Felicity Jones

Sette minuti dopo la mezzanotte, di Juan Antonio Bayona

Sette minuti dopo la mezzanotte [A monster calls nella versione originale] è un film intenso, dalla grande potenza emotiva, che coinvolge e intenerisce, mentre sullo schermo una realtà diegetica avversa al giovane protagonista si alterna con una dimensione parallela in cui si perde il confine fra sogno e realtà.

Si tratta della trasposizione del romanzo ideato da Siobhan Dowd e portato a termine da Patrick Ness, vincitore nel 2012 della Carnegie Medal per la letteratura (dall’infanzia allo young adult) e della Kate Greenaway Medal per le illustrazioni di Jim Kay, un disegnatore fortemente voluto anche da J. K. Rowling per illustrare i suoi Harry Potter.

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Un doppio nodo lega la trama del libro con la genesi del romanzo: la malattia, che non ha permesso all’autrice di concluderlo, e la ferma volontà di chi le era accanto di non scrivere la parola “fine” su un progetto che ne avrebbe perpetuato la memoria. Un legame che non è sfuggito al regista Juan Antonio Bayona che è stato da subito fortemente attratto dal romanzo, trovando nelle sue pagine argomenti che aveva già esplorato in The Orphanage e The Impossible, «personaggi che si trovano in una situazione particolarmente intensa, su cui incombe la morte». Una morte che non è intesa come fine di un percorso, ma come inizio di una nuova avventura ad un livello ulteriore, concetto che rimanda all’origine ancestrale della fiaba come rito d’iniziazione delle comunità primitive e che è una delle prerogative del film.

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«Questa storia inizia come tante altre storie con un bambino troppo grande per essere un bambino e troppo piccolo per essere un uomo… e con un incubo».
Conor O’Malley [Lewis MacDougall] ha 12 anni e l’adolescenza, si sa, è un periodo cruciale della vita. Per lui ancora più difficile, costretto com’è a crescere troppo in fretta per la separazione dei genitori e la malattia visibilmente degenerativa della mamma [Felicity Jones]. In questo contesto già avvilente si aggiunge la beffarda mano del destino che mette il ragazzo nel mirino dei bulli della scuola. Diviso fra il sopportare e il reagire, ma conscio di dover risolvere i propri problemi in qualche modo, Conor rimane suggestionato dalla visione di King Kong, la versione originale del 1933, e così immagina che il tasso secolare che domina la collina di fronte casa loro, posto proprio al centro del cimitero, prenda vita e si trasformi in un gigante dall’anima di fuoco. Sette minuti dopo la mezzanotte, proprio mentre Conor finisce di disegnarlo, il mostro entra nella sua vita per stravolgerla completamente: gli racconterà tre storie e ne pretenderà un’altra da lui, una verità che custodisce gelosamente dietro un muro di paure e rabbia repressa.

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In Sette minuti dopo la mezzanotte ritroviamo tutta la poetica di Bayona: i legami familiari indissolubili e il soprannaturale che separa e unisce, il disegno artistico, che ha la funzione di tramite fra il mondo reale e l’immaginario, sia che si tratti degli schizzi su carta di Conor sia che si tratti dei racconti del mostro, acquerelli animati, la tecnica attraverso la quale il ragazzo esprime la sua fantasia, i suoi desideri, le sue angosce, come accade nei sogni, con rimossi, proiezioni astratte di paure concrete, ricostruzioni interiori di stimoli esterni e precognizioni.

Il sogno, altro elemento poetico molto caro al cinema di Bayona, svolge l’antica funzione di guida e mediazione con il mondo esterno, strettamente legato ai miti arcaici, a situazioni riconducibili a fiabe e leggende popolari. Entrambi, sogni e miti, sono il risultato di una complessa elaborazione e deformazione delle fantasie di desiderio: più individuali nei sogni, collettive in quei “sogni” ancestrali delle comunità primitive che hanno il nome di miti. Quella forma primitiva di pensiero è stata sempre presente nell’inconscio umano ed è chiamata archetipo. Presenti indistintamente in tutte le civiltà, e culture del nostro pianeta, sono gli archetipi a costituire la base del mito e di tutti i suoi derivati. Queste sono gli elementi essenziali che compongono il simbolo che assieme ad altre forme ed altri simboli vanno a formare ciò a cui le società hanno dato il nome di mito.

