John David Washington

Tenet, di Christopher Nolan

Il TEMPO è un concetto astratto generato in epoca ancestrale e, da sempre, oggetto di studi filosofici, prima che scientifici. La maggior parte della nostra esperienza temporale si basa sull’osservazione dei fenomeni intorno a noi, siano essi immediati (la vita quotidiana, il succedersi di giorno e notte, l’alternarsi delle stagioni), macroscopici, come l’universo, o microscopici, come la materia, intesa come sostanza di cui tutto è fatto. Ma la percezione di questi fenomeni viene registrata in maniera diversa sia da soggetto a soggetto sia dalle diverse figure di ricercatori: per un filosofo, ma anche per molti altri, il concetto di tempo è legato ai cambiamenti che un determinato oggetto di osservazione subisce anche stando fermo e presuppone altri concetti astratti come un “prima” e un “dopo”, mentre per un fisico questi concetti sono inammissibili scientificamente come concreti perché un oggetto “è”, “esiste” a prescindere e anche quando avviene una trasformazione il tempo verbale che si usa è al massimo un passato prossimo come “è diventato”.

In questo anarchico contesto ha avuto terreno fertile il terzo “ricercatore”, quello religioso che, senza addentrarci in intricate e pericolose disquisizioni, ha sfruttato da sempre la paura innata della morte e dell’ignoto per fornire al tempo un’importanza morale più o meno strumentalizzata nei secoli con lo scopo, neanche troppo celato, di guidare l’ignorante ad operare per il bene della specie e della sua evoluzione.

Tenet

Prendiamo una cosmogonia fra le più celebri: i greci hanno considerato Kronos come padre di Zeus e degli altri dei dell’Olimpo, ma figlio a sua volta di Urano e Gea, interpretabili come Universo e Terra. Quindi il tempo nasce dall’interazione della terra con il firmamento, quindi è associabile ai moti di rotazione e rivoluzione. Inoltre, sembra che il tempo governi un po’ tutti gli elementi se non si considera una figura mitica ben più importante e al di sopra di tutto per la mitologia greca: il Fato, inteso come la necessaria ed ineluttabile storia già scritta, a volte visto come “destino” dal punto di vista degli esseri viventi. E di questi tempi, in cui siamo costretti a vivere in spazi limitati, cercando di ottimizzare un tempo ristretto o dilatandolo in maniera abnorme rispetto alla frenetica quotidianità a cui eravamo abituati, ci rendiamo molto più conto di quanto sia il Fato a scrivere la storia del mondo, ma non in maniera ineluttabile, questo vuole affermare in maniera energica Tenet.

«La più antica e potente emozione umana è la paura,
e la paura più antica e potente è la paura dell’ignoto»

Howard Phillips Lovecraft

Il nuovo film di Christopher Nolan sembra far tesoro della massima homo faber fortunae suae e dimostrare che ognuno può svolgere un ruolo comunque fondamentale in un progetto che va magari al di là della sua comprensione e svolgere la funzione di eroe, quantomeno della propria storia, e scriverne un finale anche più che soddisfacente. Nolan, con il suo film pronto già in periodo di lockdown forzato, non s’inchina al tempo avverso e abbraccia il fato che, meschino, gli aveva inserito uno scoglio quasi insormontabile sul cammino e diventa l’eroe di cui il cinema aveva bisogno proprio in quel momento, non quello che merita, dato quanto ha dovuto tribolare per poter uscire in sala, come emblema di speranza per un sistema che naviga a vista sull’orlo del baratro.

Tenet

Oggi, portare a termine un progetto cinematografico così complesso e stratificato, dall’intreccio così intricato – non la trama che è, di per sé, abbastanza semplice e “lineare” – è da considerarsi impresa davvero leggendaria.

Il fatto è che un bel film come Tenet, per quanto sorprendentemente raffinato e storicamente importante, da solo non può salvare tutto un mondo ancorato a logiche commerciali anacronistiche, ormai da rivedere e innovare quasi totalmente. Scusate il piccolo excursus.

