avventura

L’uomo che uccise Don Chisciotte, di Terry Gilliam

L’uomo che uccise Don Chisciotte è la rilettura del capolavoro della letteratura spagnola attraverso l’ottica grandangolare di Terry Gilliam. La sua creatività lucida e ludica – se mi passate questo facile anagramma, che è più uno scambio di consonante – ha creato col tempo, molto tempo, quasi 25 anni, una storia surreale e grottesca, un film che è un inusuale connubio di visionario e concreto: la realtà che sa illudere più della fantasia, la quale compenetra la vita reale fino a trasformarla e successivamente negarla per diventare infine rappresentazione morale dell’uomo moderno, o forse più postmoderno.

L’uomo che uccise Don Chisciotte, oggi, è un film ben diverso da quello progettato nella prima produzione andata a rotoli nel 2000. Anche se è rimasto un piccolo nucleo tematico vagamente riconducibile al romanzo Un americano alla corte di Re Artù di Mark Twain con cui era stato creato un incantevole mash-up, nella nuova produzione, arrivata dopo varie vicissitudini su cui si è speculato tanto da far capire la differenza tra “recensione” analitica e “critica” immotivatamente distruttiva.

Don Chisciotte

A lungo è stato il film che sembrava non dover mai veder la luce nel buio della sala, pertanto non poteva che meritarsi, da parte mia, una recensione che sembrava non poter essere messa nero su bianco per veder la luce del vostro schermo retroilluminato. Credo che nessuno degli addetti ai lavori possa dissentire, quantomeno per empatia: varie peripezie mi hanno portato a riprendere gli appunti, rivedere la pellicola e ragionare di nuovo a freddo sulle tematiche. Devo dire che la stratificazione dei significanti è tale da richiedere visioni successive e questo accade solo con film profondamente interessanti. Da Terry Gilliam non ci si poteva aspettare niente di più e niente di meno.

«Ho capito subito che nella sceneggiatura c’erano più livelli da scoprire, e in più era anche molto divertente. Era un modo originale di raccontare la storia di Don Chisciotte, mostrandola da una certa angolazione. L’ho trovata geniale.»

Adam Driver
Un assaggio dello storyboard del film lo trovate sul sito di Pablo Buratti

Come già aveva fatto Cervantes, Gilliam gioca con gli specchi e i simulacri, comunica attraverso le allegorie e lascia libera l’interpretazione del messaggio morale se sia la realtà a “uccidere” ogni illusione o se vivere sognando possa in qualche maniera far digerire la cinicità del quotidiano e lasciar sopravvivere ciò che di epico e cavalleresco ci sia in ognuno di noi.

A tal proposito, è illuminata la scelta di spostare l’attenzione del protagonista dalla ricerca di una vita valorosa come cavaliere errante al sogno condiviso dei personaggi principali di sfondare nel mondo del cinema, la macchina delle illusioni per eccellenza. Solo la mdp è reale. Tutto ciò che è diverso da essa, ciò che riprende, ciò che produce, è comunque finzione, simulacro della realtà. Ma come si fa a non perdersi in essa quando la fascinazione è così suggestiva?

Quello de L’uomo che uccise Don Chisciotte è un magnifico modo per modernizzare la spinta iniziale che origina le avventure del cavaliere dalla triste figura, per immedesimare il pubblico di qualsiasi età, anche il gamer più appassionato che di realtà virtuale e illusione del reale può insegnare a chiunque per quanta ne divora, o ne è divorato.

Toby [Adam Driver: Blackkklansman, Star Wars: Gli ultimi Jedi], cinico e disilluso regista pubblicitario, trova una copia del suo film sperimentale di quando era un giovane studente idealista di cinema. Si tratta della sua personale rivisitazione del Don Chisciotte, girata in un pittoresco villaggio spagnolo, sfruttando riprese dal vivo e attori non professionisti, «per uscire dai cliché» (che poi, in realtà, è da sempre lo stereotipo più in voga tra gli esordienti), secondo uno stile smaccatamente neorealista. Il mondo dello show biz lo ha reso un insensibile arrogante egocentrico narcisista, ma partire alla riscoperta di quel nostalgico passato lo porta ad incontrare quel vecchio calzolaio, Javier [Jonathan Pryce: Brazil, The wife – Vivere nell’ombra], che era diventato il suo protagonista e che non è mai più riuscito ad uscire dalla parte.

L’uomo che uccise Don Chisciotte

Ma il suo piccolo e modesto film non ha finito di provocare sventure: come altri del posto – Los Sueños è il nome del paesello (ammicco!) – anche Toby dovrà assecondare il redivivo “cavaliere dalla triste figura” che lo ha eletto suo fedele scudiero e così facendo ritroverà perfino un amore dimenticato, la dolce Angelica [Joana Ribeiro], non più “donna angelicata”, ma anch’essa vittima della situazione e corrotta dal desiderio di gloria, fama e ricchezze.

La convivenza con la fantasia sfrenata di Javier gli fa perdere l’aderenza con la realtà fino a viaggiare al suo fianco fra tornei cavallereschi improvvisati, giganti da sconfiggere, donzelle da salvare, cattivi da uccidere e grandi imprese da compiere per rinnovare gli antichi valori perduti di un’epoca fantastica in tutti i sensi.

Follia. Amore e morte. Eros e Thanatos. Follie d’amore. Amore per i classici. Amore e passione. Passione per il cinema.

Tematiche che Gilliam riesce nell’intento di racchiuderle in scatole intrecciate e comunicanti in un intricato gioco di intarsi che si uniscono e danno vita a nuove riflessioni che s’incastrano in un flusso continuo simile alle famose scale di Escher.

Questo straniamento dalla realtà, in un percorso onirico che porta alla luce sogni e rimossi freudiani, insieme al suo contrario, la contaminazione del fantasy con elementi della realtà, è un tema ricorrente nella sua filmografia: Brazil, Tideland, Le avventure del Barone di Munchausen, L’esercito delle 12 scimmie, Time bandits, The Zero Theorem, Parnassus.