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Dal mito deriva poi la fiaba, una sintesi di archetipi sociali, psicologici e onirici, nonché chiave di lettura del nostro argomento principe, Sette minuti dopo la mezzanotte. Il film, ambientato in una Manchester non troppo caratterizzata, resa anche più gotica di quello che in realtà è, presenta molte caratteristiche in comune con la struttura del mito e, soprattutto, della fiaba: nell’inverosimiglianza dei fatti e nell’indeterminazione spaziotemporale, dove il “qui e ora” diventa un modello universale di “qualsiasi luogo e tempo”, si muovono personaggi classici come un principe, una matrigna-strega, accanto a figure meno frequenti, come lo speziale e il pastore ecclesiastico, ma tutti contribuiscono a veicolare un messaggio che possa fornire a Conor gli elementi per poter reagire agli eventi che lo hanno colpito. La madre buona [Felicity Jones, la Jyn Erso di Rogue One: A Star Wars Story e candidata agli Oscar® 2018 come protagonista] non è necessariamente da contrapporre alla nonna che appare fredda e distante [Sigourney Weaver, la Ellen Ripley di Alien e candidata agli Oscar® 2018 come non protagonista]; se suo padre [Toby Kebbell; Ben Hur, Warcraft – L’inizio] si è rifatto una vita in America non necessariamente è un dramma; la fede cristiana e la fiducia nella medicina non per forza comportano un ritorno concreto secondo i propri desideri.

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«Le storie vere spesso sono fregature».

Non come un golem difensore degli oppressi (mosso anch’esso dalla verità), non come un jinn che debba esaudire i desideri del suo padrone, l’antropomorfo Tasso secolare, quale saggio maestro di vita, guida Conor in un viaggio dell’eroe all’insegna del coraggio, della fede e della verità, virtù cavalleresche che sembravano ormai appannaggio dei soli supereroi, ultimamente. In molti hanno riscontrato una certa somiglianza fra il Groot de I guardiani della galassia e il Mostro di Bayona animato in animatronic, motion capture e CGI, ma in pochi avranno notato le assonanze con i Giganti mitologici, i Titani, tra cui troviamo Prometeo che dona la conoscenza all’uomo e Cronos che governa il tempo. Dall’alto della sua figura di fantastico mentore, il Mostro – una creatura alta 12 metri al quale è Liam Neeson [Taken, Silence], con il motion capture, a dar vita e voce – mette in guardia il ragazzo («stai usando male il tempo che ti è stato concesso») e gli fornisce, attraverso le fiabe e i loro ambigui personaggi, la giusta chiave di lettura per interpretare la propria coscienza e, in una sola parola, crescere.

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«La maggior parte della gente è una via di mezzo».

Le origini della fiaba si perdono nella notte dei tempi. Teorie su teorie, quali quella mitica, indianista, antroposofica, poligenetica, ancora non hanno trovato un bandolo comune della matassa. Quello che è certo è che la tradizione orale, attraverso riduzioni e semplificazioni di antichi miti, stratificati nel tempo e rielaborati in età successive, ha operato una contaminazione di figure tratte dalla fantasia popolare in modo da poter rendere i racconti fiabeschi uno strumento educativo prezioso per tutti, in barba all’opinione pubblica che ritiene che le fiabe siano pensate ad uso e consumo esclusivamente del divertimento dei bambini.

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Sette minuti dopo la mezzanotte è un film che possiamo definire, senza incorrere in obiezioni, fiabesco, che è stato realizzato combinando l’estrema lucidità della sceneggiatura di Patrick Ness con la fervida fantasia scenografica di J. A Bayona, mantenendo una coerenza estetica con il resto della filmografia grazie ad una fidata crew di tecnici: il direttore della fotografia Óscar Faura [The Orphanage, The Impossible], lo scenografo Eugenio Caballero [Oscar® per Il labirinto del fauno], i montatori Bernat Vilaplana [Crimson Peak, Penny Dreadful e premio Goya per The Impossible e Il labirinto del fauno] e Jaume Martì [Penny Dreadful e Gaudì Award per Transsiberian], il costumista Steven Noble [La teoria del tutto, Una, Trainspotting 2], il compositore Fernando Velásquez [The Orphanage, The Impossible]. Oltre alla già citata animazione mista, il regista impreziosisce le riprese con virtuosismi tecnici che in pochi ormai utilizzano: raccordi sull’oggetto e inquadrature reverse che meravigliano come le acrobazie di un abile circense.

