di Wolfgang Petersen e James Uncino in Pan – Viaggio sull’isola che non c’è di Joe Wright], che tiene in riga la trama come i suoi sottoposti, un bel plotone di caratteristi niente male, di cui probabilmente sentiremo ancora parlare nel prossimo futuro.

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Più un film tv di lusso che una pellicola cinematografica di interesse a tuttotondo: la fotografia, anche nelle scene di azione nel deserto, è pulita, troppo pulita, come se tutto fosse irreale e quindi il trasporto delle emozioni è affidato alla sola introspezione del protagonista; il montaggio, anche in occasione dei flashback, appare giustapposto e mai studiato dal punto di vista estetico; le inquadrature sono più che altro a composizione centrale, utilizzando solo raramente diagonali e prospettive, confidando che gli occhi gonfi di lacrime del protagonista s’incontrino con quelli dello spettatore nel momento in cui guardano in macchina; gli scavalcamenti di campo disorientano lo spettatore ma ormai chi conosce lo stile (o non-stile) Ang Lee vi è abituato e può associarlo ad una volontà di dar risalto al sottotesto metacinematografico. Scavalcamenti, sguardo in macchina, montaggio giustapposto e inquadrature centrali concorrono probabilmente a fornire un punto di vista ulteriore su quanto i media possano far salire sul piedistallo alcuni eroi e farli scendere a velocità doppia una volta esaurito il serbatoio dell’interesse mediatico. Se anche può sembrare affascinante questa interpretazione, provate ad immaginare il tutto girato da Clint Eastwood e una sensazione di spreco vi prenderà lo stomaco più di ogni azione militare presente nel film. Rimane la sperimentazione tecnica, quella sì all’avanguardia:  120 fotogrammi al secondo significa cinque volte la velocità standard di 24 fps (25 nel sistema PAL) e due volte il precedente record detenuto da Peter Jackson con il suo Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato.

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Tutti vogliono qualcosa, di Richard Linklater

Everybody wants some, ovvero Tutti vogliono qualcosa, è una commedia giovanile, un buddy movie, un film corale, una pellicola d’autore e una realistica ricostruzione del 1980, un film su una squadra di baseball del college, avvincente, esilarante, effervescente, emozionante senza che i personaggi giochino mai neanche una partita. Com’è possibile? Solo Richard Linklater, maestro del cinema indipendente americano, è capace di compiere questo tipo di imprese.

Sull’onda del successo di Boyhood, il regista estrae dal cilindro un nuovo capolavoro che ricrea quei meccanismi ormai consolidati nel suo modo peculiare di far cinema: l’ottimizzazione del basso budget a disposizione; attori non famosi che hanno saputo calarsi nei panni di personaggi ben caratterizzati e collocati in un’epoca ben distante dalle loro vite; la supremazia dei personaggi, sempre ordinari in contesti ordinari, rispetto all’intreccio, subordinato, in questo specifico caso, anche alla ricostruzione scenografica che è maniacale, da candidatura agli Oscar®, probabilmente. Quello che sorprende è l’utilizzo per tutto il film della parola, dei dialoghi in una maniera che riecheggia Dazed and confused – La vita è un sogno, citato visivamente in molte inquadrature, e che sembra segnare una sorta di continuità concettuale con il sopracitato Boyhood, con digressioni filosofiche che spezzano la narrazione lineare, riuscendo a mescolare gli episodi di The twilight zone – Ai confini della realtà con i Maya, i druidi e la telepatia, capacità che, ovviamente, dopo una tirata di bong, i protagonisti sperimentano, per poi tornare agli argomenti più amati: «il baseball e la passera».

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«Quando giochiamo a baseball parliamo di passera e, invece, quando abbiamo davanti tutta questa passera parliamo di baseball!».

