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Joker, di Todd Phillips

Joker di Todd Phillips, ovvero “l’elogio della pazzia criminale”.

«Qualsiasi cosa siano soliti dire di me i mortali, e infatti non sono così sciocca da non sapere quanto si parli male della follia anche da parte dei più folli, tuttavia sono io, io sola, ve lo posso garantire, che ho il dono di riuscire a rallegrare gli dèi e gli uomini. Eccone la prova: non appena mi sono presentata a parlare dinanzi a questa numerosa assemblea, tutti i volti si sono improvvisamente illuminati di una certa nuova e insolita letizia; subito le vostre fronti si sono spianate, subito mi avete applaudito con una risata così lieta e amabile che mi sembra di trovarmi dinanzi a un consesso degli dèi di Omero, come loro tutti ubriachi di nettare e nepente, mentre prima ve ne stavate lì seduti tutti imbronciati e tristi, come se foste appena usciti dall’antro di Trofonio».

[Elogio della follia, Erasmo da Rotterdam]

Joker è tutto giocato sulle aspettative – tradite e soddisfatte – e questo, a seconda del punto di partenza, può voler dire consenso o disapprovazione. Il regista Todd Phillips [Trafficanti, A Star Is Born] ottiene successi planetari di pubblico con dei buddy movie fondati sulla comicità, la trilogia di Una notte da leoni e Parto col folle, e si cimenta inaspettatamente con la genesi di un villain che è prima di tutto un personaggio controverso e mentalmente deviato e che trova reazione alle sue sofferenza in una violenza ingiustificata. Aspettative di riuscita dubbie, nonostante avesse all’attivo anche il successo di A star is born, ma tradite in positivo: il film, per quanto generi discussioni infinite sulla possibile emulazione della violenza, è di notevole interesse, ben costruito e ha ottenuto traguardi importanti.

Joker ha conquistato il Leone d’oro alla 76ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, ha vinto due Golden Globe e due premi Oscar su ben undici candidature, record per l’edizione 2020. È ormai nella storia, inoltre, come la prima pellicola basata su un personaggio DC Comics a concorrere in qualità di miglior film. Prima di Joker solo Black Panther [Marvel] aveva concorso per la stessa categoria.

Per non disattendere, invece, le aspettative dei lettori di Batman, bisogna premettere che questo film su Joker in nessun modo è collegato o collegabile al DC Extended Universe e che non ci si deve approcciare alla visione di questo film come un cinecomic di tipo classico. Sarebbe sbagliato senza “se” e senza “ma”.

La figura di Joker va al di là del personaggio stesso, perché anche se inizialmente la malvagità è reazione alle aspettative tradite di inserimento sociale e di attenzione paterna, successivamente diventa seme di un’idea di rovesciamento del sistema stesso e può essere innestato in un qualsiasi altro soggetto. Né più né meno di quello che avviene in Inception di Christopher Nolan.

Joker non è, quindi, un villain come tutti gli altri checché ne dica lui stesso:

«Ecco tutto ciò che mi separa dal resto del mondo. Solo una brutta giornata!»

La sua complessità deve essere chiara anche nel momento in cui si vede il film. Per non aspettarsi né le scazzottate kitch della serie TV né i piani intricati né le bombe ad orologeria o i congegni a molla e i carillon.

La sceneggiatura a quattro mani di Todd Phillips [Oscar per la sceneggiatura non originale di Borat – Studio culturale sull’America a beneficio della gloriosa nazione del Kazakistan] e Scott Silver [nominato agli Oscar per The fighter] si basa sull’omonimo personaggio dei fumetti DC Comics, in particolare sul graphic novel Batman: The Killing Joke, scritto da Alan Moore [Watchmen] e disegnato da Brian Bolland: la storia approfondisce psicologicamente, come nessun altro albo, il rapporto anomalo e contorto che s’instaura tra il Cavaliere Oscuro e il suo più iconico nemico, permettendo così al genio visionario di Moore di apporre la sua illustre firma su una delle possibili origini del villain.

Anche per quanto riguarda la fotografia e la messa in scena in generale il Joker di Phillips mantiene lo stile grafico deciso da Bolland, costruito a partire da una delle più interessanti trasposizioni cinematografiche del periodo muto: L’uomo che ride, del 1928, liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Victor Hugo, è un melodramma storico stilisticamente riconducibile al movimento espressionista, che impressionò a tal punto gli spettatori per la crudezza delle scene, per la resa fotografica e soprattutto per l’aspetto raccapricciante del protagonista, che fu considerato a lungo un film horror. In effetti la mimica facciale di Conrad Veidt mentre è Gwynplaine è qualcosa di raccapricciante nonostante sia trascorso quasi un secolo.