Tutti questi ribaltamenti trovano il contraltare nel film che pubblico e critica hanno bollato quasi unanimemente come anomalia che va controcorrente al resto: I fratelli Grimm e l’incantevole strega. La verità è che in quel diverso contesto, dove è chiara la matrice fiabesca, il regista va ad operare comunque un twist concettuale esplicitando le basi reali che, rielaborate dagli scrittori sottoforma di allegorie, portano proprio alla scrittura della fiaba. La coerenza del lavoro di contaminazione reciproca tra fantasia e realtà risulta ancora più evidente dopo L’uomo che uccise Don Chisciotte, e soprattutto sapendo che a questa trasposizione ci lavora da 25 anni.

L’uomo che uccise Don Chisciotte

Considerata nella sua totalità, la fase di produzione attraversa come un meteorite sconosciuto tutta la pazzesca filmografia del Monty Python regista. Quante volte Terry Gilliam deve aver sfiorato l’estinzione! Deve essersi davvero sentito un dinosauro se nel frattempo ha deciso di scrivere la sua autobiografia pre-postuma quando ha ancora così tanto da dire!

Di solito la si pubblica perché si è messo un punto. Quindi è l’ultimo film? È stato preso da megalomania? È furbo? Forse un po’, ma se t’incaponisci tutto questo tempo su un progetto fatto e disfatto talmente tante volte che sembra maledetto, forse non è furbo il termine che tutti penserebbero… Pazzo? Sì, forse è un vocabolo più calzante, ma se s’intende una follia buona, quella che va a braccetto con la creatività, quel caos interiore che fa partorire una stella capace di danzare.

A mio parere, l’autobiografia sancisce un traguardo raggiunto, come una maturità o una laurea e il film L’uomo che uccise Don Chisciotte rappresenta l’elaborato di fine corso. È mettere un punto su qualcosa che sembrava irrealizzabile. È celebrarne la riuscita in faccia a chi non voleva e tuttora bistratta per invidia. È mettere il punto e lasciare un’eredità per chi vuol capire e per chi verrà a scontrarsi con gli stessi problemi. Mi piace pensare che sia un punto ma che si possa voltar pagina e trovare nuove pagine bianche da riempire con la stessa passione, goliardia, fantasia e autoironia che sono per questo autore un marchio di fabbrica distintivo.

L’uomo che uccise Don Chisciotte

«Credo che Terry abbia continuato a ritardare questo film solo per farmi invecchiare abbastanza da poter interpretare Don Chisciotte. E così è stato!»

Jonathan Pryce

Sono note a tutti ormai le vicissitudini che hanno portato a procrastinare le riprese del progetto iniziale, grazie al documentario Lost in La Mancia. Quello che però è poco noto è che pare che una maledizione aleggi sopra chiunque sia intenzionato a trasporre l’opera di Cervantes. Un nome su tutti: Orson Welles. L’idea del suo Don Quixote nasce nel 1955 mentre si trovava in Spagna per alcune riprese organizzate dalla RAI, ma durante la lavorazione, il regista ha visto dilatarsi la mole di girato ben oltre l’immaginabile fino a perderne probabilmente il nucleo tematico dominante e diventando uno, nessuno e centomila film possibile e, quindi, di fatto, impossibili. Oggi di tutto quel lavoro resta un mediometraggio montato da Jess Franco, che solo in una minima parte rende giustizia alla genialità di Welles. Da quello che si evince si trattava di un film fortemente sperimentale – come quello di Toby (ammicco ammicco!) – nelle intenzioni, un’opera con una forte connotazione metacinematografica – come l’opera di Gilliam – e con gli unici quattro attori lasciati completamente liberi di improvvisare.

Fortuna per tutti che la maledizione sia finita per L’uomo che uccise Don Chisciotte e che possiamo dire «Quixote vive». D’altronde, si sa, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi e così mi sembra giusto che la mente ingegnosa di Terry Gilliam abbia partorito, come Bugs Bunny, 1001 modi per ingannare il diavolo, meglio di Parnassus. È la scelta del titolo a scatenare questa riflessione, molto più della trama, annodata come un tappeto persiano tra sogno e realtà.

Non “Don Chisciotte” e nemmeno “Don Chisciotte” con un sottotitolo tipo “un’avventura ai confini del sogno” o “la maledizione del tristo cavaliere”… bensì L’uomo che uccise Don Chisciotte.

Ok, “Don Chisciotte” c’è, ma non puoi certo esimerti dal citarlo, sarebbe finezza d’altri tempi e poi il suo nome è una condensazione di immagini, un cluster che rappresenta più concetti per antonomasia.

Don Chisciotte è affetto da una sorta di sindrome di Stendhal: legge i classici nel Seicento e questo vuol dire che s’immedesima in personaggi epici che sono eroi dalle scintillanti armature che viaggiano nel mondo per renderlo migliore, lottando contro il Male, armati soprattutto di virtù cavalleresche che sono poi andate perse nel tempo con il progresso tecnologico. Don Chisciotte ne raccoglie l’eredità, fa suoi quei valori, li incarna, ma ostinandosi a portarli avanti in un mondo che non li riconosce più. Così diventa il diverso che non è omologato e che rifiuta di esserlo. Lo rifiuta a tal punto da aderire ad un mondo di fantasia che diviene la sua personale evasione. La condizione è talmente radicata in lui da non riuscire più nemmeno a separare ciò che è reale da ciò che è mera illusione. Perciò non è pazzo di per sé ma abbraccia la follia poiché è l’unica “realtà” in cui riconosce se stesso, in cui ama se stesso, e nel film di Gilliam questo concetto è strettamente legato a quello di eredità. È come se Don Chisciotte volesse insegnare a vivere a chi è intorno a lui scegliendo un destino tanto epico nella teoria quanto sfortuna nella pratica, piuttosto che morire dentro senza far nulla mentre la vita scorre secondo omologazione di un modello diffuso. La morte è, quindi, considerata parte del percorso intrapreso, la fine di un’avventura personale che potrebbe sancire l’inizio di un’altra storia per chi eredita quella “fortuna”.