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Magari potrebbe sembrare prematuro parlare di nomination agli Oscar® 2018 ma questa avventura gotica in bilico fra sogno e realtà finora è l’opera migliore sotto ogni aspetto. Non a caso ha vinto 9 premi Goya su 12 ai quali era candidato!

Un aneddoto e una curiosità a margine, per concludere.
L’aneddoto: il regista ha scelto di non dare al suo giovane protagonista la pagina del copione che descriveva l’ultimissima scena di Sette minuti dopo la mezzanotte perché voleva che MacDougall avesse la reazione più naturale possibile e autentica possibile. Il risultato è stato davvero notevole.
La curiosità è, invece, per gli spettatori attenti: non rilassatevi durante l’epilogo e fate caso sulla parete alle fotografie raffiguranti il nonno di Conor.

«Chi ci dice che il sogno non sia tutto il resto?».

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Rogue One: A Star Wars Story, di Gareth Edwards

Se mai un giorno la nostra civiltà sparisse e qualcuno dovesse studiarne la cultura, come noi abbiamo analizzato le antiche vicende di eroi della Grecia antica, l’archeologo incaricato non potrà esimersi dalla visione dell’intera saga di Star Wars, ma soprattutto, non potrà non notare le analogie che Rogue One: A Star Wars Story scatena con alcuni tra i brani più famosi dell’epos omerico e virgiliano, nonché con la più moderna epica cavalleresca.

Senza scendere troppo nel dettaglio per non togliere sorprese a quanti ancora non hanno goduto della visione di questo colossal, grandiosamente scritto a tal punto da suscitare l’approvazione fino alla commozione anche dello spettatore più scettico o meno ferrato.

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«Tanto tempo fa in una galassia lontana lontana….»

Così, ovviamente, inizia anche Rogue One ed è subito chiaro che Edwards, pur mantenendo vivo il suo bambino interiore che ha plasmato quell’universo ormai consolidato in modo da adattarlo al suo mondo interiore, sfrondandolo dagli eccessi, dalla retorica fine a se stessa e dall’autocelebrazione a tutti i costi e generando tutta una serie di personaggi nuovi che vivono eventi, di cui, in realtà, si conosce già l’esito, ma che tengono con il fiato sospeso, sempre e comunque. Il merito va ad una sceneggiatura solida che unisce alla fervida e briosa immaginazione di Chris Weitz [Cenerentola, ma anche About a boy] e all’alto tasso di adrenalina di Tony Gilroy [a lui si deve l’adattamento della saga di Jason Bourne], sul soggetto originale del visionario Gary Whitta [Codice Genesi, After Earth e The Walking Dead: The Game – Season 1], che ha supportato John Knoll, alla sua prima prova da scrittore, ma che è, in realtà, una pietra miliare della saga, avendo saltato, da supervisore degli effetti speciali, solo Episodio V – L’impero colpisce ancora.

Una sceneggiatura che, tra le tante gesta degne di nota, narra un episodio di amicizia virile sincera e leale fino al comune tragico destino, un episodio simile a quello di Eurialo e Niso, reso esemplare da Virgilio nell’Eneide, ma anche imprese eroiche di uomini e donne con sommi ideali di giustizia e libertà gridati a gran voce e sbandierati fino al sacrificio estremo, come si tramanda nelle leggende popolari di tutto il mondo; e quando una figura si staglia sul campo di battaglia e attende inamovibile l’inesorabile destino, viene in mente la fierezza del gigantesco Aiace di Omero. Il legame con la leggenda diventa esplicito, poi, se il titolo usato per consegnare segretamente Rogue One nelle sale americane è stato The Alamo.

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Anche i nomi della tradizione lucasiana continuano a rimandare a duelli ancestrali tra il Bene e il Male, Yin contro Yang, che assumono le fattezze originarie di Mon Mothma, figura positiva legata anche etimologicamente al concetto ancestrale di dea “madre”, e Darth Vader, che rimanda alla radice indoeuropea da cui si è formata la parola “padre” e che possiede caratteristiche simili a quelle dell’Oscuro Signore di tolkeniana memoria, nonché al primordiale dio cornuto, la bestia che porterà all’armageddon attraverso un’arma di distruzione di massa, la Morte Nera, che si presenta all’apparenza ingannevole, simile ad una rassicurante luna che, attraverso la luce da sempre benevola, per tutte le culture, qui è latrice di devastazione e annichilimento di ogni forma di vita.