Il Joker di Phillips arriva dopo le prove eccellenti dell’inquietante pazzo criminale con il volto di Heath Ledger ne Il cavaliere oscuro e del volutamente eccessivo gangster di Jared Leto in Suicide Squad, senza dimenticare nel capostipite burtoniano l’interpretazione di Jack Nicholson che ha fatto epoca, sebbene fosse fin troppo legata ad un’iconografia edulcorata da palinsesto per famiglie.

Già questo crea inevitabilmente delle aspettative che possono innescare cortocircuiti che potrebbero portare alla fuga: dello spettatore, che magari ha deciso a priori che il suo Joker di riferimento ha ormai definitivamente le sembianze del suo idolo; dell’attore, che si deve cimentare al posto di colleghi illustri, magari suoi amici, con il peso che questo comporta e le critiche che volente o nolente dovrà reggere su spalle più larghe e ben più forti di quelle che ha fornito al suo Arthur Fleck.

In quale assurdo clima di aspettative deve aver lavorato Joaquin Phoenix [Irrational man, Maria Maddalena, Don’t worry] sul personaggio!

Arthur Fleck [Joaquin Phoenix] è un uomo profondamente alienato che vive, o meglio sopravvive, come può, nella Gotham City del 1981, in un appartamento dei bassifondi con l’anziana madre Penny, ormai incapace di intendere e di volere. In una città che sprofonda giorno dopo giorno nel degrado e nella disuguaglianza sociale, Arthur lavora come clown in affitto per i negozi e con lo stesso travestimento fa servizio civile in ospedale, ma il suo più grande sogno è diventare un famoso comico ed essere ospitato in diretta al suo talk show preferito, il Live! With Murray Franklin.

L’alienazione di Arthur sarebbe sotto controllo se non avessero operato dei profondi tagli alla sanità così l’uomo si ritrova senza assistenza medica e il suo disagio mentale gradualmente si trasforma in vera e propria dissociazione: ha, infatti, un raro ma innocuo disturbo simile alla sindrome pseudobulbare, in cui il danneggiamento dei meccanismi che regolano la normale risposta emozionale della risata sono irrimediabilmente danneggiati. Il risultato filmico è una risata completamente fuori controllo, allegra solo nel suono ma disarmonica rispetto alla mimica facciale, contrita in un misto di vergogna, terrore e disperazione. Da Oscar.

A dispetto del suo rapporto conflittuale con la risata, Arthur viene chiamato “Happy” dalla madre e incoraggiato a continuare a scrivere sketch e barzellette, che non fanno ridere nemmeno lui, e proseguire su quella strada fallimentare, con l’idea che dal fondo del baratro non ci si può che sollevare, ma come e a che prezzo?

«Mia madre mi diceva sempre di sorridere e mettere una faccia felice. Mi diceva che ho uno scopo: portare risate e gioia nel mondo».

È palese come il disturbo della risata sia solo la punta di un iceberg sommerso ancora per poco. Presto diventano chiari i sintomi di una schizofrenia condita da atteggiamenti depressivi: Arthur vive in un’illusione che viaggia parallela alla realtà e ciò che muove i suoi passi è la costante ricerca dell’approvazione di una figura paterna che possa fornirgli concretezza, aderenza al mondo reale o almeno un senso di appartenenza a qualcosa di meglio della feccia in cui quotidianamente annaspa a bracciate scoordinate.

In prima istanza Arthur segue i voli pindarici della madre, convinta che il figlio sia di Thomas Wayne, ma il magnate è inamovibile. Un’altra strada impercorribile che lo porta solo ad un cancello chiuso sotto gli occhi ancora innocenti di Bruce.