Ma intanto Tenet può essere considerato il film più significativo di questo funesto 2020 per il momento storico della sua uscita, per la speranza che rappresenta e per le ore di intrattenimento altamente intelligente che ha fornito a chi aveva alle spalle mesi di frustranti bollettini medici e palinsesti che iniziavano a raschiare il fondo del barile dei b-movie.

L’intreccio di Tenet assorbe gran parte delle energie, dicevamo, per la sua complessità, ma ciò nonostante è impossibile non rendersi conto che la sceneggiatura costruisce personaggi degni di nota, memorabili, che potrebbero benissimo godere di nuova vita in seguiti, prequel o spin-off.

Tenet

Addirittura le battute non sono mai dei semplici riempitivi, utili solo a giocare con l’attenzione della sala. Ogni linea di dialogo è densa di significato e ottiene d’incollare allo schermo anche le orecchie, oltre che gli occhi e i neuroni.

A tal proposito è significativo l’uso dei volumi: gli effetti sonori di Tenet e le musiche composte per l’occasione da Ludwig Göransson [Creed, Creed II, Black Panther] disturbano o addirittura sovrastano le conversazioni, fornendo un ulteriore motivo di attenzione oltre che rendere maggiormente reale la messa in scena. Per non parlare della chicca veramente sbalorditiva di eseguire le partiture al contrario quando il Protagonista – proprio questo è il nome con cui viene identificato il protagonista! – è in viaggio nel tempo in modalità reverse. Un vero tocco di genio, ciliegina su una torta deliziosa.

Tornando all’esperienza vissuta dallo spettatore e alla sua attenzione “ferrea” calamitata dal film, si nota che persino l’immancabile spiegone nolaniano sembra una lezione oltremodo interessante su di un argomento per cui il regista pare sfidare chiunque a far di meglio: la base della trama è immersa dalla testa ai piedi, senza talloni d’Achille, nelle teorie più dibattute di fisica quantistica, una materia pressoché intrattabile dai mass media fino a pochissimo tempo fa. Discorsi intricatissimi ad appannaggio di un’élite veramente ristretta di menti supreme.

Tenet

Tenet è un’enigmatica variazione sul tema del controllo del tempo, giocata un po’ in stile James Bond, con tanto di femme fatale [Elizabeth Debicki: Everest, Macbeth, Guardiani della galassia Vol. 2] e un po’ in stile heist movie, sofisticata come Inception, ma dotata di una concretezza molto più solida. A conferire questa credibilità alla trama non è tanto la spiegazione pseudoscientifica, che mescola fisica quantistica, algoritmi fisici e paradossi temporali, quanto più la messa in scena realistica, senza fulmini, dissolvenze e portali luminosi. A questa asciuttezza scenica va abbinato il continuo ricorso al gergo militare, che contribuisce non poco fornendo consistenza ai discorsi e tangibilità a quanto avviene di straordinario nel film: ricordate l’insegnamento di The prestige?

«[…] Il secondo atto è chiamato “la svolta”.
L’illusionista prende quel qualcosa di ordinario e lo trasforma in qualcosa di straordinario. Ora voi state cercando il segreto… ma non lo troverete, perché in realtà non state davvero guardando. Voi non volete saperlo. Voi volete essere ingannati. Ma ancora non applaudite. Perché far sparire qualcosa non è sufficiente; bisogna anche farla riapparire.
Ecco perché ogni numero di magia ha un terzo atto, la parte più ardua, la parte che chiamiamo il prestigio