Ma il vero enigma che rimane da risolvere è chi sia L’uomo che uccise Don Chisciotte – e probabilmente è anche giusto che il mistero rimanga tale per non lasciare la sfinge senza enigmi. Ma proviamo comunque a formulare qualche congettura dato che non genera nessuno spoiler. Il titolo del film è usato nella maniera ermetica di Ungaretti come un verso in più, per aggiungere significato al resto e moltiplicare le chiavi di lettura.

L’uomo che uccise Don Chisciotte

Dalla tematica del cinema in quanto macchina delle illusioni potremmo essere portati a pensare che sia stato quel “maledetto” film su Don Chisciotte ad “uccidere” l’identità del calzolaio Javier che è rimasto imprigionato nella parte e poi la passione e spontaneità del regista sperimentale Toby per mano della sua copia meschina ed egoista creata dal successo. Le promesse non mantenute, i desideri non esauditi, però, significherebbero una critica estremamente negativa del cinema prima che dello show biz, non certo nuova per Gilliam. Un messaggio non tanto diverso da quello de L’uomo delle stelle di Giuseppe Tornatore. Di nuovo “l’uomo” nel titolo, quasi a voler sottolineare la fallacità umana, a voler attribuire ai comportamenti delle persone le magagne di un’industria cinematografica che sappiamo benissimo quanto sappia investire sul personaggio che rappresenta la moda del momento e non accordare finanziamenti per un progetto culturalmente di interesse nazionale e internazionale come L’uomo che uccise Don Chisciotte.

Chi altro può aver ucciso Don Chisciotte? È possibile si tratti dell’uomo in generale. L’uomo moderno ha ucciso l’hidalgo di Cervantes dal momento che ha abbandonato i valori che lui amava. L’uomo postmoderno, come potrebbe essere Toby insieme al suo entourage, potrebbe aver ucciso l’opera dimenticandone la lezione di vita e preferendo l’ambizione di gloria, fama e ricchezze.

Il gitano viene chiamato “Diaz ex machina” negli end credits per alludere alla sua funzione

Oggi sono in tanti a riscoprire questo classico della letteratura e a proporne delle interpretazioni o a citarlo senza travisarne il messaggio. Dopo Gilliam, anche Galder Gaztelu-Urrutia ha voluto sfruttarne gli insegnamenti per caratterizzare il protagonista del suo Il buco. Se per la produzione spagnola si tratta di un parallelismo metaforico che risulta più politico-sociale, nel visionario Monty Python è la riflessione sulla condizione umana – sul senso della vita! – in tono poetico con spunti riguardanti il retaggio per i posteri, la sottile linea tratteggiata che separa il sogno dalla realtà e la “follia” dall’omologazione travestita da “normalità”, ma soprattutto su cosa si possa o si debba considerare leggendario. Il significato di questo usatissimo gerundio latino, leggenda, è “le cose che sono da leggere”, degne di essere lette. E chi lo decide cosa è degno di entrare nella leggenda? Ormai troppo spesso questo compito è affidato alla moda o all’eccentricità piuttosto che all’esemplarità di pensiero e azione. Se anche voi confrontate con disprezzo i cartoni animati di oggi, privi di messaggi e valori, con quelli degli anni ‘70/’80, forse fin troppo da adulti a volte, allora sapete quanto possa essere attuale il nucleo tematico del Don Chisciotte e quanto sia geniale Gilliam ad averlo attualizzato in una critica allo show business.

E ad incaponirsi a finirlo ne aveva ben donde!

«Penso che il problema di Don Chisciotte sia che quando ti appassioni a questo personaggio e a quello che rappresenta, diventi tu stesso Don Chisciotte. Ti muovi nella follia, determinato a trasformare la realtà nel modo in cui la immagini. Ma che, ovviamente, si rivela molto diversa.»

Terry Gilliam
L’uomo che uccise Don Chisciotte

Infine, un fanatico di cinema classico potrebbe riconoscere una certa assonanza di titoli con uno dei migliori film di John Ford: L’uomo che uccise Liberty Valance. Un western più che crepuscolare dove un John Wayne in grande spolvero interpreta un cowboy solitario che lascia in eredità un west da rivoluzionare all’avvocato James Stewart. Costui non è di certo un pistolero provetto, ma di sicuro ha le qualità per essere un “cavaliere senza macchia e senza paura”, una figura positiva molto più utile per un nuovo mondo in cui sono la legge e l’inchiostro non il piombo dei proiettili a compiere imprese eroiche. Come il Don Chisciotte di Cervantes e di Terry Gilliam il personaggio interpretato magistralmente da John Wayne risulta fuori luogo e fuori (dal) tempo in un’epoca di innovazione politica e sociale. Come Don Chisciotte rimane un nostalgico amante dei bei tempi andati e quando i tempi cambiano in nome del progresso o ci si eclissa con loro in silenzio e solitudine o si può lasciar spazio al giovane lasciandogli in eredità un messaggio indimenticabile, immortale come una leggenda che sa andare al di là di ogni menzogna, oltre ogni illusione, verso un orizzonte che è al tramonto per qualcuno e all’alba per chi verrà dopo.

Come ne L’uomo che uccise Don Chisciotte e in Cervantes, nel metawestern di Ford svelare la menzogna non comporta di rendere pubblica la verità, che resta il fardello di un eroe incompreso per sempre.

«Qui siamo nel West, dove se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda».

L’uomo che uccise Don Chisciotte

In una realtà senza paladini, l’eroe appartiene al mondo dei sogni, non può che venire dal paese di Los Sueños e lì tornare, come un eterno Peter Pan in una Neverland dove si può essere indifferentemente bambini sperduti o leggende viventi: tutto dipende da quanto si è giovani dentro, da quanto si riesce ancora a sognare ed essere felici, di ciò che si ha e di ciò che si è.

Anche le mie parole non rimarranno immortali, per quanto lette, rilette, amate, odiate, capite ma non comprese; ve ne dimenticherete perché così è la vita, non ve ne dovete rammaricare se non me ne rammarico io. Ma se c’è un piccolo granello di sabbia splendente che vi rimane nel cuore, è proprio per quel momento di evasione che vi si è offerto. Un pensiero felice e puoi volare.

Grazie, Terry!