Ancora, però, il protagonista non si arrende: si può tentare di essere figura paterna, anche non avendone mai avuto una, per il figlio della vicina tanto carina… ma ecco che la malattia si palesa maggiormente in lui e sullo schermo. Sale in cattedra il regista ad aiutare lo spettatore, che finora ha addirittura parteggiato per il protagonista, e lo mette nella condizione di riconoscere lo stato alterato della coscienza di Arthur e ad essere critico nei confronti di una realtà filmica sempre più distorta dal suo sguardo. Un esempio dell’intervento registico è il “fuori bolla” che riprende Arthur nel pianerottolo del condominio prima di rientrare a casa: si tratta di un’inquadratura particolare che si effettua ruotando la mdp in modo che la linea dell’orizzonte filmato non sia più parallela a quella reale e serve a suggerire un’alterazione nella visione del mondo da parte del personaggio a cui fa riferimento, che sia esso inquadrato o che sia in modalità soggettiva. Si fa largo a questo punto un dubbio: cos’è vero? siamo solo spettatori delle allucinazioni di Arthur? Una delle tante possibili interpretazioni.

Nemmeno un’uscita “romantica” con la vicina in una scena al diner che è citazione esplicita di Taxi driver di Martin Scorsese – un chiaro parallelismo dato che non è l’unica – lo porta su una strada di vita percorribile. Dopo le aspettative di ricostruire i legami familiari, anche l’amore che salva il mondo in quasi tutti i film si dimostra un vicolo cieco. Un’altra possibilità di affermazione sociale decade e Arthur, che è privo di una qualsiasi bussola morale, si trova ormai con le spalle piegate dalla sua vita deprimente, in cui campa a stento, contro un muro che non gli lascia che poche alternative.

La svolta è la reazione violenta all’ennesimo atto di bullismo.

«Per tutta la vita, non ho mai saputo se esistevo veramente. Ma io esisto. E le persone iniziano a notarlo»

La genesi del mostro è sottolineata egregiamente da un’indimenticabile scena in cui Joker scende una ripida scalinata di cemento, ballando sulle note di Rock and Roll Part 2 di Gary Glitter. Un’inquietante danza liberatoria che è già diventata virale: la location delle riprese è diventata subito meta di turisti, curiosi e cinefili che voglio farsi immortalare mentre replicano la locandina o si filmano mentre riproducono la coreografia. In pratica è diventata un’icona culturale come un’altra scalinata, quella di Rocky a Philadelphia. La scalinata di Joker si trova a Highbridge, nel Bronx – non proprio un quartiere ospitale – e collega Shakespeare Avenue, più o meno all’altezza del civico 1165, con Anderson Avenue. Poi ci si domanda come mai il New York Times abbia timore di emulazioni

Torniamo al film per un’ultima aspettativa da parte di Arthur. Tradita? Appagata? Dipende dai punti di vista, se il suo o il nostro: in un ultimo tentativo di prendersi quei «15 minuti di celebrità» che ogni persona può avere secondo Andy Warhol, dopo aver assaggiato il sapore della liberazione dal male attraverso il Male, il nuovo Arthur si presenta ospite allo show televisivo che tanto ama. Davanti ad un Robert De Niro [The Irishman, Lo stagista inaspettato, Joy], che per il pubblico è stato il delirante Taxi driver e l’ossessionato Re per una notte – riferimenti evidenti del regista Todd Phillips – Joaquin Phoenix inscena l’apice della follia e l’apoteosi del suo personaggio.

«Quando mi farai entrare mi annunceresti come “Joker”?»

L’aspirante comico deriso non esiste più. La massima attribuita da sempre a Giulio Cesare «se non puoi vincere il tuo nemico, fattelo amico» sembra assumere un nuovo significato per Arthur. L’uomo abbraccia la sua tanto odiata malattia e accoglie in sé la pazzia come compagna di vita: l’ultimo barlume di umanità in lui muore e il Joker viene alla luce dalle tenebre più profonde del super-io. La violenza diventa catarsi. La paura si fa strumento di rivalsa sulla società che gli ha voltato sempre le spalle. Il mostro è uscito dalla gabbia, ha assaggiato il sangue e vivrà di rabbia, odio. È ora il Joker, la Matta, the Fool, non più giullare fallito, ma maschera di morte.

«Non sono stato felice mai, neanche un minuto della mia vita del cazzo! Sai cos’è buffo? Cosa mi fa veramente ridere? Ho sempre pensato che la mia vita fosse una tragedia, ma adesso mi rendo conto che è una cazzo di commedia!»