The prestige

Della colonna sonora si è già parlato. Anch’essa concorre abilmente a puntare un grosso riflettore sull’ordinario per distrarre e poi sorprendere, ma per mandare davvero tutti fuori rotta fin dall’inizio, il regista sceglie il metodo hitchcockiano del macguffin, che ha rappresentato, in pratica, lo scheletro stesso su cui è stata orchestrata la trama, solo fintantoché il film non è approdato in sala: quello che viene definito il quadrato magico del Sator. Si tratta di un’iscrizione latina ritrovata nel 1925 a Pompei, per poi “scoprirla” da sempre presente su vari monumenti nel mondo. L’appellativo “magico” deriva dalla disposizione delle parole a formare un quadrato di 5×5 in modo che le scritte si leggano in più direzioni. È un palindromo molto complesso che ha scatenato non poche interpretazioni, finanche quella religiosa, che anagramma le lettere fino a costruire una croce con le parole “paternoster” più un paio di alpha e di omega a decorazione sui lati. Un codice studiato durante le persecuzioni dei paleocristiani? Tutto è possibile. Anche che Nolan lo abbia sfruttato come specchietto per le allodole in modo da depistare le spie cinematografiche che, così, hanno avuto un bel macguffin su cui fondare le loro illazioni sul film, senza rovinare la sorpresa.

Tenet

Nolan riesce addirittura nell’impresa di tenere all’oscuro tutti della trama. Persino il suo fedele Michael Caine [Interstellar, Youth] ha dichiarato di aver recitato conoscendo solo lo stretto indispensabile per portare a termine le sue scene. Non sembra nemmeno un’esagerazione se si devono fare i conti con giornali fondati su scoop e leaks che hanno a cuore il loro tornaconto, non certo i vantaggi di una visione priva di spoiler.

Tornando allo sfruttamento del quadrato come macguffin nel film di Nolan, Sator [Kenneth Branagh: Assassinio sull’Orient Express, Dunkirk] è l’antagonista del Protagonista – è questo il nome del personaggio interpretato da John David Washington [Blackkklansman]. Rotas è la ditta che Sator adopera per i suoi nefasti scopi (non aggiungerò altro per ovvi motivi).

«Non ho idea di quali armi serviranno per combattere la terza guerra mondiale, ma la quarta sarà combattuta con pietre e bastoni»

Albert Einstein

A questo punto permettetemi di aggiungere la mia personale interpretazione: i termini SATOR e ROTAS sono ai margini del quadrato, o meglio al confine, che in latino si direbbe FINIS, parola sempre di 5 lettere guarda caso! Con questa parola si possono coprire le tre funzioni narrative del binomio SATOR-ROTAS perché FINIS è “limite” o confine, rappresentato dalla lotta contro il tempo, ma vale anche per “scopo, obiettivo”, che rimanda alla missione dell’organizzazione denominata TENET che vuole scongiurare la fine (sempre FINIS) del mondo, obiettivo dei nemici. Per concludere – e metterci una croce su 😊 – TENET è al centro del quadrato magico formando proprio una croce (in hoc signo vinces??), è il cuore che opera dall’interno infiltrandosi nelle maglie del piano nemico. E nessun nome è casuale, a questo punto Neil [un convincente Robert Pattinson: The Batman, Le strade del male] ha la stessa pronuncia di nihil che è “niente” e, infatti, non se ne sa niente, ma a volte basta un niente, no 😉? Kat invece equivarrebbe all’inglese “cut”, il taglio che serviva per risolvere l’arcano, per dirla in maniera criptica.

«Posso darti solo una parola: Tenet. Può aprire molte porte, ma alcune di queste saranno sbagliate»

Nel tempo – sarebbe proprio il caso di dire – ma è meglio dire… Nella storia del cinema e della letteratura di genere abbiamo vissuto fantastiche avventure su locomotive e DeLorean volanti, siamo stati coinvolti in cacce all’uomo avanti e indietro nel tempo, ci siamo abituati a dubitare dei flashback e a riordinare intrecci annodati stretti dalle solite menti intricate. Sappiamo poi che non bisogna cambiare il passato se non si vogliono avere ripercussioni di varia natura sul futuro, o bisogna farlo, se il cambiamento si profila necessario, magari per la salvezza dell’intera umanità. Ma quello che accomuna tutte queste esperienze straordinarie è la ferma consapevolezza che l’uomo non potrà mai dominare appieno il tempo. Il tempo governa l’universo. Così, Nolan, mitico eroe dei nostri giorni, dopo aver domato proprio l’universo con Interstellar e aver saggiato la forza del tempo, si è posto un nuovo obiettivo di altissimo profilo: dominare quella che è per noi simultaneamente la bestia più indomabile e il nostro bene più prezioso, ossia il tempo.