«Tu confondi la pace con il terrore»

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Il regista Gareth Edwards – già apprezzato dalla critica per l’affascinante Monsters, uno sci-fi found-footage catastrofico a low-budget, ed il riuscitissimo reboot di Godzilla – si conferma un fanatico vero della saga ideata da George Lucas ed opera con una cura maniacale del dettaglio, andando a sopperire a mancanze sostanziali come personaggi assenti durante le riprese, per diversi motivi, ricostruiti in CGI e dei quali non basta la notevole attenzione da “addetti ai lavori” per riscontrarne la mancanza di genuinità; oppure andando a riprendere e ricostruire stretto tra le aspettative di un pubblico storicamente molto esigente e integralista fino al midollo e la differenza di mezzi tecnici ed espressivi, che intercorrono tra Episodio III – La vendetta dei Sith (2005) ed Episodio IV – Una nuova speranza (1977), tra i quali va di fatto ad inserirsi secondo la logica temporale. Sì, perché le vicende narrate in Rogue One s’inseriscono appena prima dell’Episodio IV, anzi il plot narrativo da cui è partita la stesura del soggetto è proprio un estratto dal famosissimo opening crawl da cui tutto questo intramontabile fantasy ambientato nello spazio è partito, e cinque anni dopo la serie televisiva animata Star Wars Rebels (2014), prodotta da Lucasfilm e Lucasfilm Animation, a sua volta ambientata quattordici anni dopo l’Episodio III – La vendetta dei Sith.

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Nel corso della serie animata l’Impero Galattico allarga il proprio dominio sulla galassia, dando contemporaneamente la caccia agli ultimi cavalieri jedi rimasti, mentre una nascente ribellione contro l’Impero sta prendendo forma. Lo stile visivo di Star Wars Rebels è fortemente ispirato al concept art della trilogia originale di Guerre stellari (così lo chiamavano tutti allora) ad opera del premio Oscar® Ralph McQuarrie [E.T. e Cocoon] e non poteva che essere altrimenti per Rogue One. Troppo riduttivo chiamarlo spin-off.

«Le stelle più forti hanno un cuore di kyber»

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SINOSSI:

Lo scienziato Galen Erso [Mads Mikkelsen, Valhalla rising, Doctor Strange], dopo aver lavorato per anni per l’Impero Galattico, si è ritirato sul pianeta Lah’mu per vivere in serenità con la sua famiglia. Raggiunto dal Direttore Imperiale Krennic [Ben Mendelsohn], Erso viene catturato e costretto a completare la progettazione della Morte Nera, una stazione spaziale capace di distruggere con facilità un intero pianeta in pochi minuti. La figlia Jyn riesce a fuggire e a mettersi in salvo.

Quindici anni dopo, Jyn Erso [Felicity Jones, La teoria del tutto] è in una prigione imperiale e l’ufficiale ribelle Cassian Andor [Diego Luna, Il libro della vita], accompagnato dal fedele droide K-2SO [Alan Tudyk], ha ricevuto ordine dai ribelli di liberarla per rintracciare Galen ed impedirgli di completare l’arma. Nel frattempo lo scienziato ha inviato un messaggio di fondamentale importanza per le sorti della guerra che verrà e, in gran segreto, ha operato al fine di sabotare la Morte Nera. Sottrarne i piani di progettazione è l’unica soluzione, ma chi sarà tanto pazzo?

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«Non sono ottimista sulle probabilità»