Se poi il coach esigente dà delle regole «niente alcool in casa» e «niente ragazze nelle camere da letto» perché non vuole «compromettere il programma per un po’ di pelo!» per le quali è lui stesso a trovare un escamotage in modo da trasgredire al piano di sotto, possiamo tranquillamente metterci comodi sulla poltrona ed aspettarci un paio d’ore di divertimento senza inibizioni.

Detta così può sembrare una commedia alla Animal house e invece ci troviamo davanti ad un vero spaccato di realtà, che è fatta di chiacchiere a volte senza senso, di turni davanti allo specchio per pettinarsi, di racconti inventati e spacconate, di deliri e cazzeggi. Tutti vogliono qualcosa è un’escursione nei meandri della mente di un ex-adolescente alle prime esperienze lontane dalla famiglia e fuori da qualsiasi controllo. Al contempo è un viaggio nei ricordi di Linklater, del periodo in cui ha iniziato a frequentare il college come fa il protagonista Jake Bradford [Blake Jenner] che arriva nelle case affidate alla squadra di baseball della Texas State University e subito viene coinvolto dai compagni più socievoli nelle attività preferite: «Tutti al “Fox”!» a bere, poi tutti insieme a ballare e divertirsi alla discoteca “Sound machine”, dove la confraternita di baseball è sempre gradita guest star con entrata libera e birra gratis. Infine, soprattutto, sempre e comunque, rimorchiare in ogni locale, in ogni occasione, a qualsiasi festa, che sia a tema country, punk, disco o del corso di teatro, grazie soprattutto alle tecniche sopraffine di Finnegan [Glen Powell], il vero trascinatore del gruppo.

«Studio da cunnilinguista!».

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Una squadra quanto mai reale – chi è stato membro di una squadra sa di cosa si parla – con personaggi che possono a primo avviso sembrare macchiette ma che rispecchiano le varie tipologie di giocatore. Ogni personaggio ha le sue fisime, la sua indole, le sue superstizioni e i suoi rituali, molto carina a tal proposito la dissertazione per spiegare la differenza tra queste ultime due caratteristiche.

«Bisogna avere due strambi in ogni squadra», perciò ecco il veterano scommessa-dipendente Nesbit e la matricola spaccona Nails, che ama definirsi un «cane da combattimento». Se Finnegan è espansivo e logorroico, gli fa da contraltare il burbero Roper che a Jake si presenta così: «Io odio i lanciatori. Saremo compagni di squadra ma non saremo mai amici» o il capitano McReynolds [Tyler Hoechlin], che assolutamente non prende bene le sconfitte e non tollera che la sua leadership sia messa in discussione. Tra giovani promesse sul campo di gioco e schiappe nella vita di tutti i giorni, veri fulminati e cazzeggio dipendenti, l’assortimento di tipi umani da manicomio è quanto di più vero possa esserci in una qualsiasi squadra, che ci crediate o no.

«Copriamo tutte e nove le posizioni».

Il colpo di genio di Linklater sta proprio nel divertire e coinvolgere nella reale vita di squadra senza che succeda un evento sportivo degno di nota. Nei tre giorni che lo separano dall’inizio delle lezioni, a partire dal “28 agosto 1980”, Jake assaggerà quel nuovo mondo tra sfide a schicchere sulle nocche, bevute in compagnia, discussioni e litigi, ragazze da una notte e via, magari alla ricerca di quella speciale che alle amiche «…dirà con orgoglio: è un giocatore di baseball!», l’unica per cui lui possa affermare «sono pazzo del baseball ma c’è qualcos’altro nella vita».

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Oltre alle gag esilaranti, non mancano due chicche da nerd: il personaggio di Willoughby e le sue azioni sono una citazione sottile dell’episodio “Una sosta a Willoughby” di The twilight zone – Ai confini della realtà, serie tv di cui lui stesso vanta una collezione completa in VHS; l’altra chicca è il titolo della tesina che Jake ha portato per il diploma, “Sisifo e il baseball”, che vede il dolore del personaggio mitologico nella Divina commedia non come supplizio eterno ma come scopo per combattere ogni giorno, perché lottare per un obiettivo è un dono, nella vita come nello sport, e che le cose assumono un significato quando siamo noi ad attribuirgliene uno. Una commedia giovanile abbiamo detto, ma che dialoghi!