Tenet

Tenet, con il coraggio e l’innovazione, inverte l’entropia di un’industria cinematografica sempre più votata – o dovrei scrivere “vuotata” – al vuoto cosmico, permeata com’è di trame spegnicervello e di prodotti sempre più minimali dal punto di vista tecnico-artistico, per privilegiare un percorso di fruizione più immediato e veloce che privilegia la serie TV e il film pensato esclusivamente per il mercato homevideo. Non ci sono note di biasimo in queste affermazioni, solo la constatazione del cambiamento di un mondo dell’intrattenimento che si è adattato al pubblico di riferimento, stressato e quindi desideroso di sentirsi appagato nel vedere qualcosa che non sia troppo impegnativo e che ben si adatti alla resistenza media all’abbiocco sul divano dopo cena. Per tutti gli altri esistono quelle serie che hanno fatto da apripista a Tenet, permettendone la comprensione e il conseguente apprezzamento. Uno su tutti? Dark! Lo spettatore-target del film di Nolan è presumibilmente lo stesso della serie tedesca e, per dirla con un sillogismo aristotelico: se Dark è la miglior serie TV mai realizzata e Tenet tratta argomenti simili ad essa, il pubblico non può non apprezzare il film. Quello che però va premesso è che il pubblico-target va inteso come insieme di persone che hanno ben radicato in loro il desiderio di cimentarsi nella soluzione di un enigma cinematografico. Che poi potremmo benissimo definirlo il pubblico tipico di Nolan, anzi, dei Nolan, vista la predilezione dei due fratelli per le trame ad incastro e cervellotiche che procedono su più linee narrativo-temporali. È come una missione che si sono tacitamente assegnati: quali novelli Prometeo si adoperano in ogni frangente per intrattenere sì ma anche per istruire la massa e dare una spinta all’evoluzione della specie “spettatore”.

Tenet

Rispetto a Inception, Tenet perde un po’ in spettacolarità, è chiaro, ma guadagna un sacco in fascinazione: l’essenziale, insegna Il piccolo principe, è invisibile agli occhi e l’amore che Nolan dissemina nel film è un amore titanico per l’enigma. I suoi film sono sfingi da decifrare, oracoli da interpretare, codici da decriptare. Con buona pace di chi non ce la fa e che sceglie di comportarsi poi come la volpe con l’uva se non li capisce, i film di Nolan sono ad un livello superiore d’intrattenimento. Non sono adatti per chi è assuefatto alla società dei consumi, del “cotto e mangiato”, del visto e subito dimenticato. Si tratta di opere stratificate dove ogni successiva fruizione porta sempre lo spettatore ad una riflessione a posteriori e ad una consapevolezza in più rispetto a prima. Un’evoluzione. E questa spinta evolutiva è stata ben ponderata da altri che, inconsapevolmente – mi riferisco sempre a Dark, ma anche a Black Mirror – hanno educato il pubblico a non dare per scontato nulla e a seguire invece con attenzione qualsiasi elemento, pure l’oggetto apparentemente più insignificante, per non perdere nessun nesso logico.

Tenet ha, quindi, come target uno spettatore istruito, non tanto sulla fisica quantistica, quanto più sulla scienza da film, quella che già sa piegare il tempo ai suoi voleri, che sa viaggiare oltre la fantasia in uno spazio plausibile, che sa entrare e (forse) uscire dai meandri della psiche umana senza perdere coerenza. Inception, Interstellar e ora Tenet godono di questa maturità nel narrare e narrare cose che voi umani – un tempo si sarebbe detto – non potete neanche immaginare.