Finalmente una risata coerente, figlia di una vita beffarda, creata da un corto circuito che non è esclusiva del film e del fumetto in questione, ed è sicuramente riduttivo considerare i già citati riferimenti cinematografici o aggiungerne altri abbastanza calzanti come Un giorno di ordinaria follia o Arancia meccanica. Come fosse un compendio sull’interconnessione tra risata e insanità mentale, il Joker di Phillips fa venire in mente anche riferimenti illustri. Viene in mente il rapporto conflittuale che fratello Jorge ha nei confronti della risata e delle tesi aristoteliane su di essa ne Il nome della rosa di Umberto Eco.

Ma soprattutto esiste un simile corto circuito tra la comicità desiderata tuttavia inattuabile e il dramma che la prevarica fino ad essere padrone incontrastato della scena, fino a coinvolgere la platea dal proscenio e che troviamo nell’opera lirica I pagliacci di Ruggero Leoncavallo: l’attore che interpreta il clown ha scoperto che sua moglie, e collega, lo tradisce con un altro attore così, mentre porta avanti la commedia, ormai esasperato dalla gelosia dà libero sfogo alla sua rabbia e uccide i due amanti per poi rivolgersi al pubblico ed esclamare «La commedia è finita!» L’aria in questione è la famosissima Vesti la giubba! – una The show must go on ante litteram – che rappresenta il concetto di clown tragico, impeccabile nel suo ruolo comico («but my smile still stays on»), nonostante interiormente viva un profondo dramma personale.

La reazione al dramma interiore è un gesto di violenza improvviso che nello stesso istante trascina in uno stato di alterazione il piano diegetico e l’extradiegetico (la “quarta parete”).

La reazione della folla è sconcertante più del gesto. È il trionfo della follia.

Su questo aspetto si fonda la paura del NY Times: che si possano verificare emulazioni e, il precedente massacro di Aurora alla prima de Il cavaliere oscuro – Il ritorno ad opera di un esaltato che si presentò come Joker, non fa che avvalorare questo sospetto.

Quindi è un film su un pazzo che poco ha a che fare con Batman?

Di nuovo aspettative. Deluse se si entra in sala per vedere un nuovo capitolo della saga del cavaliere oscuro. Soddisfatte in pieno se si analizza il punto d’intersezione dei personaggi.

L’incontro avviene attraverso le sbarre del cancello; significativo ed ambiguo, come il rapporto che intercorrerà da lì in poi tra i loro due alter ego. Da una parte il cancello è un limite invalicabile dall’altra non rappresenta una separazione netta tra i due, che possono interagire attraverso le sbarre: Arthur parla con il piccolo Bruce, come se avesse già deciso che sono fratelli, fratelli di sangue, tanto che arriva ad allungare le mani sul viso del suo futuro nemico per provare a suo modo la parentela attraverso quel sorriso forzato, quella smorfia malata che in lui non trova pace.

È oltremodo significativo che il cancello sia a sbarre come quelle di una prigione: per uno esprimono la giusta pena commisurata ai crimini perpetrati, per l’altro rappresentano la gabbia dorata in cui ancora vive, ignaro del destino che lo attende dietro l’angolo, in vicolo buio, per mano di un emulo del Joker.

Per entrambi, oltre ad una separazione labile, quel cancello, quelle sbarre, quell’impossibilità di comprendersi mette in luce la loro condizione di ineluttabilità del destino, un destino in continua lotta, con se stessi prima di tutto, poi con la propria eterna nemesi. Ed è proprio a questo punto che s’incontra un altro nodo che tormenta i detrattori del film: questo personaggio sfortunato e penoso, che spinge lo spettatore a tifare per lui a lungo, può essere all’altezza della situazione? Può essere quello che Moriarty rappresenta per Sherlock Holmes: un orditore di trame assurdamente intricate e piani intellettualmente eccentrici? Può essere un gangster senza scrupoli a capo di una miriade di clown criminali? La risposta la fornisce il fumetto che è l’origine di tutto: Joker non è un uomo, non è un criminale; Joker è un’idea, il seme di un’idea che s’innesta e cresce a nuova vita sui terreni fertili creati dalla società stessa con le sue ingiustizie, la violenza, l’indifferenza, la miseria materiale e culturale, che costringono le ultime ruote del carro ad un’agnizione che non potranno mai conquistare. Di nuovo aspettative deluse.

Insomma, è nato prima il clown del pipistrello? Non proprio. Il Joker di Todd Phillips è la genesi di quell’idea. Quello che Arthur diventa è quello che in gergo viene definito proto Joker. Il primo di tanti. Come un eroe anche l’antagonista può avere un’evoluzione. In questo sta la grandezza della scrittura di Batman. In questo sta la grandezza di questo film. Clown criminali potenzialmente infiniti come eterna è la lotta al crimine in questa Gotham City inedita, per la prima volta fornita di una connotazione temporale ben precisa.