Il clima di cazzeggio, la sceneggiatura priva di tempi morti e il coinvolgimento dei dialoghi fa dimenticare persino che nei primi fotogrammi sia stata inserita per errore una ripresa in cui il crane si riflette sulla macchina. Un errore che somiglia un po’ a quello di Kubrick in Shining, con l’ombra dell’elicottero che entra nelle inquadrature iniziali, per essere considerato tale.

La squadra di lavoro di Linklater, ormai consolidata e coesa dopo i tanti successi e i pochi fallimenti vissuti insieme, rispecchia l’affiatamento dei personaggi di Tutti vogliono qualcosa, tra veterani e matricole promettenti: il direttore della fotografia Shane F. Kelly [Boyhood, A scanner darkly], il film editor Sandra Adair [Boyhood, Prima del tramonto, School of Rock, Me and Orson Welles, Bad News Bears – Che botte se incontri gli orsi!, Prima dell’alba, Fast food nation, Tape, La vita è un sogno], lo scenografo Rodney Becker [Boyhood, Bernie, A scanner darkly] e la costumista Kari Perkins [Boyhood, Bernie, A scanner darkly, Fast food nation]. Ognuno ha contribuito a rendere questo film un gioiello del cinema indipendente d’autore.

«Metti insieme persone competitive e diventi vittoria dipendente»

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Tutto il film permette un nostalgico tuffo nel passato grazie ad un lavoro di ricerca minuzioso sotto ogni aspetto, dalla scenografia ai costumi, dal make up agli argomenti di discussione.

«Sento che gli Astros vinceranno il campionato».

Perfino la colonna sonora è estremamente curata con 45 top hits dell’epoca che esplorano ogni genere in voga in quegli anni. Non da ultimo una stupenda performance corale degli attori che si cimentano in un brano rap originale che racconta le vicende dei personaggi da loro interpretati. Il brano è una chicca posizionata nel bel mezzo degli end credits, perciò, se vogliamo dirla con un acronimo a tema: Rimanete Al Posto!

«Ehi, Coma! Almeno togliti gli occhiali! Sembri uno della narcotici!
E togli la camicia dai pantaloni! Sembri un venditore di bibbie!».

Per concludere, Tutti vogliono qualcosa è un film indimenticabile, per chi sa cosa significhi essere parte di una squadra vera, una marmaglia mal assortita di persone che si spalleggiano reciprocamente nel campo di gioco come nella vita, che condividono gioie e dolori non solo in quell’arco di tempo in cui gli è concesso di essere giocatori. Anche se le strade poi si separano, quelle scene, quei sapori, quegli odori, le vittorie, le discussioni, le incomprensioni, le imprese, le sconfitte, le conquiste di ogni duro allenamento, le dimostrazioni d’affetto, il senso di appartenenza, il gusto di sentirsi rispettato, stimato, a volte indispensabile, sono tutte emozioni forti che compongono preziosi ricordi, che possiamo portare incastonati nel cuore per sempre e che permettono di superare gli ostacoli della vita, quelle frontiere citate sulla lavagna il primo giorno di lezione: «“LE FRONTIERE SONO DOVE LE TROVI”».

Mai farsele imporre. Superarle sempre. E Linklater, più di ogni altro, sa come valicarle con stile e originalità.

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Warcraft – L’inizio, di Duncan Jones

«Nessuno può contrastare le tenebre da solo».