L’uomo che uccise Don Chisciotte

Valerian e la città dei mille pianeti, di Luc Besson

Sono stati necessari più di dieci anni di lavorazione per realizzarlo, ma Valerian e la città dei mille pianeti, non tradisce le aspettative, neanche quelle del suo fan più esigente: il regista stesso. Sì, perché il nuovo film di Luc Besson, adattamento cinematografico della serie sci-fi a fumetti Valérian et Laureline, ideata dallo scrittore Pierre Christin e illustrata dal disegnatore Jean-Claude Mézières, è stato progettato per far conoscere al grande pubblico un’opera in 22 volumi che dal 1967 al 2010 ha ispirato e continua a influenzare la narrativa di fantascienza di ogni settore.

«Siediti, rilassati e goditi lo spettacolo»

2174. il maggiore Valerian ed il sergente Laureline sono due agenti speciali incaricati di mantenere l’ordine nell’universo. I migliori. L’uno [Dane DeHaan; Chronicle, La cura del benessere] è un soldato valoroso, anche se un po’ approssimativo e svogliato quando si tratta di procedure e regole d’ingaggio, libertino in amore, ha paura solo d’impegnarsi sentimentalmente, cosa che, ovviamente, non è gradita alla sua partner, con la quale ha in piedi una relazione. L’altra [Cara Delevingne; Suicide Squad, Città di carta] è una stratega eccezionale dal temperamento burrascoso, ligia al dovere e ben ferma nelle proprie convinzioni. Il loro rapporto non è, però, la trama principale del film. La loro missione è recuperare un oggetto preziosissimo, l’ultimo trasmutatore esistente, e consegnarlo al comandante Arün Filitt [Clive Owen, Inside man, I figli degli uomini] sulla stazione orbitante Alpha. Scesi dall’Intruder, la loro astronave-factotum, s’imbattono, però, in un difficile intrigo che ha a che fare con una minacciosa Red Zone che, dal nucleo di Alpha, si allarga come un tumore destinato a distruggere la stazione stessa e tutto ciò che essa rappresenti per l’intero universo.

«Chi sapeva è stato ucciso».

Conosciuta come “la città dei mille pianeti”, Alpha è una megalopoli in continua espansione, in cui vivono migliaia di specie provenienti da galassie diverse, anche distrutte dal tempo o dalle guerre. È un vero e proprio cluster intergalattico la cui silente storia è tracciata durante i titoli di testa, accompagnati “soltanto” dal brano Space oddity di David Bowie, che rappresenta non solo un sentito omaggio al camaleontico cantautore britannico e ai suoi futuristici alter ego, ma anche un forte intento di caratterizzazione della stazione orbitante come punto di riferimento privilegiato per ogni pioniere dello spazio e come simbolo supremo di condivisione, unità, fratellanza e pace tra popoli. Questo incipit, molto curato sotto ogni punto di vista, ha la particolarità tecnica di abbinare le immagini del passato con l’aspect ratio tipica dell’epoca (immagini di repertorio in 4:3 per la storica sequenza dell’incontro fra la navicella americana Apollo e la sovietica Soyuz nel 1975; formato 16:9 per la sequenza a episodi che parte dal 2020; fullscreen quando si arriva al 2150).


Il messaggio stesso che è alla base di Valerian e la città dei mille pianeti è veicolato da Alpha che «raccoglie tutta la conoscenza dell’universo – spiega Besson – c’è Wall Street, la Città della Scienza, le Nazioni Unite, Broadway. C’è tutto. E questo la rende il luogo più importante dell’intero universo, dove tutte le razze s’incontrano, portano conoscenza e condividono culture da ogni parte, ma soprattutto hanno imparato a convivere. Se alcuni credono che sia complicato vivere accanto a cinesi o afroamericani, che ne penseranno dei miei alieni? Un proverbio che amo dice “puoi scuotere un albero quanto vuoi, se il frutto non è maturo non cadrà”. Quello che possiamo fare noi artisti è inserire idee qua e là, sta poi al pubblico coglierle. Con i miei cinque figli mi comporto nello stesso modo, cerco di stimolare la loro ricettività».

Insomma, per Besson vale lo stesso concetto che muove i personaggi di Inception di Christopher Nolan: piantare semi di idee nel subconscio dello spettatore stimolando la sua ricettività in maniera implicita. E questa non è l’unica analogia possibile tra i due autori. Entrambi, infatti, lavorano meticolosamente ad un film anche per moltissimo tempo, soprattutto in fase di preproduzione e amano circondarsi di una crew ampiamente collaudata e affiatata, “famigliare” se consideriamo che per loro le figure di moglie e produttrice coincidono perfettamente. Oltre a lei, Virginie Besson-Silla [Lucy, Revolver], Besson si è avvalso di un team di collaboratori storici come il direttore della fotografia Thierry Arbogast [Lucy, Il quinto elemento], il compositore premio Oscar® Alexandre Desplat [Grand Budapest Hotel, The imitation game], lo scenografo Hugues Tissandier [Lucy, Taken], il montatore Julien Rey [Lucy, Cose nostre – Malavita], il costumista Olivier Bériot [Lucy, Taken] e il supervisore degli effetti speciali visivi, il premio Oscar® Scott Stokdyk [gli Spider-man di Sam Raimi, Il grande e potente Oz, La quinta onda].

«Visivamente è un film mozzafiato – ha dichiarato Cara Delevingne – il pubblico sarà travolto da tutti i personaggi che vede. La quantità di sforzi che sono stati compiuti in ogni singolo aspetto – i costumi, il design, l’arte – hanno dato vita a un film incredibile».

Rispetto ai film precedenti Valerian e la città dei mille pianeti è un progetto molto più personale per Luc Besson, tanto da volerlo dedicare al padre, venuto a mancare durante il periodo di lavorazione: «perché è lui che mi ha dato il fumetto a dieci anni». L’idea di trarre un film dal fumetto Valérian et Laureline è nata fin dai tempi della collaborazione tra il regista e uno dei suoi autori, Jean-Claude Mézières, per la realizzazione del mondo visionario in cui si svolge l’azione de Il quinto elemento.

