Sigourney Weaver

Roma FF13 – Incontro con Sigourney Weaver

“Volevo recitare Shakespeare a teatro, invece mi sono trovata a fare Alien”. Con questa frase l’attrice americana Sigourney Weaver, a quasi settant’anni, descrive la sua carriera alla Festa del Cinema di Roma. “Da giovane volevo fare teatro è vero, ma al tempo stesso ho sempre amato spaziare tra i generi. La fantascienza è un genere molto sofisticato, che pone grandi domande esistenziali, su dove stiamo andando, sull’universo, ed è una parte importante della nostra cultura. In America la fantascienza occupa un posto molto importante nella letteratura, e mi dispiace che molto spesso nell’industria cinematografica sia considerato un genere di serie b, solo pieno di effetti speciali, perché a mio parere merita più attenzione ed è molto più profondo di quanto non sembri. All’inizio della mia carriera non avrei mai immaginato che un giorno avrei fatto fantascienza, ma è così che ho trovato il mio posto nell’industria e per questo devo ringraziare grandi registi come Ridley Scott, a James Cameron”.

Grazie a pellicole come Alien, Ghostbusters e poi Avatar, Sigourney Weaver è diventata una vera e propria icona della fantascienza, ma ha anche regalato grandi interpretazioni in generi diversi come per esempio in Gorilla nella nebbia di Michael Apted. “Ho lavorato con registi meravigliosi. Cameron ha intuito in modo sottile come potevo lavorare e mi ha messa alla prova, in Tempesta di ghiaccio io e Ang Lee ci siamo capiti senza neanche dover parlare, e Ridley Scott usava molto l’improvvisazione. È stata una grossa sfida lavorare con lui perché venivo dal teatro. All’inizio ero spaventata perché non ogni scena non sapevo mai cosa sarebbe capitato, ma poi mi sono resa conto che stavamo facendo un film molto innovativo e sicuramente ben riuscito. Gorilla nella nebbia è stata un’esperienza diversa ma altrettanto appagante. Ho lavorato in Africa con una troupe internazionale, sono stata a stretto contatto con i gorilla ogni giorno ed è stato fantastico. Vi incoraggio ad andare lì e a vivere un’esperienza simile, vi renderete conto che sono animali molto simili a noi”.

In tutti i ruoli che ha ricoperto, Sigourney Weaver ha sempre interpretato donne forti, indipendenti, l’esatto opposto dello stereotipo della fidanzata americana. Perché? “Non sono mai stata stereotipata in una fidanzata, forse perché non ho il fisico adatto, sono troppo alta e non sono bionda con gli occhi chiari. Evidentemente con l’aspetto che ho non posso incarnare quell’ideale. Eppure, anche se amo le storie d’amore, sono orgogliosa di tutti i film a cui ho preso parte, ognuno con le sue peculiarità e ogni giorno quando vado a lavoro mi sento felice”.

Sette minuti dopo la mezzanotte, di Juan Antonio Bayona

Sette minuti dopo la mezzanotte [A monster calls nella versione originale] è un film intenso, dalla grande potenza emotiva, che coinvolge e intenerisce, mentre sullo schermo una realtà diegetica avversa al giovane protagonista si alterna con una dimensione parallela in cui si perde il confine fra sogno e realtà.

Si tratta della trasposizione del romanzo ideato da Siobhan Dowd e portato a termine da Patrick Ness, vincitore nel 2012 della Carnegie Medal per la letteratura (dall’infanzia allo young adult) e della Kate Greenaway Medal per le illustrazioni di Jim Kay, un disegnatore fortemente voluto anche da J. K. Rowling per illustrare i suoi Harry Potter.

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Un doppio nodo lega la trama del libro con la genesi del romanzo: la malattia, che non ha permesso all’autrice di concluderlo, e la ferma volontà di chi le era accanto di non scrivere la parola “fine” su un progetto che ne avrebbe perpetuato la memoria. Un legame che non è sfuggito al regista Juan Antonio Bayona che è stato da subito fortemente attratto dal romanzo, trovando nelle sue pagine argomenti che aveva già esplorato in The Orphanage e The Impossible, «personaggi che si trovano in una situazione particolarmente intensa, su cui incombe la morte». Una morte che non è intesa come fine di un percorso, ma come inizio di una nuova avventura ad un livello ulteriore, concetto che rimanda all’origine ancestrale della fiaba come rito d’iniziazione delle comunità primitive e che è una delle prerogative del film.