«I ricordi sono ciò su cui si fonda la nostra ragione. Se non riusciamo ad affrontarli, neghiamo la ragione stessa! D’altra parte, perché no? Non siamo legati alla razionalità per contratto! Nessuna clausola di sanità mentale! Perciò, quando ti ritrovi avviato lungo binari difficili, diretto verso luoghi del tuo passato in cui le urla si fanno insopportabili, ricorda che c’è sempre la follia. La follia è l’uscita di sicurezza… Permette di farsi da parte e di richiudere la porta su tutte quelle cose terribili che sono successe. Di rinchiuderle… per sempre.»

[Batman: The Killing Joke, Alan Moore e Brian Bolland]

Birds of Prey, di Cathy Yan

Come si fa a diventare Harley Quinn? Basta laurearsi a pieni voti in psicologia, farsi assumere nel manicomio di Arkham, innamorarsi follemente di uno dei pazienti, fuggire con lui e diventare una delle criminali più ricercate di Gotham City. Un’impresa impossibile, tant’è che Harley è unica nella sua dolce follia, nei suoi colori sgargianti e nella sua incredibile abilità con il martello, o con la mazza da baseball, a seconda delle occasioni. Harley brilla, qualunque cosa faccia, ed esplode sul grande schermo, proprio come la fabbrica di prodotti chimici che ha visto nascere la sua storia d’amore con Joker. E che ora non è che fuoco, fumo e polvere.

Harley si è lasciata tutto alle spalle e si avvia sorridente e piena di speranza verso un futuro tutto da ridisegnare. L’arlecchino che vive all’ombra del padrone di Gotham non esiste più, perché ora è padrona di se stessa, responsabile dei suoi disastri e libera di crearsi una squadra a sua immagine e somiglianza. E quale scelta migliore di una squadra di donne pronte a sfidare le regole, a farsi giustizia da sole, e a mettere a tappeto a colpi di calci, urla assordanti e balestra tutta la malavita di Gotham?

Le Birds of Prey sono delle outsider, delle donne in cerca di vendetta, o di giustizia, a seconda del punto di vista, impossibili da inquadrare tra i buoni o i cattivi, perché ognuna di loro ha qualcosa per cui combattere, e lo fa senza farsi scrupoli di alcun tipo. Huntress, figlia del mafioso Franco Bertinelli, si allena da tutta la vita per vendicarsi dei sicari che hanno sterminato la sua famiglia, Black Canary, dotata di un formidabile urlo sonico, vuole affrancarsi dal nuovo cattivo Black Mask, Renee Montoya, la più brillante detective del dipartimento di polizia di Gotham, combatte per dimostrare il suo valore ai suoi colleghi maschilisti, e poi c’è la giovane Cassandra Cain, che si è messa nei guai entrando in possesso di un preziosissimo diamante e che è subito diventata la pupilla di Harley Quinn.

Da sottomessa a mentore, a leader indiscusso, questa è la fantasmagorica rinascita di Harley Quinn, protagonista assoluta di Birds of prey, in cui tutta la giostra di Ghotham gira attorno a lei, che scorrazza con pattini e martello mietendo vittime senza sosta. Ma nonostante la violenza spietata e la brutalità che hanno sempre contraddistinto Gotham City siano rimaste immutate, la città non ha più nulla della metropoli cupa e fumosa che faceva da sfondo alle avventure di Batman. Perché Cathy Yan mostra la città attraverso gli occhi di Harley Quinn, dal suo punto di vista, e l’immagine che arriva è quella di un gigantesco luna park, di un’esplosione di colore e musica, in cui di Batman non resta altro che il simulacro di una iena che porta il suo nome.

Birds of prey è Harley Quinn, nient’altro. Un viaggio lisergico nel suo immaginario folle e complesso, ma soprattutto una celebrazione del suo potere ritrovato, della sua forza. Che ci siano o no dei nemici da combattere, o dei nuovi alleati, passano sicuramente in secondo piano rispetto a questo straordinario personaggio, che rispetto a Suicide Squad, qui ha finalmente il giusto respiro per raccontarsi e per scatenarsi, senza vincoli, senza freni. Libera dalla presenza ingombrante di Joker, Harley esprime finalmente a pieno il suo potenziale e diventa un’icona non meno potente del suo maestro, e soprattutto più sfaccettata e incontrollabile, portando alle stelle l’attesa per le sue prossime mosse.