Warcraft è una saga fantasy creata dalla Blizzard Entertainment e iniziata con la pubblicazione del primo videogioco strategico in tempo reale Warcraft: Orcs & Humans, datato 1993. Progettato nella speranza di venderne un milione di copie, il gioco è arrivato a 15 milioni ed è diventato un prodotto talmente trionfale che è diventato un tie-in di proporzioni colossali: oltre ad una serie potenzialmente infinita di videogiochi, sono stati prodotti romanzi, manga, fumetti nonché giochi da tavolo e di carte e ogni sorta di materiale collezionabile. Inoltre, come accaduto per altre saghe di successo planetario quali Star Wars o i supereroi Marvel e DC, l’ambientazione creata per l’occasione assurge ad essere chiamata Warcraft Universe.

Un universo fantasy popolato da creature di ispirazione tolkieniana – incantatori, re giusti e saggi, stregoni malvagi, orchi, elfi, nani – ma anche da mostri tratti direttamente dai bestiari popolari – golem di argilla, grifoni, warg, maelstrom, entità arcane che vivono in torri altissime, chimere, ippogrifi, titani – frutti di antiche leggende, contaminate dalle culture delle varie etnie affrontate in battaglia nel corso di millenni e dalla creatività dei bardi, che giravano il mondo ognuno con le proprie chansons de geste di personaggi stratificati dall’incontrollabile tradizione orale. Storie avvincenti che ricordano in parte anche il ciclo bretone, con un re giusto e lungimirante come Artù, un asso della guerra come Lancillotto e un mago potente al servizio della corona come Merlino. Il protagonista, Lothar, oltre ad una combattività senza pari, può vantare una forte componente strategica, un’evidente facilità di ragionamento e sangue freddo in situazioni complicate e veloci, che lo accomunano all’Ulisse omerico. Forse, un giorno, le generazioni future studieranno come esempi di epica cavalleresca, alla stregua de «le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese» di cui narra Ludovico Ariosto.

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Warcraft – L’inizio, il film di Duncan Jones [Moon, Souce code], figlio di David Bowie, è l’adattamento cinematografico di Warcraft: Orcs & Humans, videogioco del 1994, il primo della saga di Warcraft. Le vicende trattate coincidono con il periodo della Prima Guerra e si svilupperanno nel bel mezzo della linea temporale del Warcraft Universe che è in continua evoluzione verso una direzione qualsiasi, basti pensare che il 30 agosto ci sarà la fila per il nuovo gioco World of Warcraft: Legion. Ma torniamo al film.

Draenor, il pianeta degli orchi, sta morendo e lo stregone Gul’dan [Daniel Wu], unisce i clan degli orchi in una temibile Orda, con la promessa di guidarli in un nuovo mondo, popolato da umani: Azeroth. Attraverso un portale magico che mette in comunicazione mondi paralleli, una brigata di guerrieri scelti segue Gul’dan in avanscoperta, per catturare quanti più nemici possibile e nutrire così il Vil, la magia che attiva il portale, una magia che Gul’dan padroneggia per produrre vita ed energia a suo piacimento, ma che, allo stesso tempo esige un orrendo tributo: altre vite, rendendo malvagio il postulato del chimico Lavoiser, alla base della legge della conservazione della massa: “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”.

Il pacifico regno di Azeroth è costretto, quindi, ad affrontare gli invasori. Alle prime notizie di attacchi, sir Anduin Lothar [Travis Fimmel], comandante militare del regno di Roccavento, un giovane e curioso mago di nome Khadgar [Ben Schnetzer] e il re di Roccavento Llane Wrynn [Dominic Cooper] consultano Medivh [Ben Foster], il leggendario Guardiano, ma la situazione diventa presto molto più intricata di una semplice battaglia tra imboscate, strategie, tradimenti, indagini parallele, incantesimi e personaggi che tramano nell’ombra.

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Memorabili i personaggi di Durotan [Toby Kebbell], Draka [Anna Galvin] e Orgrim Martelfato [Rob Kazinsky], orchi del Clan dei Lupi Bianchi, unici oppositori interni alla tirannia di Gul’dan. Si aggregheranno all’Alleanza che difende Azeroth o soccomberanno al potere del Vil?

