Michael Keaton

The founder, di John Lee Hancock

The Founder, di John Lee Hancock [Saving Mr. Banks, The Blind Side, The Rookie – Un sogno una vittoria], racconta la storia vera dell’imprenditore Ray Kroc e di come sia riuscito a far diventare McDonald’s la catena di fast food più famosa al mondo. Non solo, è lo scontro tra due imprenditori idealisti e uno senza scrupoli. Così, mentre il produttore Don Handfield [Touchback, Knightfall]romanza l’origine del film legandola all’ascolto della canzone “Boom, like that” scritta da Mark Knopfler, storica chitarra dei Dire Straits, proprio dopo aver letto l’autobiografia di Ray Kroc, un altro produttore, Aaron Ryder [Memento, The prestige, Donnie Darko, Arrival], spiega: «è un film sull’America e sul capitalismo. Parla della determinazione per il raggiungimento del successo, dell’integrità della ricerca e anche della sua perdita. Rappresenta il sogno americano: si può avere successo nonostante tutto grazie alla pura forza di volontà».

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Ray Kroc [Michael Keaton], semplice commesso viaggiatore di una ditta che vende multimixer per frullati, dall’Illinois si precipita ad incontrare i fratelli Dick e Mac McDonald [Nick Offerman e John Carroll Lynch], che stavano tirando su una catena di ristoranti specializzati nella somministrazione del classico menu da fast food: hamburger, patatine e bibita analcolica.

Quello che li contraddistingueva dalla massa durante il boom economico degli anni ’50, in California come nel mondo, era un sistema espresso per preparare e confezionare che avrebbe rivoluzionato il mercato. Kroc, visto il potenziale per un franchise, cerca con qualsiasi manovra di guadagnarsi una posizione nel loro business, sfidando la ritrosia e le regole ferree dei fratelli, inamovibili nel non voler snaturare la genuinità del loro prodotto e del loro brand.

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Ma allora come si è giunti all’attuale status quo? Chi l’ha spuntata lo si sa, senza neanche vedere il film, ma quello che la sceneggiatura avvincente, dinamica e senza sbavature o falsi moralismi riesce a realizzare è di tenere lo spettatore incollato alla poltrona ad aspettare lo svelamento delle macchinazioni.

E se in fondo al cuore l’umanità positiva dei McDonald lo emoziona e lo muove alla protesta, allo stesso tempo, lo spettatore è rapito dalla carismatica figura di Kroc/Keaton che dialoga direttamente in macchina colmando il vuoto che c’è oltre quella barriera invisibile che è la cosiddetta “quarta parete” con la sua determinazione. Interpellando direttamente il pubblico si erge a protagonista indiscusso e, come per incanto le sue azioni immorali diventano lecite e, anzi, desiderate in quanto fulcro della trama intera.

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La sceneggiatura di Robert Siegel [The Wrestler] è indiscutibilmente da Oscar, come lo è anche la ricostruzione storica operata dallo scenografo Michael Corenblith, dalla set decorator Susan Benjamin e dal costume designer Daniel Orlandi per la fotografia di John Schwartzman, ispirata ai dipinti di Edward Hopper e realizzata con macchine Arri Alexa XT equipaggiate con lenti anamorfiche Panavision ed uno spettacolare rapporto 2.39:1.

Oltre a Michael Keaton [Birdman, Il caso Spotlight], Nick Offerman [Knight of Cups] e John Carroll Lynch [The invitation, Zodiac], nel cast anche Linda Cardellini [Avengers: Age of Ultron], Patrick Wilson [Insidious, Oltre i confini del male: Insidious 2, L’evocazione – The Conjuring, The Conjuring – Il caso Enfield], B. J. Novak [Saving Mr. Banks, Reign over me, Bastardi senza gloria] e Laura Dern [Wild, Jurassic Park].