Per poter ideare le migliaia di specie aliene diverse necessarie per Valerian e la città dei mille pianeti Luc Besson ha iniziato sei anni fa a mandare mail ad artisti in giro per il mondo, senza rendere noto né il titolo del film né di cosa trattasse né, ovviamente, che fosse lui a dirigerlo. «Abbiamo chiesto di mandarci disegni di un alieno, di una nave spaziale e di un mondo. Ci sono arrivate circa seimila proposte, da queste ne abbiamo selezionate venti, sei dei quali hanno lavorato con me personalmente per sviluppare altro materiale. Gli ho dato una lista con descrizioni molto vaghe e poi ho permesso loro di creare in libertà per mesi. Hanno prodotto materiale incredibile, io alla fine ho solo dovuto scegliere i pezzi più adatti per comporre il mio puzzle. Il livello di creatività che ho ottenuto dando loro libertà, non ponendo schemi o confini, è stato semplicemente pazzesco».

Alla fine di queste libere fasi creative, è stato necessario un lento e accurato processo di finalizzazione per adattare tutto il materiale artistico in uno stile unico, quello molto ben caratterizzato e inconfondibile di Luc Besson.«Sarà il percorso più breve ma non è certo il più semplice»

Ispirandosi all’artista di videogame Yoji Shinkawa e al famosissimo disegnatore francese Mobius, l’artista concettuale Ben Mauro [Lucy, The Great Wall] ha basato le sue specie spaziali sulla fisiologia degli animali: «Una volta che hai capito come funziona la biologia, prendi queste leggi fondamentali e le trasformi in qualcosa di completamente diverso. Alcuni alieni del film sono basati su rinoceronti o elefanti. Li studi nel loro ambiente naturale e pensi a come ottenere qualcosa di strano e insolito… mantenendo quel qualcosa che li rende familiari».

In un turbinio di colori, di oggetti futuristici ed elementi disseminati ad arte per favorire il desiderio di una o più visioni successive gli artisti concettuali che hanno lavorato al film hanno creato un fantastico bestiario: dai Doghan Daguis – una rivisitazione deformata di Qui, Quo, Qua – agli organismi acquatici che sembrano disegnati dalle parole di Jules Verne; dai mastodontici bromosauri alle meduse mylea; dal criminale alieno Igon Siruss – che nella versione originale ha la voce di John Goodman [10 Cloverfield Lane, The artist, Kong: Skull Island, Argo, Boston – Caccia all’uomo] – ai freddi e spietati K-Tron.

Le inquadrature sono spesso affollate di creature che si vedono anche solo per un attimo: il Grande Mercato sul pianeta Kirian, che ricorda moltissimo il pianeta Naboo di Star wars; le strade e le architetture della stazione Alpha che citano Blade runner e, di nuovo, Star wars ma la trilogia originaria con un inseguimento all’esterno tra corridoi angusti su navicelle ultraveloci – non vi ricorda qualcosa? Vedere per credere.
Le citazioni cinematografiche di Valerian e la città dei mille pianeti non sono finite qui, ovviamente, trattandosi di un maestro del postmodernismo: senza scendere troppo nella pedanteria da nerd o da otaku, mi limito a segnalare una sala riunioni in cui i sedili sono a forma di monoliti neri di kubrickiana memoria; il saluto che Laureline rivolge al maggiore Gibson è tratto da Plan 9 from Outer Space (del 1959, regia di Edward D. Wood Jr.), un supercult per veri appassionati; uno skyjet monoposto che ricorda la moto di Tron ma viaggia seguendo le “traiettorie” di decoupage del miglior George Lucas, di nuovo; non poteva mancare nemmeno un rimando alle fantasie di Philip K. Dick e quindi ecco gli interni in cui dominano i contrasti scenografici con ambienti naturali in luoghi artificiali come nelle trasposizioni di Total recall e gli esterni notturni pieni di insegne al neon e macchine volanti come in Blade runner.

A buona ragione Rutger Hauer, che interpretava il replicante Roy nel film del 1982, è stato coinvolto nel progetto da Luc Besson per un cameo di prestigio con tanto di monologo di fondamentale importanza per il setting del film, che non diventerà un cult come il celebre «Io ne ho viste cose che voi umani…», ma sa scaldare ad hoc il pubblico con il suo grande carisma.
Molto suggestiva e raffinatissima è poi la citazione di uno dei massimi capolavori del cinema francese degli anni ’30, L’Atalante di Jean Vigo: come Jean, il protagonista di quel classico, si tuffa nel fiume per verificare la credenza secondo cui nell’acqua si vede il volto della persona amata (e così accade grazie ad una delle prime sovraimpressioni della storia), così Laureline può “vedere” per osmosi, attraverso il fluido corporeo di una medusa mylea, dove si trova il partner disperso. Una vera chicca per cinefili!

«Voglio una spiaggia!»

Una menzione particolare, infine, va inserita per un riferimento che va ben oltre il gioco di ammiccamenti al fanatico di fantascienza. Oltre al comune desiderio di pace e tranquillità rappresentato dal sogno di una spiaggia incontaminata da parte dei protagonisti maschili, in Valerian e la città dei mille pianeti sono presenti alcune tematiche che sono già state analizzate dalla mente geniale di Terry Gilliam e rielaborate sottoforma di riflessione visionario-filosofica in The Zero Theorem. La virtualità, prima di tutto, è rappresentata in maniera differente dai due registi ma risulta simile la riflessione sul contrasto tra verità presunta e finzione latente ma, soprattutto, la funzione metacinematografica che assume nel momento in cui lo spettatore viene coinvolto in prima persona con sparatorie da gamer in soggettiva o con la stuzzicante performance di trasformismo mimetico della glampod Bubble, interpretata egregiamente da Rihanna [Battleship, Home]. Questa tentazione erotica virtuale ricorda moltissimo quella operata dalla cyberfatina Bainsley ai danni di Qohen Leth nel film di Gilliam, ma lo spettacolo della cantante, come in un Moulin rouge all’ennesima potenza, calamita l’attenzione e diventa un cult da vedere e rivedere all’infinito… e oltre!