Nella schiera degli orchi si fa notare, poi, Paula Patton, bellissima nei panni della mezza orchessa Garona, la “maledetta”, destinata a non essere accettata perfettamente né dall’una né dall’altra parte, come tutti i mezzosangue… o forse ci sarà un giorno del tenero con il valoroso Lothar? E poi, chi sopravvivrà? A chi apparterrà il pianeta alla fine delle guerre?

«Dalla luce viene la tenebra e dalla tenebra viene la luce».

123 giorni di riprese, interamente girato con le Arri Alexa XT Plus con tanto di lenti Leica Summilux-C ed esportato in formato ARRIRAW da 3.4K per una lavorazione ottimale degli effetti speciali e del 3D, Warcraft è distribuito nelle sale con un’aspect ratio spettacolare secondo il rapporto 2.35 : 1. Cosa vuol dire? Se volete apprezzare appieno degli stupefacenti effetti visivi della celebre Industrial Light & Magic, presenti in più di mille inquadrature, con motion capture e integrazioni digitali fornite dalla stessa Blizzard Entertainment, scegliete un cinema dotato di occhialetti con sensore e non quelli usa e getta!

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Mentre l’eroe di turno vola su un grifone una meravigliosa CGI si sbizzarrisce nel mostrarci un panorama che sembra uscito dalle opere di Fenghua Zhong. Un territorio simile a quello ameno della Contea degli hobbit con architetture cittadine e regali che richiamano l’immaginario medievale di Camelot o, se si vuole, gli scenari del tanto amato Game of thrones, con rimandi palesi alle culture orientali: il luogo del concilio dei sei maghi, il Kirin Tor, assomiglia tantissimo nel nome e nelle sembianze alla Karin Tower del manga Dragonball e, conoscendo il disegnatore Akira Toriyama, non può che trattarsi un rimando ad una qualche leggenda storpiata per l’occasione in un farsesco Karin-Tō” (カリン塔), un gioco di parole per indicare dei popolari dolci al sesamo chiamati Karintō (花林糖).

La pellicola, inizialmente programmata per il 18 dicembre 2015, è stata posticipata per evitare la sovrapposizione di due universi con l’attesissima uscita di Star Wars: Il risveglio della Forza. Verrà distribuita nei cinema statunitensi a partire dal 10 giugno 2016, mentre, in Italia è nelle sale già dal 1 giugno 2016.

«Per Azeroth! Per l’Alleanza!».

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Marguerite e Julien – La leggenda degli amanti impossibili, di Valérie Donzelli

Marguerite [Anaïs Demoustier] e Julien de Ravalet [Jérémie Elkaim] si amano fin da bambini e, divenuti ragazzi il loro sentimento non si stabilizza su un registro affettivo familiare. Fratello e sorella non desiderano altro che stare l’uno accanto all’altro. Tutti si accorgono del rischio dell’incesto, così li separano più volte con matrimoni combinati o facendoli sorvegliare da governanti, che finiscono con il simpatizzare con i due amanti infelici. Ogni ostacolo diventa una prova da superare che rinnova il loro legame fino a renderlo indissolubile. L’avrà vinta la ragione o il sentimento?

«Che cosa siamo?
Qualcosa che non esiste
Allora va bene, non rischiamo niente se non esistiamo».

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Valérie Donzelli, al suo quarto lungometraggio, si sente pronta a riscrivere con il partner di lavoro e di vita, nonché attore protagonista, Jérémie Elkaim, la sceneggiatura che nel 1971 Jean Gruault aveva preparato per Francois Truffaut. Il progetto era stato abbandonato dal regista de I quattrocento colpi e, una qualsiasi persona sensata si sarebbe domandata a fondo il perché senza incaponirsi a voler portare a casa un risultato frutto di mille espedienti e compromessi che depauperano la storia e l’arte cinematografica, inasprendo il giudizio del pubblico, che rimane deluso di un prodotto che si prende troppo sul serio senza avere né una struttura solida né un’estetica tale da sopperire ai notevoli buchi di sceneggiatura e alle brusche cadute di stile.