«L’ignoranza è la nostra arma»

Tenet

BlacKkKlansman, di Spike Lee

Vincitore del Grand Priz della Giuria a Cannes 2018, BlacKkKlansman di Spike Lee rappresenta una nuova maturazione della poetica del regista di Atlanta. Dopo le prove non certo idilliache degli ultimi anni – è sufficiente ricordare Red hook summer o Il sangue di Cristo, senza arrivare al povero remake di Old boy, mai perdonato dai veri fan del Maestro – con BlacKkKlansman, si ritorna alle tematiche sociali raccontate attraverso storie solo all’apparenza banali e ad un’estetica non più esasperata fino all’insopportabile eccesso, ma funzionale alla trama e, soprattutto, al messaggio che si vuole veicolare attraverso il film. Un messaggio che ha l’effetto di uno schiaffo ben assestato in un turbinio di risate: zittisce ogni superficiale commento populista e fa riflettere anche dopo i titoli di coda. Purché si abbia un cervello, logicamente.

La storia di un poliziotto che deve sgominare i complotti di un’organizzazione criminale è un plot come tanti, tantissimi film, forse migliaia.

Ma aggiungiamo che il poliziotto in questione sia afroamericano e che il Male da sconfiggere sia il famigerato Ku Klux Klan (KKK): ecco che il materiale che può far gola allo Spike Lee di capolavori come Fa’ la cosa giusta e Clockers inizia a prendere forma e a risvegliare quella coscienza forse sopita a causa di un’ispirazione non pervenuta.

Poniamo, poi, il caso che questo detective senta in sé una missione, frutto di un mix di inconscia ambizione e di assurda incoscienza:

Per combattere in prima linea la discriminazione razziale, Ron Stallworth [John David Washington] non è solo determinato ad essere il primo afroamericano ad entrare nel corpo di polizia di Colorado Springs. Vuole realizzare un’impresa mai neanche tentata prima di quel fatidico 1979: ottenere la possibilità di infiltrarsi tra le fila del KKK per smascherare le loro macchinazioni sotto traccia e la copertura politica di cui hanno sempre tacitamente goduto. Per uno come lui, dalla parlantina spigliata e dalla battuta pronta, basta una telefonata, ma una volta ottenuta telefonicamente la fiducia come può presentarsi di persona? Occorreva inventarsi qualcosa di valido ed il colpo di genio, in realtà vecchio come una commedia di Plauto o Terenzio, è la sostituzione, il classico scambio di persona. Così ad entrare in scena al posto suo sarà il collega Flip Zimmerman [Adam Driver], ebreo non praticante, innescando un crescendo di tensione man mano che si disinnescano gli equivoci e si scoprono i piani del nemico.

«Mi sento continuamente come fossi due persone».

Nel frattempo, su un fronte che più parallelo e in contrasto non si può, Ron è impegnato ad indagare sui piani di “rivoluzione” del comitato studentesco del Colorado College, dove una bella quanto forte presidentessa, Patrice Dumas [Laura Harrier], promuove attivamente il Black Power e i comizi di Stokely Carmichael [Corey Hawkins], il leader carismatico del gruppo. Un’organizzazione “alla luce del sole” per la rivendicazione dei diritti della popolazione afroamericana contrapposta ai fautori del White Power, della supremazia bianca, del nazionalismo bianco o come lo si voglia chiamare per dire “razzisti anacronistici e ignoranti”, con il loro cosiddetto “impero invisibile”, capeggiato da un David Duke che, nell’interpretazione di Topher Grace, risulta non meno misero, goffo e insignificante dell’originale dietro quella sua maschera da semplice e pacifico cittadino americano. Il David Duke di BlacKkKlansman è un personaggio che si fa portavoce di tutta quella retorica della politica di Donald Trump, criticata anche nelle immagini di repertorio presenti nell’inserto che conclude il film.

«L’America non eleggerebbe mai uno come David Duke».

Se a questo punto vi svelassero che il film è tratto da una storia vera, che la sceneggiatura è stata costruita a partire dal libro del detective Ron Stallworth, pubblicato nel 2014 proprio con il titolo Black Klansman? Da non credere? No. Ormai, dopo tante esperienze di biopic, mockumentary e meta cinema ci siamo desensibilizzati al punto da non lasciarci impressionare più di tanto. Ma questo, in fondo, più che alla trama giova al messaggio, veicolato ovviamente dall’intero film ma reso esplicito soprattutto da un inserto cinematografico, inteso come insieme d’immagini estraneo allo spazio e al tempo diegetico.