Storia di società matriarcali contro società patriarcali, scontro generazionale per antonomasia, le Guerre stellari di Lucas continuano a separare Yin e Yang e i padri dai figli per ricongiungerli amaramente in abbracci negati. Ma vi è una storia parallela, di amicizia tra uomo e donna, forse un amore in forma embrionale, fatto sta che questa amicizia è suggellata da un abbraccio che rimarrà stampato indelebile nei ricordi dello spettatore proprio per il supremo valore che questo semplice gesto d’affetto può rappresentare. Abbracciandoci entriamo in contatto con la porzione vitale del corpo, adoperando un linguaggio che, senza parole, sa comunicare una gamma di sentimenti ed emozioni superiori a quelle di un bacio, anche il più sentito. Recenti studi scientifici sostengono che abbracciarsi crei addirittura una sincronizzazione cerebrale, anche tra estranei, un’armonizzazione che genera energie positive, paragonabile all’essenza stessa della Forza, in fondo. Ebbene, in quel gesto puro i cuori di due dei personaggi di Rogue One sembrano toccarsi, il loro respiro si sincronizza, il calore umano diviene quasi tangibile anche per il pubblico in sala. Tutto Star Wars è racchiuso in quei pochi secondi in cui niente si è detto ma tutto risulta chiaro, in cui non importa se si deve in fretta prepararsi a morire, perché non ci sono rimpianti ad immolarsi per il bene della propria patria e dei propri compagni d’avventura e, soprattutto, la morte non fa paura se la si può affrontare stretti nell’abbraccio di un vero amico.

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È qualcosa che fa dimenticare anche che non c’è che una spada laser in tutto il film, e nemmeno un cavaliere jedi, anche se è magnifica la scelta di far vedere come la Forza operi nel cuore di chi ha una salda volontà di fare del bene, un esempio per tutti il cieco Chirrut Îmwe [Donnie Yen, Ip Man] che, emulando Zatoichi, rievoca uno dei riferimenti principali di Lucas: l’affascinante cultura legata alla casta guerriera dei samurai. Il successo di Rogue One è tutto nella scrittura e nel suo fornire importanza estrema ai gregari e al sentimento di speranza che pervade l’intera opera e si riannoda a quel 1977 quando qualcosa stava per accadere in una galassia lontana lontana.

«Le ribellioni si fondano sulla speranza»

Quell’abbraccio rappresenta la speranza che ci sarà sempre un sentimento positivo tanto potente da saper contrastare ogni possibile perversità del lato oscuro della Forza. Inoltre, è l’abbraccio ideale dello spettatore e del fan-regista ai personaggi che tanto hanno generato partecipazione a livello empatico, come non capitava da tempo.

«Resto in disparte anche se c’è un problema all’orizzonte: non c’è orizzonte!»

Altro elemento immancabile e, in Rogue One, davvero ben orchestrato è il lato comico, affidato, come consuetudine, soprattutto al droide K2-SO, doppiato da Alan Tudyk, caratterista e doppiatore di successo [Io, robot, Big Hero 6, Frozen]. Un robot ben poco rassicurante per la sua matematica inclinazione al pensiero negativo come il Marvin di Guida galattica per autostoppisti ma che richiama l’automa di Laputa – Castello nel cielo di Hayao Miyazaki nella fisionomia e in una straordinaria dimostrazione d’affetto per l’«imprevedibile» Jyn.

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«Tra noi c’è chi ha deciso di cambiare le cose»

Terzo lungometraggio del franchise, il primo dopo Episodio III, ad essere girato direttamente in digitale con camere Arri Alexa 65, equipaggiate con lenti Ultra Panavision 70, Rogue One si distingue dagli altri film della serie anche per la colonna sonora, affidata per la prima volta non a John Williams, ma ad un altro premio Oscar®, Michael Giacchino [Up, Zootropolis, Doctor Strange, Inside out], che crea una nuova partitura che commenta senza predominare e rubare la scena senza però dimenticarsi di citare i brani tradizionali con delle reprise ad hoc.

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E ora? Aspetteremo con ansia l’uscita di Rogue One in DVD e BluRay e poi sarà la volta di Episodio VIII e Episodio IX, che sono stati annunciati per il 2017 e 2019 e saranno diretti rispettivamente da Rian Johnson molto apprezzato dalla critica per i suoi precedenti Brick – Dose mortale, The brothers Bloom e Looper, e Colin Trevorrow, conosciuto per aver diretto film di grande successo come Safety not guaranteed e il kolossal Jurassic World.

Inoltre, come già accaduto per DC, Marvel e lo Universal Monsters Universe, è stata annunciata la produzione di una serie di spin-off, chiamati Star Wars Anthology, programmati in modo da avere dal 2015 al 2020 un film della saga ogni anno. Quello del 2018 dovrebbe avere come protagonista Han Solo, quello del 2020 ancora è segreto. Il primo dei tre spin-off, diretto da Gareth Edwards è un capolavoro. Ora, con il beneplacito della Forza provate a fare di meglio!