Rihanna firma, così, di diritto il voluminoso guestbook delle protagoniste femminili di Luc Besson, pur avendo un ruolo secondario nella trama di Valerian e la città dei mille pianeti e si va ad inserire in un firmamento di stelle che il regista ha contribuito a trasformare in fenomeni del glamour: Milla Jovovic, Natalie Portman, Scarlet Johansson e, da ultima, l’astro nascente Cara Delevingne, che dalle passerelle dell’alta moda è passata con nonchalance sul grande schermo. Come la Jovovic ne Il quinto elemento, Cara ha il phisique du role per indossare un vestiario da applausi a scena aperta, dei costumi stupendamenti assurdi che ben si abbinano alla sua bellezza sofisticata.

«Hai ragione. È uno schianto!»

La popstar Rihanna non è l’unica ospite estirpata dal panorama musicale mondiale. Ad interpretare il Ministro della Difesa è stato chiamato nientepopodimenoché Herbie Hancock, una leggenda del jazz, che ha saputo dire la sua anche nel fusion, nel funk e nell’elettronica a cui va aggiunto il cantante cinese naturalizzato canadese Kris Wu, un volto conosciuto per il target adolescenziale. La partecipazione di cotante ugole famosissime potrebbe aver contribuito a ben disporre i Beatles superstiti ad accordarsi per l’utilizzo della canzone Because nel trailer ufficiale del film. Una concessione senza precedenti. «Ho scoperto in seguito che Paul McCartney è un grande fan della fantascienza, penso ci sia stato un pizzico di fortuna quindi» ha poi spiegato Besson.

Una curiosità a margine, i cammei di alcuni cineasti francesi, amici del regista, in ruoli di ufficiali dell’esercito di Alpha: sono Louis Letterier de L’incredibile Hulk, Olivier Megaton autore di Taken 2 e Benoît Jacquot di Addio, mia regina. Segno evidente di una produttiva relazione professionale senza invidie, segno di una cinematografia in salute che sa creare ogni anno prodotti di eccellente fattura.

Alla luce di tutto questo, Valerian e la città dei mille pianeti è un film meraviglioso in cui la tecnologia 3D diventa un valore aggiunto che amplifica notevolmente le emozioni. Un’indimenticabile spettacolo che sa risvegliare il bambino interiore che è dentro ognuno di noi. Un fantasmagorico caleidoscopio sognante in perfetta armonia fra avventura spaziale e fiaba ecologico-morale.

«Il tempo vola quando ci si diverte»

Dunkirk, di Christopher Nolan

Il rigore stilistico di Christopher Nolan si confronta con un genere inedito per la sua filmografia: con Dunkirk il cinema di guerra viene smontato e riassemblato in un thriller magistrale, un prodotto originale che trascende la classificazione stessa di genere, interessando ogni tipologia di spettatore, mantenendo fede, sempre e comunque, ai marchi di fabbrica della famiglia Nolan, alle cifre stilistiche e alla poetica ormai consolidata di un autore che sa strabiliare con qualsiasi progetto.

In Dunkirk ogni storia ha il suo epilogo predestinato come da copione storiografico, ma i sentieri vitali dei suoi personaggi s’intrecciano fino a coinvolgersi, concatenarsi e annodarsi in modo che il destino dell’uno dipenda dalla sorte dell’altro in un crescendo di suspense ritmato dal ticchettìo di un meccanismo ad orologeria, il suono ideale di una sceneggiatura perfetta. Partiamo proprio da quel filo conduttore sonoro, una registrazione dall’orologio sincronizzato dello stesso Nolan, sapientemente mescolato da Hans Zimmer [Interstellar, Il cavaliere oscuro, Inception] con i rumori dei motori delle barche e dei velivoli autentici catturati dal vivo sul set. «L’energia dell’insieme è pazzesca!» esclama il montatore Lee Smith [The Prestige]. La colonna sonora, poi, è arricchita dall’adattamento, elaborato da Zimmer su suggerimento del regista, del tema crescente “Nimrod” di Edward Elgar che, secondo Nolan, è «amato dagli inglesi quanto la storia di Dunkirk stessa».

Ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale durante la leggendaria Operazione Dynamo che doveva portare in salvo i 400 mila soldati in ritirata, braccati dai nazisti e bloccati sulle coste francesi a 10km dal confine con il Belgio. Seguendo uno stile ormai ben formato, Nolan propone un montaggio non lineare, o meglio un intreccio che segue più linee narrative, montate in maniera tale da dilatare o accorciare a proprio piacimento i tempi narrativi. Giocare con il tempo è uno dei marchi della sua filmografia, ma stavolta si sfiora la perfezione: i personaggi si muovono su tre scenari diversi legati indissolubilmente all’elemento naturale che rappresenta il loro sfondo – l’aria, dominata dagli Spitfire in lotta contro il tempo per difendere la fuga degli uomini intrappolati sulla spiaggia o sulle navi disponibili a tentare l’impresa impossibile – mentre il fuoco, degli aerei, dei fucili e dei sottomarini, divide e sottolinea i gesti epici.


-Bravi!
-Siamo solo sopravvissuti
-È abbastanza. Ben fatto!

Quando Dunkirk inizia, lo schermo sparisce e hai la netta sensazione di sentirti abbracciare il cuore da emozioni avvolgenti, che però non arrivano dirette, ma prendono strade tortuose e per questo più interessanti da scoprire. Si tratta di un altro espediente, ormai classico, del regista, mai diretto, mai scontato, che spinge lo spettatore a tenere viva l’attenzione sul particolare, in tensione dall’inizio alla fine per svelare l’enigma, per risolvere ogni mistero e vivere un’avventura, come del resto è giusto che sia in una sala cinematografica.

Non manca di certo nemmeno un’immersione profonda nel tema del doppio che, come da filmografia, è basato su una divisione per niente manichea tra il Bene e il Male, come accadeva per i protagonisti di The Prestige, di Insomnia o Inception. Un evidente parallelismo con The Prestige, poi, si può notare nel finale, quando gli elmetti sulla spiaggia di Durkirk, riecheggiano la moltitudine di lampadine, cappelli e vasche del film sui prestigiatori e sul costo umano della loro guerra.