Diversamente dai film precedenti, la Donzelli non presenta uno spaccato della sua vita, discutibilmente interessante, bensì l’adattamento di una storia vera (da qui in avanti c’è il rischio SPOILER): Julien e Marguerite de Ravalet, figli del signore di Tourlaville, vengono catturati, processati e condannati alla decapitazione per adulterio e incesto nel 1603. Primo escamotage: non volendo sbattersi per una costosa ricostruzione d’epoca, si tenta grossolanamente un’operazione simile a quella di Titus, senza essere Julie Taymor, senza inserire abbastanza “anacronismi” per propendere verso un’interpretazione surreale postmoderna, senza verve. Come afferma la stessa regista, si è cercato di «incarnare una leggenda… un film senza tempo, che non fosse legato ad un’era in particolare, radicato nel mondo delle favole, ma senza appartenergli completamente». Di nuovo un “senza”.

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La location principale è proprio il vero castello di Tourlaville, che comunica Seicento in ogni inquadratura mentre sullo schermo si alternano automobili, radio, elicotteri, microfoni e altoparlanti, e poi tableaux vivants e costumi ottocenteschi a fornire un continuo straniamento spaziale, temporale e narrativo, nell’intento di lasciare gli spettatori confusi sulla poltrona allo stesso modo in cui sono smarriti i due amanti nel bosco, così come nella vita. Questi due Hansel e Gretel vivono una favola dove, però, la morale non c’è. Di moralisti, invece, ce n’è quanti se ne vuole, ma si tratta di oppositori che si pentono e che si trasformano in aiutanti, comunque inetti.

La tragedia familiare è dietro l’angolo, rovescio della medaglia di questo amore maledetto, eppure chi segue le vicende degli amanti impossibili non teme per la loro sorte, non si affeziona a loro, né prende posizione, come era del resto l’intento registico. Il conflitto che porta avanti la narrazione non è insito nella coppia, nel loro rapporto che è e rimane indissolubile, bensì nell’altrui testa, nell’educazione sessuale ricevuta anche per questioni di patrimonio genetico di un eventuale erede. Così si pensava, forse, di sviluppare una tragedia senza avere motivazioni valide, una favola senza una morale più o meno celata dietro tipiche allegorie, una leggenda o un sogno senza un rimosso o una cornice abbastanza surreale e un adattamento di una storia vera togliendo concretezza grazie agli elementi stranianti.

Anche la recitazione non è né melodrammatica né minimalista, indecisa non incide, e nelle occasioni più importanti si sbotta a ridere involontariamente. Una tragedia come quella di Romeo e Giulietta diventa una mediocre farsa teatrale su palcoscenico parrocchiale.

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La perla è il secondo stratagemma: la storia è narrata da una giovane ragazza in un orfanotrofio femminile come storia della buonanotte per far addormentare bambine neanche adolescenti. A parte la scelta discutibile dell’argomento incestuoso per addormentarsi, ci si domanda come mai si sia scelto di dare una struttura che preannuncia una chiusura ad anello per poi tradirla con il terzo espediente narrativo: non avendo mai deciso se della sceneggiatura, che Truffaut, guarda un po’, non ha mai voluto realizzare, farne un film poetico o un film erotico, ecco che, dopo un pecoreccio amplesso nel bosco tra i due amanti, mentre tempus fugit e sono braccati da un intero esercito di guardie, manco fossero dei terroristi, giunge la conclusione tragica con risvolti comici e un epilogo con poesia di Walt Whitman, recitata dalla voce di Marguerite sopra alcuni dettagli di elementi naturali giustapposti, in un montaggio che dovrebbe sostenere emotivamente le parole finalmente di unione indissolubile dei due: «Ora siamo qui… siamo corteccia… siamo rocce…». Questa trovata altro non è se non l’ennesima scappatoia per non dover rappresentare graficamente le ultime parole della sceneggiatura originale, cioè un dantesco «Spiriti volate via…». Sebbene non vi sia negli annali alcuna documentazione circa eventuali apparizione da fantasmi dei due amanti maledetti, in seguito a questa grossolana trasposizione cinematografica della loro vera triste sorte, non è escluso che ora abbiano davvero qualche conto in sospeso con qualcuno.