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Il caso Spotlight, di Tom McCarthy

Il team di giornalisti investigativi del Boston Globe, soprannominato Spotlight, nel 2002 ha sconvolto la città con le sue rivelazioni sugli abusi sessuali commessi su minori da oltre settanta sacerdoti locali, i cui nomi erano stati accuratamente nascosti tra le pieghe dei registri privati dalla Chiesa Cattolica. L’inchiesta è esplosa come una bomba nel cuore pulsante della Chiesa americana e si è propagata in tutti gli Stati Uniti fino a portare alla luce i nomi di oltre seimila sacerdoti. Uno scandalo senza precedenti che ha colpito la Chiesa dritto al cuore.

A distanza di oltre dieci anni dall’inchiesta molti altri casi di abusi sono venuti alla luce in tutto il mondo, ma il lavoro svolto dal team Spotlight è rimasto un caso unico nel suo genere, perché per la prima volta questa incredibile squadra di giornalisti ha dimostrato che che anche un’istituzione secolare, all’apparenza intoccabile, può sanguinare.

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Tom McCarthy ha trasformato la loro impresa in un film, che ricostruisce meticolosamente le indagini dei cronisti del Boston Globe dal momento in cui il neodirettore Marty Baron (Liev Schreiber) nel 2001 da il via all’inchiesta incaricando il team Spotlight, capitanato da Walter Robinson (Michael Keaton), di indagare sulla notizia di cronaca di un prete locale accusato di aver abusato sessualmente di decine di giovani parrocchiani. Dalla strenua ricerca dei testimoni ad opera della giornalista Sacha Pfeiffer (Rachel McAdams) fino alla caccia agli atti secretati da parte di Michael Rezendes, McCarthy affronta la storia come un giornalista coscienzioso, che su attiene esclusivamente alle fonti, e modella i personaggi sulle personalità che realmente hanno preso parte all’impresa. Primo tra tutti Michael Keaton, che nel 1994 già aveva interpretato la parte di un giornalista in Cronisti d’assalto di Ron Howard, e che qui presta il suo volto a “Robby”, riprendendone l’aspetto e le movenze in ogni dettaglio, dopo un lungo lavoro di affiancamento del giornalista.

Quello che colpisce nello svolgimento delle indagini da parte di Walter Robinson e della sua squadra è la delicatezza con cui viene trattato il caso, i testimoni e tutti i personaggi coinvolti. McCarthy non indugia mai sulle testimonianze raccapriccianti delle vittime, e non tenta in alcun modo di screditare la Chiesa, al contrario accusa i colpevoli di questi abusi di indebolire la fede dei credenti con i loro atti osceni. Sono solo i fatti a parlare, e le voci tremolanti dei testimoni, e sono proprio questi ad essere messi in primo piano con un’estetica minimalista, che so concentra sulla parola più che sull’immagine, e che ha come unico obiettivo quello di far conoscere al mondo il lavoro di questi giornalisti e la sua importanza nella sopravvivenza della democrazia.

Birdman, di Alejandro González Iñárritu

Mentre Legolas ha lasciato a casa arco e frecce per sfrecciare con la sua moto fiammante sul palcoscenico di Broadway e il perfido Loki ha smesso i panni dell’Asgardiano per indossare quelli di Colriolano nei teatri londinesi, il supereroe Birdman è ancora chiuso nel suo camerino polveroso a domandarsi se, piuttosto che salire su quel palcoscenico, non sarebbe stato più più facile rimanere sul set del suo film, ripetere le scene all’infinito, adagiarsi comodamente sugli effetti speciali ed essere osannato dalla folla in delirio per un paio di giravolte tra i grattacieli di New York. Questa è Broadway e qui si va in scena ogni giorno, portandosi addosso i mesi di prove, gli imprevisti, i cambi di programma all’ultimo minuto, gli umori degli attori e soprattutto la paura di deludere il pubblico, di inorridire i critici del New York Times e di firmare in una scena la propria condanna all’oblio. Qui e la computer grafica non è ancora arrivata e il trucco è l’unico effetto speciale possibile, fatta eccezione per qualche effetto sonoro combinato ad arte con una spruzzata di pioggia e un faretto lampeggiante, e gli attori non hanno tempo per ripetere le scene all’infinito perché il tempo dello spettacolo è unico e fluisce senza pause fino alla fine. L’errore non è concesso perché gli occhi degli spettatori sono lì, puntati dritto sul palco, e non si spengono ad intermittenza come le videocamere sul set. Per questo gli attori devono essere costantemente concentrati sulla parte e controllare ogni movimento per tutta la durata dello spettacolo, senza mai tirare il fiato, senza mai spogliarsi dei loro personaggi, sia presenti che passati.