«È stato un momento fondamentale per la Seconda Guerra Mondiale. Se l’evacuazione non fosse andata a buon fine, la Gran Bretagna sarebbe stata costretta ad arrendersi. Il successo permise a Churchill di imporre l’idea di una vittoria morale e di galvanizzare le truppe. Se dal punto di vista militare è stata una disfatta, sul piano umano è stato un successo colossale». Un momento fondamentale della Storia che Nolan racconta quasi esclusivamente per immagini – spettacolari, sotto ogni punto di vista, e senza ricorrere alla CGI, sotto la supervisione di Hoyte Van Hoytema [Interstellar] – lasciando uno spazio esiguo ai dialoghi che risultano ridotti all’osso ma sicuramente intensi, affidati a Kenneth Branagh [Jack Ryan – L’iniziazione, Hamlet, Frankenstein di Mary Shelley], Mark Rylance [Il ponte delle spie], Cillian Murphy [Batman Begins, Inception, Il cavaliere oscuro] e Tom Hardy [Mad Max: Fury Road, Revenant – Redivivo, Locke].

«Ho passato molto tempo a vedere e rivedere molti film muti – ha rivelato il regista – in particolare Rapacità, Intolerance e Aurora, per studiare le scene di massa, il modo in cui si muovono le comparse, come è sfruttato lo spazio, i punti di vista usati». Gran parte dei 400 mila soldati bloccati sulla spiaggia erano dei ragazzi giovanissimi, praticamente dei bambini trascinati a forza in un inferno di fuoco. Per trasmettere al pubblico il loro disorientamento, Nolan ha scritturato «attori giovan e freschi, senza un curriculum particolarmente ampio alle spalle, in modo che gli spettatori potessero immergersi completamente nel film senza riconoscere personaggi famosi». Giovani leve da affiancare ai suddetti “mostri sacri”. Unico strappo alla regola Harry Styles degli One Direction.

Durkirk non è solo un film. È un monumento alla determinazione dell’uomo, quella determinazione dettata dall’istinto di sopravvivenza e dalla voglia di rivalsa, nonchè una bandiera della solidarietà, del coraggio e del senso di unità di un’intera nazione. Spettacolare. Monumentale. Magistrale.

Microbo & Gasolina, di Michel Gondry

«Every great idea is on the verge of being stupid».

Microbe et Gasoil, il nuovo film di Michel Gondry, è stato presentato a Roma al Rendez-Vous Festival del cinema francese il 7 aprile e sarà nelle sale ufficialmente a partire dal 5 maggio con il titolo Microbo & Gasolina. Inizialmente, dopo Mood Indigo – La schiuma dei giorni, il regista avrebbe voluto adattare per il grande schermo un altro romanzo surreale, il famosissimo Ubik di Philip K. Dick, ma poi ha deciso di proporre un film molto più personale accettando il consiglio di Audrey Tautou che, nel nuovo film, è presente nella inedita veste di madre in crisi matrimoniale ed esistenziale.

Due ragazzi di Versailles, Daniel e Theo, viaggiano tra Île-de-France e il massiccio del Morvan, attraversando la Borgogna in un’avventura on the road che è anche percorso interiore di crescita, a bordo della loro casa su ruote. No, non una roulotte o un camper. Non è che non mi veniva in mente il termine appropriato: è che si tratta proprio di un capanno degli attrezzi in legno montato su quattro ruote, una rete matrimoniale e un motore a due tempi di un tosaerba.

Microbo & Gasolina è, di base, una commedia adolescenziale ma, com’era lecito aspettarsi da un genio del cinema come Gondry, fin dalle prime scene di setting, lo spettatore si trova di fronte ad un film comunque sui generis, che contamina road movie, buddy movie, romanzo di formazione, comicità ed espressionismo, senza trascendere mai una solidissima base realistica, uno dei capisaldi della poetica del regista insieme all’inserimento di elementi autobiografici disseminati ad arte.

ShakeMoviesStandard04

Protagonista e alter ego del regista è Daniel [Ange Dargent], soprannominato “Microbo”dai compagni di scuola per la sua costituzione fisica. L’incompletezza di Daniel è evidente fin da subito e non gli è di certo d’aiuto vedere i suoi genitori in crisi e doversi rapportare con un fratello maggiore musicista, anch’egli in crisi d’identità. Di conseguenza tende ad isolarsi e a perdersi in riflessioni esistenziali più grandi di lui, quando non è rapito dalla sua passione più grande, il disegno, per cui dimostra un talento innato: si dice che uno dei termini di paragone per misurare le effettive capacità di un disegnatore sia l’abilità nel disegnare tutte e cinque le dita della mano… beh, Daniel, se si distrae ne riesce ad aggiungere una addirittura! Inoltre, la sua straordinaria facilità di disegnare a mano libera gli permette di risparmiare sulle riviste “sporcellose”: può praticare l’autoerotismo con disegni creati di suo pugno, per un “fatto a mano” fino in fondo. Elementi goliardici a parte, attraverso Microbo, Gondry torna e fa tornare giovani, fa rivivere le emozioni delle prime cotte, dei disagi con il proprio corpo e nella comunicazione con gli altri, dai quali si vorrebbe essere accettati e compresi e non giudicati e condannati. In questo contesto di vulnerabilità dei quattordici anni riesce a far sognare, divertire e, infine, anche riflettere.

Nel momento di maggior sconforto, proprio quando riflette con la madre sul senso della vita, della morte e della presenza di un qualcosa di ultraterreno, nella classe di Daniel, nel bel mezzo dell’anno scolastico, giunge Theo, nome non scelto a caso probabilmente, come un deus ex machina e da allora Microbo avrà qualcuno su cui contare, con cui condividere disagi, ansie, paure e svaghi, con cui confidarsi senza essere giudicato, con cui costruire la propria identità indipendente.

«Non ti preoccupare! Tutti facciamo cose strane».