Con i “senza” come si può costruire qualcosa di buono?

Dracula Untold in DVD

1462. Transylvania. Cresciuto e addestrato come soldato fin da bambino dall’esercito dell’impero ottomano, Vlad III di Valacchia [Luke Evans] è noto sui campi di battaglia come “l’impalatore” dal momento che trafiggeva i nemici con lunghe lance e li lasciava, appunto, impalati nel terreno come forma di terrore psicologico. Liberatosi dal suo incarico e pentitosi di tutte le atrocità compiute, Vlad diventa principe di Transilvania. Rispettato sovrano, devoto marito di Mirena e amorevole padre di Ingeras, quando il destino lo metterà di fronte ad una crudele scelta Vlad dovrà decidere se sacrificare la propria famiglia in onore del sultano o condannare il suo popolo ad una sanguinosa guerra impari. Il desiderio di salvare amore e onore contemporaneamente lo spinge a stipulare un patto con un Male antico, celato in un’oscura grotta da tempo immemore, bloccato da una potente maledizione. Riuscirà a rispettare il patto? Potrà nascondere il suo orrendo segreto? Nella sua anima spaccata in due dall’insano contratto, quale parte prenderà il sopravvento?

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La genesi della figura del Principe delle Tenebre, elaborata da Matt Sazama e Burk Sharpless [Gods of Egypt, nelle sale italiane dal 25 febbraio, e The Last Witch Hunter – L’ultimo cacciatore di streghe], e diretta dall’esordiente prodigio Gary Shore, è un film dove l’azione è sovrana, più della lugubre atmosfera che, probabilmente, è da pensare in divenire come, del resto, la consapevolezza dei poteri e dell’immortalità del novello Dracula. Immortalità che non è solo diegetica: secondo quanto riportato da IMDb sono più di 300 i film in cui compare il vampiro ideato da Bram Stoker, un numero secondo solo a Sherlock Holmes. Il totale, addirittura, triplica se si considerano anche i personaggi apocrifi, non ufficialmente tratti dall’opera. Un successo dovuto all’universalità dei temi, amore, odio, morte, onore, vendetta, inganno, e della versatilità di un personaggio che non a caso è stato scelto dalla Universal Pictures per fungere da capostipite del reboot project Monsters Universe.

IL DVD

 REGIA: Gary Shore INTERPRETI: Luke Evans, Sarah Gadon, Charles Dance, Dominic Cooper, Noah Huntley, William Houston TITOLO ORIGINALE: Dracula Untold GENERE: horror, fantasy, azione, drammatico, guerra DURATA: 88′ ORIGINE: USA, 2014 LINGUE: Inglese, Italiano, Francese, Spagnolo SOTTOTITOLI: Inglese per non udenti, Italiano, Francese, Spagnolo, Olandese EXTRA: nessuno DISTRIBUZIONE: Universal Pictures

L’edizione scelta per Dracula Untold è semplice, a disco unico, senza alcun contenuto extra che distolga l’attenzione dal prodotto cinematografico che, in questo modo, può valorizzare al meglio le specifiche tecniche di tutto rispetto per gli standard da home cinema: l’audio multilingue è in Dolby Digital 5.1 in qualsiasi lingua e il formato video è uno spettacolare anamorphic widescreen (2.40:1) che mette in risalto tutta la CGI utilizzata per gli effetti speciali ed anche i costumi e il trucco che sono stati premiati ai Saturn Awards del 2015, dove è stato valutato il miglior film horror dell’anno.
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