Suicide Squad – Trailer, poster e molto altro

Suicide Squad è un fumetto pubblicato da DC Comics che vede protagonista un’organizzazione segreta composta da diversi criminali, ai quali il governo chiede di compiere delle missioni estremamente rischiose, in cambio della libertà o della loro stessa vita.

I membri del gruppo di cui finora abbiamo potuto leggere il dossier sono:


Deadshot, alias Floyd Lawton, interpretato da Will Smith: un cecchino ma anche un killer psicopatico.

Joker, il folle nemico di Batman, è interpretato da Jared Leto, che ha descritto il suo ruolo come “un personaggio quasi shakespeariano”. Per prepararsi ha trascorso molto tempo da solo, ad ascoltare musica gospel degli anni venti e a leggere opere sullo sciamanesimo e ha preso ispirazione dai boss della droga messicani e dai lavori di Alejandro Jodorowsky. Will Smith sostiene di non aver mai conosciuto realmente Leto perché l’attore non è mai uscito dal personaggio durante la lavorazione del film.

Harley Quinn, storpiatura del vero nome Harleen Quinzel, è interpretata da Margot Robbie: una folle supercattiva innamorata di Joker.

Rick Flag, interpretato da Joel Kinnaman, è un militare. Tom Hardy ancora non ha digerito di aver dovuto rinunciare a questo ruolo per il prolungamento della lavorazione di Revenant.

Karen Fukuhara interpreta Tatsu Yamashiro detta Katana, un’esperta di arti marziali, abile spadaccina, guardia del corpo di Rick Flag e, proprio per proteggerlo, si offre volontaria. Con la sua spada Soultaker, è capace di intrappolare le anime dei nemici.

Capitan Boomerang, altrimenti noto come George “Digger” Harkness e interpretato da Jai Courtney, è un assassino misogino, maestro nell’uso dei boomerang.

Chato “El Diablo” Santana, interpretato da Jay Hernandez, era membro di una pericolosa gang di Los Angeles ed è capace di controllare il fuoco.

Waylon Jones, soprannominato Killer Croc e interpretato da Adewale Akinnuoye-Agbaje è un supercattivo che soffre di una rara malattia che fa sembrare la sua pelle simile a quella di un coccodrillo.

Slipknot ovvero Christopher Weiss è il ruolo di Adam Beach.

Cara Delevingne interpreta June Moon, l’Incantatrice, un’antico essere malvagio che viene risvegliato dall’esploratrice June Moon dopo un lungo periodo di prigionia. Non fa ufficialmente parte della Suicide Squad, ma attira l’attenzione di Amanda Waller.

Amanda Waller, interpretata da Viola Davis: l’agente governativo che ha creato la Suicide Squad e che ne coordina le missioni. Per prepararsi al ruolo ha letto il libro Confessioni di una sociopatica di M.E. Thomas. L’attrice descrive Amanda Waller come «una potente donna di colore, dura, pronta in ogni momento a prendere un’arma e a sparare a chiunque».

Inoltre sappiamo che Ben Affleck apparirà nei panni di Bruce Wayne/Batman

Scritto e diretto da David Ayer, Suicide Squad è la terza pellicola del DC Extended Universe.

Il primo film a essere distribuito è stato L’uomo d’acciaio (2013), seguito da Batman v Superman: Dawn of Justice (24 marzo 2016), Suicide Squad (18 agosto 2016) e da altri otto film attualmente in diverse fasi di produzione: Wonder Woman e Justice League Part One (2017), The Flash e Aquaman (2018), Shazam e Justice League Part Two (2019), Cyborg e Green Lantern Corps (2020) . La Warner Bros. ha annunciato anche un sequel de L’uomo d’acciaio e almeno un altro film su Batman per il quale è già stato confermato Ben Affleck, sotto contratto per una nuova trilogia. Entrambi i film saranno distribuiti entro il 2020. Distribuiti tutti, ovviamente, dalla Warner Bros. Pictures.