ShakeMoviesStandard03

Theo [Théophile Baquet] è un ragazzo più scafato, dalla battuta sempre pronta e pieno di inventiva, la cui passione per la meccanica e i motori gli procura subito il nomignolo di “Gasolina”. Più saggio di Microbo, Theo reagisce con maturità ad ogni situazione, anche le più spiacevoli, inanellando tutta una serie di massime che possono assurgere ad insegnamenti di vita per un qualsiasi adolescente: «I bulli di oggi sono le vittime di domani!». Finalmente Daniel si sente incoraggiato, compreso e stimolato. Theo lo chiama anche con un nuovo soprannome di natura positiva: “gouache” (= guazzo), la tecnica di pittura adoperata dal ragazzo per la sua mostra personale. Insieme i due ragazzi si completano e possono affrontare un mondo all’apparenza ostile in modo sano, senza trascinarsi in un paese dei balocchi o nella perdizione come Pinocchio e Lucignolo, ma piuttosto avventurandosi in situazioni rocambolesche come una qualsiasi strana coppia del fumetto francese, primo fra tutti Spirou e Fantasio, forse richiamati anche nel titolo.

Sentimenti come amore, amicizia, rapporti familiari, conoscenze in Microbo & Gasolina hanno la rilevanza che può avere un tappeto musicale. La melodia dell’adolescenza è in continuo divenire, distratta da tutto ciò che può attirare la sua curiosità attiva. Ma, di fatto, è un assolo che si armonizzerà solo col tempo e con le esperienze brutte (Inside out docet!), belle o avventurose (L’estate di Kikujiro, La ricompensa del gatto, Tutti vogliono qualcosa) che siano.

Quella raccontata da Gondry è una sinfonia a due, divertente e spigliata, senza troppi fronzoli, con due personaggi che si completano e si aiutano a vicenda nel comune intento di superare un percorso impervio e faticoso da gestire in solitaria.

ShakeMoviesStandard02

Se la bici modificata, l’automobile e il taglio di capelli handmade possono esprimere il desiderio dei protagonisti di esprimersi e distinguersi, la casa viaggiante diventa metafora di libertà e di redenzione: gli elementi che la compongono sono riconducibili ai luoghi sociali dai quali i ragazzi si sentono distanti ed emarginati, famiglia in primis, e provengono dal posto in cui si sentono maggiormente a loro agio, la discarica. Ed ecco la redenzione: i due rifiuti della piccola società scolastica prendono ciò che la società dei consumi ha scartato e creano qualcosa che li faccia evadere da una realtà che sentono asfissiante, incomprensibile e allo stesso tempo ingiusta nei loro confronti al punto da non lasciare spazio per esprimersi nella propria diversità. Il tentativo di omologazione del veicolo creato rappresenta in parallelo il tentativo di omologazione sociale rincorsa da Daniel e sempre rifiutata da Theo, così i due protagonisti incarnano le caratteristiche di Gondry uomo, diviso tra le sue antiche passioni per il disegno, la scenografia, la fantascienza e la meccanica retro, e del Gondry regista, legato indissolubilmente al suo cinema, che stupisce con realtà tangibili farcite di surreali trovate che sanno dare «un calcio al futuro» attraverso un ritorno al passato. Non a caso i film preferiti del regista sono Ritorno al futuro e Le voyage en ballon.

Nell’estetica visionaria di Gondry sappiamo che la scenografia ha la supremazia sugli effetti digitali fin dai primi videoclip e spot pubblicitari fino alle opere più recenti. In questo nuovo film piacevole, divertente e colorato, il regista de L’arte del sogno torna alle origini e così compie un’opera di bricolage mettendo insieme due caratteri complementari in una sceneggiatura perfetta e mai scontata, dove il genio narrativo va di pari passo con quanto creato artigianalmente sul set con assi di legno, viti e cartone: dalla bicicletta-consolle di Gasolina, fino alla casa-automobile, ogni cosa è profondamente reale, concreta e tangibile così come il contesto della storia e i desideri dei protagonisti. Non vi è una macchina del tempo fisicamente nel racconto filmico, magari progettata con nuvole di cartone ed ingranaggi di orologi antichi, ma è la sceneggiatura, stavolta più che in altre occasioni, a riportare il nostro calendario interiore indietro fino a sentire sulla nostra stessa pelle il ribollire del sangue di quegli anni, ad ogni rospo ingoiato per colpa di bulli rimasti impuniti, di professori frustrati e genitori in crisi. Attingendo a piene da quella fonte dell’eterna giovinezza, che è il mondo dell’infanzia cinematografica, Gondry consegna allo spettatore dei personaggi timidi o disillusi, ma comunque chiusi in sé stessi, che insieme, gradualmente, come in una terapia, si esprimono attraverso lo schermo, con tutti i loro sogni e i loro desideri, fornendo contemporaneamente uno spaccato del nostro tempo e riproponendo una delle tematiche più care alla poetica di Gondry: la difficoltà nella comunicazione interpersonale.

ShakeMoviesStandard07

Anche la musica scelta, di Jean-Claude Vannier, contribuisce a fornire alla pellicola un’atmosfera retrò

«Ero alla ricerca di un compositore. Una notte, ho sognato Charlotte Gainsbourg. Quando mi sono svegliato, mi è venuta in mente una canzone di sua madre [Jane Birkin], “Di Doo Dah”, con quel semplice ritmo di basso, quel tremolo picking di chitarra… e sapevo che si trattava di Jean-Claude Vannier. Ha organizzato molte delle canzoni della Gainsbourg, tra cui l’album Melody Nelson. Ha anche fatto belle canzoni come Super Nana, Michel Jonasz. L’ho contattato, gli ho mostrato il film, ha immediatamente accettato».

Una curiosità per appassionati: Étienne Charry, che nel film interpreta l’organizzatore del concorso di disegno, ha invece composto la musica di Mood Indigo – La schiuma dei giorni.

Microbo & Gasolina è la dimostrazione che si può sopravvivere a quel difficile periodo della vita in cui i punti di riferimento iniziano a vacillare perché non si è più bambini ma non si è nemmeno ancora adulti, senza perdere una propria identità indipendente, non omologata alla massa, e senza dimenticarsi che ci si può divertire e crescere contemporaneamente.

«I ragazzi non sono responsabili della felicità degli adulti».