«This joint is based upon some fo’ real, fo’ real shit».

Questa trama, già di per sé estremamente pregna di significanti più o meno evidenti e spunti di riflessioni da trascorrerci ore, è infatti racchiusa in due inserti collegabili “solo” ideologicamente ad essa ed al messaggio insito in essa. Nell’incipit Spike Lee propone un cameo molto particolare: Alec Baldwin [The cooler, Zona d’ombra, Getaway], che ha già abbondantemente ridicolizzato Trump con la sua imitazione da antologia al Saturday Night Live, interpreta un senatore razzista ripreso in stile mockumentary nell’atto di registrare un discorso di propaganda elettorale: mentre esalta i presunti «valori dei bianchi protestanti» e demonizza parità, integrazione e matrimoni misti, viene proiettata sulla sua figura qualche scena del film Nascita di una nazione, di David Wark Griffith, una delle opere più importante della storia del cinema mondiale per aver introdotto e diffuso le regole del montaggio analitico con i suoi raccordi sull’asse, sullo sguardo, sugli oggetti e sui movimenti creando quello che poi è diventato un vero e proprio linguaggio tecnico. Il caso, o più probabilmente, un’assurda macchinazione alle spalle del regista, ha voluto che proprio quando le scene si facevano più dense sul piano tecnico-formale, la trama – si tratta, infatti, del primo film narrativo della storia – deviasse verso un risvolto nichilista, sottolineato dal primo montaggio alternato in parallelo, ponendo i membri incappucciati del KKK nella parte dei cavalieri salvatori della patria in contrapposizione ai neri visti come delle bestie senza regole e senza cultura. Sin dalle prime proiezioni il film ispirò proteste, disordini, persino omicidi. Si dice addirittura che da allora il KKK sia rinato a nuova vita. Profondamente turbato Griffith girerà subito Intolerance che condannava ogni forma di violenza e intolleranza, ma ormai il potere del medium di massa aveva avuto i suoi effetti devastanti.  In BlacKkKlansman, Spike Lee prende coraggiosamente posizione nei confronti di chi continua a strumentalizzare i media e diffonde un nuovo messaggio In questo senso potrebbe essere considerato il capolavoro assoluto del regista, il film della maturità acquisita, come avremo modo di analizzare tra poco. Tornando agli inserti, quello finale, invece, è un vero e proprio schiaffo che risveglia le coscienze: un montaggio giustapposto di immagini di repertorio in cui si documentano gli scontri di Charlottesville che hanno portato alla morte di Heather Heyes e i commenti imbarazzanti e fuoriluogo di Donald Trump e David Duke, quelli reali, ed è davvero il caso di aggiungere un “purtroppo”.

«Mi serve il fascicolo di un “ROSPO».

A parte il cameo del regista, l’ambientazione a Brooklyn e gli end credits evocatici, che stavolta si sarebbero rivelati fuoriposto, tutta la poetica, lo stile e le ossessioni di Spike Lee tornano in questo memorabile BlacKKKlansman. E la maturità sta nel fatto che ogni cifra stilistica o elemento poetico è funzionale alla trama o all’intreccio.

Per quanto riguarda la POETICA:

  • tematiche sociali, in questo caso alleggerite dai temi del doppio, dello scambio di identità e della loro negazione, il mimetismo (da attribuire forse più ai coproduttori Jordan Peele (regista di Scappa – Get out) e Jason Blum della Blumhouse Production (La notte del giudizio – Election year, The visit);
  • lotta al razzismo;
  • personaggi femminili forti;
  • attenzione ai dialoghi, mai banali, ma casomai referenziali o autoreferenziali;
  • attenzione nella scelta della musica, sempre ricercata e significativa (Too late to turn back now, per fare un esempio su tutti)
  • citazioni culturali, cinematografiche, metacinematografiche e riguardanti l’attualità.

Le SCELTE STILISTICHE prevedono:

  • fotografia caratterizzata da colori saturi, senza eccedere stavolta;
  • contrasti marcati, stavolta meno “rumorosi” rispetto al solito.