«Non sono ottimista sulle probabilità»

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La teoria del tutto, di James Marsh

Non sarebbe straordinario se esistesse una formula, un’unica ed elegante espressione matematica, in grado di racchiudere i misteri dell’universo in una breve sequenza numerica, tornando indietro nello spazio e nel tempo per raccontare l’origine e la fine dei pianeti? Stephen Hawking, uno dei cosmologi più famosi al mondo, dopo cinquant’anni di studio matto e disperatissimo sta ancora cercando la risposta a questo quesito. Dai suoi primi passi da studente nella prestigiosa Università di Cambridge, Hawking non ha mai smesso di indagare le stelle, formulando e confutando le sue stesse tesi sull’origine del mondo, e non si è arrestato neanche davanti a un grave disturbo degenerativo ai motoneuroni, che nel corso del tempo gli ha impedito prima di camminare e poi di parlare. “Potrai continuare a pensare, ma ben presto nessuno potrà più ascoltare i tuoi pensieri”, era stata la severa diagnosi dei medici quando il giovane studente aveva iniziato a manifestare i primi sintomi della malattia. Ma il cervello umano corre più veloce del corpo, si nutre della linfa delle idee, e Hawking era troppo affamato di conoscenza per abbandonarsi a un destino di immobilità. Al contrario il suo desiderio era divorare tutto il tempo che gli rimaneva e vivere a pieno la vita scientifica come quella amorosa, e Jane, la bella studentessa di poesia iberica incontrata al ballo di fine anno, è piombata nella sua vita nel momento esatto in cui il giovane scienziato aveva più bisogno di sentirsi amato, alla vigilia della sua malattia.

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Jane rimane affascinata da questo ragazzo timido e impacciato sin dal primo incontro. La sua fede profonda in Dio si scontra con il pragmatismo scientifico di lui, ma le sue teorie sull’universo la fanno viaggiare magicamente nel tempo, proprio come la poesia medievale che tanto ama, e la ipnotizzano al punto da farle dimenticare i limiti fisici e tutte le difficoltà potrebbero derivare dalla loro unione. Stephen venera il l’ordine del cosmo e il disegno imperscrutabile che ha scisso i pianeti per renderli ciò che sono oggi, ma non sa dare un nome al suo Dio se non con un’equazione. Dopo un fidanzamento lampo, queste due anime profondamente influenzate dalla scienza e dalla fede si uniscono in matrimonio e diventano genitori di tre meravigliosi bambini. La loro quotidianità è fatta di tenerezza e di piccoli contrasti, come quella di tutte le coppie della loro età, ma Stephen non è come gli altri, è un uomo eccezionale, un’intelligenza creativa che sfida le leggi della fisica e del tempo per rimanere in vita ogni oltre speranza, e Jane è costretta a mettere da parte se stessa e i suoi studi per seguire Stephen e aiutarlo a realizzare i suoi ambiziosi obiettivi.

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Oggi, ad anni di distanza dalla fine del matrimonio con Stephen Hawking, Jane ha raccolto le sue preziose memorie nel romanzo “Verso l’infinito”, raccontando dal suo punto di vista gli anni trascorsi al fianco di Stephen, nel bene e nel male. Dall’incontro con questo ragazzo così eccentrico e bizzarro che le ha rapito il cuore, agli anni tormentati della malattia, che limitano Stephen sempre di più nel corpo mentre la sua mente continua ad espandersi e a proporgli nuove sfide. James Marsh ha raccolto la preziosa testimonianza di Jane e l’ha trasformata in un film che descrive il genio della fisica attraverso lo suo sguardo di una ragazza innamorata e di una moglie affettuosa, che lotta ogni giorno per sostenere Stephen nella ricerca e per regalargli una vita più normale possibile. Come Hawking, anche Marsh cerca l’equazione perfetta tra le emozioni più intime e l’esattezza scientifica dei fatti per raccontare la storia di questo straordinario scienziato senza abbandonarsi a un sentimentalismo languido, e senza distogliere mai lo sguardo dalla lente dell’oggettività. Stephen Hawking, se pur nella sua fallibilità umana, ha compiuto qualcosa di straordinario e Marsh nella sua storia ha trovato l’ispirazione per elaborare la sua formula segreta per dilatare il tempo all’infinito e far esplodere le stelle, riconoscendo nell’amore la forza motrice di tutto l’universo.