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«Questa storia inizia come tante altre storie con un bambino troppo grande per essere un bambino e troppo piccolo per essere un uomo… e con un incubo».
Conor O’Malley [Lewis MacDougall] ha 12 anni e l’adolescenza, si sa, è un periodo cruciale della vita. Per lui ancora più difficile, costretto com’è a crescere troppo in fretta per la separazione dei genitori e la malattia visibilmente degenerativa della mamma [Felicity Jones]. In questo contesto già avvilente si aggiunge la beffarda mano del destino che mette il ragazzo nel mirino dei bulli della scuola. Diviso fra il sopportare e il reagire, ma conscio di dover risolvere i propri problemi in qualche modo, Conor rimane suggestionato dalla visione di King Kong, la versione originale del 1933, e così immagina che il tasso secolare che domina la collina di fronte casa loro, posto proprio al centro del cimitero, prenda vita e si trasformi in un gigante dall’anima di fuoco. Sette minuti dopo la mezzanotte, proprio mentre Conor finisce di disegnarlo, il mostro entra nella sua vita per stravolgerla completamente: gli racconterà tre storie e ne pretenderà un’altra da lui, una verità che custodisce gelosamente dietro un muro di paure e rabbia repressa.

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In Sette minuti dopo la mezzanotte ritroviamo tutta la poetica di Bayona: i legami familiari indissolubili e il soprannaturale che separa e unisce, il disegno artistico, che ha la funzione di tramite fra il mondo reale e l’immaginario, sia che si tratti degli schizzi su carta di Conor sia che si tratti dei racconti del mostro, acquerelli animati, la tecnica attraverso la quale il ragazzo esprime la sua fantasia, i suoi desideri, le sue angosce, come accade nei sogni, con rimossi, proiezioni astratte di paure concrete, ricostruzioni interiori di stimoli esterni e precognizioni.

Il sogno, altro elemento poetico molto caro al cinema di Bayona, svolge l’antica funzione di guida e mediazione con il mondo esterno, strettamente legato ai miti arcaici, a situazioni riconducibili a fiabe e leggende popolari. Entrambi, sogni e miti, sono il risultato di una complessa elaborazione e deformazione delle fantasie di desiderio: più individuali nei sogni, collettive in quei “sogni” ancestrali delle comunità primitive che hanno il nome di miti. Quella forma primitiva di pensiero è stata sempre presente nell’inconscio umano ed è chiamata archetipo. Presenti indistintamente in tutte le civiltà, e culture del nostro pianeta, sono gli archetipi a costituire la base del mito e di tutti i suoi derivati. Queste sono gli elementi essenziali che compongono il simbolo che assieme ad altre forme ed altri simboli vanno a formare ciò a cui le società hanno dato il nome di mito.

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Dal mito deriva poi la fiaba, una sintesi di archetipi sociali, psicologici e onirici, nonché chiave di lettura del nostro argomento principe, Sette minuti dopo la mezzanotte. Il film, ambientato in una Manchester non troppo caratterizzata, resa anche più gotica di quello che in realtà è, presenta molte caratteristiche in comune con la struttura del mito e, soprattutto, della fiaba: nell’inverosimiglianza dei fatti e nell’indeterminazione spaziotemporale, dove il “qui e ora” diventa un modello universale di “qualsiasi luogo e tempo”, si muovono personaggi classici come un principe, una matrigna-strega, accanto a figure meno frequenti, come lo speziale e il pastore ecclesiastico, ma tutti contribuiscono a veicolare un messaggio che possa fornire a Conor gli elementi per poter reagire agli eventi che lo hanno colpito. La madre buona [Felicity Jones, la Jyn Erso di Rogue One: A Star Wars Story e candidata agli Oscar® 2018 come protagonista] non è necessariamente da contrapporre alla nonna che appare fredda e distante [Sigourney Weaver, la Ellen Ripley di Alien e candidata agli Oscar® 2018 come non protagonista]; se suo padre [Toby Kebbell; Ben Hur, Warcraft – L’inizio] si è rifatto una vita in America non necessariamente è un dramma; la fede cristiana e la fiducia nella medicina non per forza comportano un ritorno concreto secondo i propri desideri.

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«Le storie vere spesso sono fregature».