Fino ad arrivare alle cosiddette “CIFRE STILISTICHE” che diventano delle firme personali dell’autore:

  • attori che parlano verso la mdp e relativo sfondamento della parete “proibita”;
  • la famosa “wake-up-call”, la telefonata che sveglia, immancabile;
  • il “double-dolly-shot”, anch’essa immancabile: si tratta di una sequenza in cui il personaggio è inquadrato con un piano ravvicinato, mentre è immobile sul carrello in movimento. Il risultato è uno straniamento dello spettatore che percepisce l’immobilità del soggetto rispetto al cambiamento dello sfondo intorno.

John David Washington [The Old Man & the Gun, Love Beats Rhymes, Malcolm X], ex giocatore di football americano ma, soprattutto, figlio di quel Denzel Washington [Barriere, The equalizer, I magnifici 7] che è stato protagonista di parecchi Spike Lee’s Joint [Malcolm X, Inside man, He got game], ha conquistato pubblico e critica, donando al suo personaggio la spavalderia tipica della sua gente e il posato raziocinio dell’eroe senza macchia e senza paura che occorreva per rendere più evidente il contrasto tra tematica e messa in scena e tra i toni della commedia e la realtà drammatica dei fatti.

«Improvvisa! Come nel jazz!».

Oltre ai già nominati Adam Driver [L’uomo che uccise Don Chisciotte, Star Wars: Il risveglio della forza, Star Wars: Gli ultimi jedi], Topher Grace [Interstellar, Truth – Il prezzo della verità, Spider-Man 3], Laura Harrier [Spider-Man: Homecoming, Fahrenheit 451 serie tv], Corey Hawkins [Straight outta Compton, Iron Man 3, Kong: Skull Island], del cast, fra new entry e vecchi amici, fanno parte anche Ryan Eggold [La scomparsa di Eleanor Rigby, Padri e figlie, 90210 serie tv], Jasper Pääkkönen [Vikings serie tv], Robert John Burke [Miracolo a Sant’Anna, Person of interest serie tv], Ken Garito [S.O.S. – Summer of Sam], Paul Walter Hauser [Tonya], Ashlie Atkinson [The wolf of Wall Street, Inside man].

A completare il cast due fratelli d’arte. Uno è Michael Buscemi [Animal factory, Insieme per forza] il fratello del più famoso Steve Buscemi. L’altro è una vecchia conoscenza del regista e presente in Fa’ la cosa giusta, Mo’ better blues, Jungle fever e Malcolm X. Si tratta di Nicholas Turturro, fratello di John Turturro, che ha quel ruolo che sin dalla tragedia greca viene definito deus ex machina, ovvero un personaggio, il più delle volte una divinità, che compare improvvisamente sulla scena per dare una risoluzione ad una trama ormai irrisolvibile secondo i classici principi di causa ed effetto; tale espressione è ora, di fatto, assunta per indicare un evento o un personaggio che risolve inaspettatamente la trama di una narrazione, al punto di apparire altamente improbabile o come il risultato di un evento fortuito.

Cameo fondamentale inoltre quello affidato ad Harry Belafonte su un montaggio alternato che crea un parallelo tra il suo intervento all’incontro con gli studenti afroamericani ed il “battesimo” dei nuovi adepti suprematisti del KKK. Un montaggio alternato che può scolpirsi nella memoria come quello de Il padrino, sempre con un battesimo di mezzo, stavolta il rito cristiano è per un neonato, abbinato all’ascesa al potere del nuovo boss.

Dopo la standing ovation di sei minuti, e il premio ovviamente, a Cannes 2018, BlacKkKlansman ha ricevuto un’ottima accoglienza anche negli Stati Uniti, complice anche la scelta di farlo uscire il 10 agosto, anniversario di Charlottesville.