La Squadra Suicida era apparsa per la prima volta nell’undicesimo episodio “Giustizia assoluta” della nona stagione di Smallville, contemporaneamente alla prima apparizione nella serie della Justice Society of America. Successivamente è parte dell’episodio “Squadra Suicida” della seconda stagione di Arrow, dove il team è formato da Ben Turner/Bronze Tiger, Amanda Waller, John Diggle, Mark Scheffer/Shrapnel, Floyd Lawton/Deadshot e Lyla Michaels e poi anche in “Missione suicida” della terza stagione, composto ancora da Diggle, Lawton e Michaels, e l’aggiunta ulteriore di Carrie Cutter/Cupid.

Insomma, una scatola delle meraviglie di cui si è smarrito il fondo: se il pubblico saprà affezionarsi anche a questi cattivi in missione per conto del bene, c’è materiale potenzialmente infinito!

Romics 2015: Edizione di primavera

La Hulkbuster affonda i suoi passi pesanti tra la folla di Spiderman, Wolverine e Capitan America che animano la fiera, e lascia tutti senza fiato. I supereroi variopinti si fanno piccoli per arrendersi alla potenza dell’androide che si specchia nelle armature di Tony Stark sul ritmo travolgente degli AC/DC, e si aprono a cerchio per ammirare cosa accade quando arte, tecnica e fantasia si incontrano per portare le grandiose armature Marvel a un passo dai comuni mortali. Nella magia del Movie Village i protagonisti di film e serie tv si confondono tra i visitatori e basta allungare una mano per poterli sfiorare, perché l’intero spazio in occasione del Romics si trasforma una gigantesca scenografia, in cui la stanza delle armature di Iron Man, che accoglie i mastodontici Hulkbuster, Ultron e War Machine, si fonde alla perfezione con una fedele ricostruzione del trono di spade di Game of Thrones, che confina con il quartier generale dei Ghostbusters, l’appartamento di Sherlock e il Tardis dell’amatissimo Doctor Who.

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Mentre i roboanti Avengers catturano l’attenzione dei visitatori, le creature della notte infestano il padiglione dedicato ai fumetti e, per chi al foam e alle luci stroboscopiche preferisce il tratto pulito delle matite e l’oscurità delle metropoli tratteggiate in bianco e nero, c’è Rafael Albuquerque, il celebre disegnatore di Batman, che senza dubbio si trova più a proprio agio tra gli orrori della giungla urbana che nelle battaglie tra robot e alieni. Albuquerque ha presentato American Vampire, la serie horror firmata Vertigo, creata e disegnata da lui con la collaborazione di Scott Snyder su una sceneggiatura di Stephen King, e nell’incontro Master of Arts! ha svelato al pubblico i segreti dell’Uomo Pipistrello insieme all’italianissimo Emanuel Simeoni, autore di Batman Eternal.

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Oltre a Simeoni numerosi autori italiani hanno animato la manifestazione, dall’intensissimo Gipi, all’incantevole autrice Disney Silvia Ziche, che ormai è una presenza fissa della manifestazione, fino ad arrivare all’intramontabile Bruno Brindisi, che ha animato Tex, Diabolik, e più di tutti Dylan Dog, che lo ha consacrato all’olimpo bonelliano. Il suo tratto pulito ed estremamente versatile nel colore è il protagonista del percorso espositivo dedicato all’indagatore dell’incubo, che ha raccolto le opere più importanti della sua produzione, dalle prime tavole alle sue ultime copertine, portando le creature della notte nel cuore del Romics, a fianco dei personaggi fantastici nati dalla mano di Polo Barbieri, che condotto i visitatori della mostra attraverso un percorso surreale in cui inquietanti creature mitologiche hanno incontrato i personaggi delle fiabe tradizionali.

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Dal pennello al grande schermo, l’edizione primaverile del Romics ha riservato uno spazio speciale al cinema e alle serie tv più amate, mostrando in anteprima le sequenze adrenaliniche di Avengers: Age of Ultron e dell’attesissimo Star Wars: Il risveglio della forza, senza dimenticare Mad Max: Fury Road, Fury, e i nipponici Quando c’era Marnie e Il regno dei sogni e della follia, il documentario realizzato dallo Studio Ghibli, che mostra al grande pubblico la realizzazione dei suoi ultimi capolavori. Anche le serie tv sono state protagoniste della kermesse, dalla proiezione di contenuti speciali di Il Trono di Spade alla presentazione in esclusiva di due episodi inediti dell’ottava stagione di Big Bang Theory, animate dall’incontro con i doppiatori ufficiali dei personaggi più amati della serie.