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Riggan Thompson si è convertito dal cinema al teatro e ora, secondo le regole di quest’arte a lui sconosciuta, la sua vita è destinata a scorrere in un atto unico, senza pause e senza stacchi, in cui il corpo è sempre in scena, si dibatte sul palcoscenico, attraversa il teatro fino a raggiungere i ai camerini, esce in strada e vola sulla città, per poi ritornare sui suoi passi e ritornare ancora in scena.   La videocamera è sempre accesa su di lui e lo segue come un’ombra in tutto ciò che fa e, simulando un unico piano sequenza, lo pedina sin nella sua intimità, scruta la sua coscienza e scava tra i suoi ruoli per cercare l’uomo sotto lo strato pesante dei personaggi che nel tempo ne hanno preso il posto. Dopo una poco gloriosa carriera nel mondo dei cinefumetti, oggi Riggan va in scena per la prima volta al St. James Theatre di Broadway nei panni del protagonista disperato di Di cosa parliamo, quando parliamo d’amore?, un adattamento dell’opera di Raymond Carver, lontano anni luce dai lavori che lo hanno reso celebre agli occhi del grande pubblico e privato della benevolenza dei critici dal gusto raffinato. Ma a dispetto della sua immagine pubblica è deciso a convertire l’idolatria dei molti nell’ammirazione dei pochi, dimostrando al mondo intero la sua destrezza sul nudo palcoscenico, senza trucchi ed effetti speciali, e un pezzo della letteratura americana tra le mani.

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Il suo unico nemico nella realizzazione di questa impresa ambiziosa è l’amato-odiato Birdman, il supereroe dallo sguardo impenetrabile, che non riesce a staccare neanche per un istante la mascella impertinente e il costume di piume d’acciaio dal corpo di Riggan. Il supereroe tracotante e l’attore disperato convivono nella stessa stanza come nella stessa carne, non possono fare l’uno a meno dell’altro e cercano di annullarsi a vicenda, mentre Riggan si dibatte in questo delirio schizofrenico tra i suoi personaggi cercando di ricongiungersi con la sua umanità. L’eterna lotta tra attore e personaggio si sublima così tra le mani di Alejandro González Iñárritu, che entra violentemente nei camerini di Broadway per mostrare il conflitto tra ignoranza apparente e virtù autodichiarata, che spacca in due il mondo dello spettacolo e coinvolge in una dimensione squisitamente metanarrativa tutti coloro che ruotano intorno all’arte drammatica, dagli attori schizofrenici ai registi narcisisti, dai cacciatori di visualizzazioni ai critici d’altri tempi. La vita e lo spettacolo in Birdman seguono lo stesso binario, si incrociano sul palcoscenico e si dividono nel sogno, là dove all the world’s a stage e tutti siamo attori, più o meno consapevoli, di un dramma universale scritto da un regista che ama assistere alla sofferenza dell’uomo e ci spinge a cercare incessantemente l’approvazione degli altri e l’immortalità dell’anima, in un unico gesto memorabile che alla fine dei giochi fa cadere ogni maschera e mostra al mondo chi siamo davvero.