«– Test della verità? Colpi di pistola? Volete coglionarmi? è un dannatissimo bordello! Aaah… teste di cazzo! Mi prendete per il culo? Tu mi stai intortando, tu mi stai intortando, il capo me lo sta mettendo in quel posto: è una grande inculata collettiva! Vi fa ridere? perché se Bridges lo viene a sapere, tutta questa cazzo di operazione verrà chiusa. Sì, fa ridere… E io verrò mandato davanti a una scuola del cazzo nel fottuto ghetto di Five points!
– Ma lo verrà a sapere, Sergente?
– Verrà a sapere che cosa? (buttando il fascicolo in un cassetto)».

BlacKkKlansman è una black comedy dove il riso diventa amarissimo con lo schiaffo della realtà dei fatti di Charlottesville. Per l’intero film si può ridere con le lacrime agli occhi ma sui titoli di testa, viceversa, non ci è permesso piangere con il sorriso: è un pianto di rabbia.

«Non volevo certo che la gente uscisse dal cinema ridendo».

Quello che per altri film di genere costituirebbe l’obiettivo finale, in BlacKkKlansman si trasforma in pochi secondi nel setting di un’altra storia ben più profonda (il riferimento è all’accettazione senza precedenti di un afroamericano nella polizia di Colorado Springs). Il tema del razzismo, tanto caro a Lee, si unisce a quello dell’emancipazione, creando una fitta rete di rimandi. Così il discorso non si limita all’accettazione di un nero nella polizia, ma diventa lotta contro quell’impero invisibile che, celato dietro una maschera da rispettabili membri di una società in giacca e cravatta che non ammette intrusioni esterne, estranee – nemiche, ostili come si tramanda nel termine latino hostes – al loro circolo chiuso, che reputano virtuoso così com’è. Nemmeno le donne vi sono ammesse. Le loro donne. La critica di Spike Lee alla società attuale passa attraverso quest’ambientazione anni ’70, prende come pretesto la storia di Ron Stallworth e poi la trascende, spingendosi a sovrapporre parallelismi forti: l’ebreo non praticante che si trova a dover difendere le proprie origini in un ambiente ostile; l’afroamericano che viene emarginato dai suoi stessi fratelli in quanto poliziotto; il poliziotto nero che deve sentirsi bullizzato nel suo ambiente di lavoro dai suoi stessi colleghi; la donna che non risulta mai abbastanza credibile come sesso forte o che non avere pari opportunità reali sulla scena politica – o terroristica, per giunta! – se non in ruoli secondari, da gregario.

«Sono abbastanza rispettoso per te, agente “ROSPO”?».

BlacKkKlansman è una black comedy dove l’aggettivo non indica il colore della pelle: dietro la farsa, dietro le risate, seppur spesso amare, si fa largo una riflessione profonda sul senso di appartenenza ad una comunità e ad una nazione che finalmente siano unite ed emancipate da ogni forma di intolleranza, sul confine che deve esistere tra rivendicazione dei diritti e terrorismo e su tanti elementi che sembrano insignificanti se non si guarda il quadro generale: la blaxploitation operata dal cinema negli anni ‘70/’80 [si citano Cleopatra Jones, Coffy, Superfly e Shaft, complici, come Tarzan e Via col vento, nella diffusione di dinamiche sociali sbagliate o distorte] o i luoghi comuni che stentano a scomparire sono additati da Lee alla stessa stregua dei discorsi assurdi dei suprematisti bianchi, perché contribuiscono a diffondere immagini che danneggiano il popolo afroamericano. La critica non si limita, quindi, a demonizzare il succitato Nascita di una nazione di Griffith, ma si allarga a puntare il dito sul potere che i media esercitano sulla massa, sulla politica, che è troppo spesso un ulteriore modo di vendere odio, sull’irrazionalità che c’è dietro certi discorsi, certe spiegazioni, sulla giustizia che non esiste senza la verità e su una verità soggettiva che non può generare una giustizia violenta e sommaria. Mai.

Curioso che Adam Driver sia contemporaneamente nelle sale cinematografiche italiane con L’uomo che uccise Don Chisciotte di Terry Gilliam, che tocca alcune tematiche simili: la ricerca di una reale verità e il forte condizionamento – un rumore, un disturbo sarebbe meglio dire – dei mass media sull’opinione del pubblico e sui suoi desideri di felicità.