Non come un golem difensore degli oppressi (mosso anch’esso dalla verità), non come un jinn che debba esaudire i desideri del suo padrone, l’antropomorfo Tasso secolare, quale saggio maestro di vita, guida Conor in un viaggio dell’eroe all’insegna del coraggio, della fede e della verità, virtù cavalleresche che sembravano ormai appannaggio dei soli supereroi, ultimamente. In molti hanno riscontrato una certa somiglianza fra il Groot de I guardiani della galassia e il Mostro di Bayona animato in animatronic, motion capture e CGI, ma in pochi avranno notato le assonanze con i Giganti mitologici, i Titani, tra cui troviamo Prometeo che dona la conoscenza all’uomo e Cronos che governa il tempo. Dall’alto della sua figura di fantastico mentore, il Mostro – una creatura alta 12 metri al quale è Liam Neeson [Taken, Silence], con il motion capture, a dar vita e voce – mette in guardia il ragazzo («stai usando male il tempo che ti è stato concesso») e gli fornisce, attraverso le fiabe e i loro ambigui personaggi, la giusta chiave di lettura per interpretare la propria coscienza e, in una sola parola, crescere.

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«La maggior parte della gente è una via di mezzo».

Le origini della fiaba si perdono nella notte dei tempi. Teorie su teorie, quali quella mitica, indianista, antroposofica, poligenetica, ancora non hanno trovato un bandolo comune della matassa. Quello che è certo è che la tradizione orale, attraverso riduzioni e semplificazioni di antichi miti, stratificati nel tempo e rielaborati in età successive, ha operato una contaminazione di figure tratte dalla fantasia popolare in modo da poter rendere i racconti fiabeschi uno strumento educativo prezioso per tutti, in barba all’opinione pubblica che ritiene che le fiabe siano pensate ad uso e consumo esclusivamente del divertimento dei bambini.

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Sette minuti dopo la mezzanotte è un film che possiamo definire, senza incorrere in obiezioni, fiabesco, che è stato realizzato combinando l’estrema lucidità della sceneggiatura di Patrick Ness con la fervida fantasia scenografica di J. A Bayona, mantenendo una coerenza estetica con il resto della filmografia grazie ad una fidata crew di tecnici: il direttore della fotografia Óscar Faura [The Orphanage, The Impossible], lo scenografo Eugenio Caballero [Oscar® per Il labirinto del fauno], i montatori Bernat Vilaplana [Crimson Peak, Penny Dreadful e premio Goya per The Impossible e Il labirinto del fauno] e Jaume Martì [Penny Dreadful e Gaudì Award per Transsiberian], il costumista Steven Noble [La teoria del tutto, Una, Trainspotting 2], il compositore Fernando Velásquez [The Orphanage, The Impossible]. Oltre alla già citata animazione mista, il regista impreziosisce le riprese con virtuosismi tecnici che in pochi ormai utilizzano: raccordi sull’oggetto e inquadrature reverse che meravigliano come le acrobazie di un abile circense.

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Magari potrebbe sembrare prematuro parlare di nomination agli Oscar® 2018 ma questa avventura gotica in bilico fra sogno e realtà finora è l’opera migliore sotto ogni aspetto. Non a caso ha vinto 9 premi Goya su 12 ai quali era candidato!

Un aneddoto e una curiosità a margine, per concludere.
L’aneddoto: il regista ha scelto di non dare al suo giovane protagonista la pagina del copione che descriveva l’ultimissima scena di Sette minuti dopo la mezzanotte perché voleva che MacDougall avesse la reazione più naturale possibile e autentica possibile. Il risultato è stato davvero notevole.
La curiosità è, invece, per gli spettatori attenti: non rilassatevi durante l’epilogo e fate caso sulla parete alle fotografie raffiguranti il nonno di Conor.

«Chi ci dice che il sogno non sia tutto il resto?».

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Humandroid in DVD

A Johannesburg nel 2016 la vita non è più sicura. La metropoli sudafricana è assediata da numerose bande criminali e la polizia è costretta a trovare una soluzione estrema per fare fronte al numero di crimini continui che sconvolgono la città, ingaggiando una sezione di robot umanoidi costruiti dalla Tetravaal, ambiziosa società di armi tecnologicamente avanzate. L’ideatore di questo copro di polizia robotico è Deon Wilson (Dev Patel), giovane ingegnere appassionato di intelligenza artificiale. Il suo sogno è quello di dotare le sue creature di una coscienza “umana” e dopo notti insonni riesce a trovare il giusto algoritmo per la realizzazione del progetto. Michelle Bradley (Sigourney Weaver), presidente della Tetravaal, non condivide la sua stessa passione, interessata a un progresso tecnologico esclusivamente se accompagnato da un ritorno economico. Della visione della presidentessa ne fa le spese anche Vincent Moore (Hugh Jackman), ex militare che vorrebbe boicottare i robot a favore di una macchina da guerra manovrabile dall’uomo. Quando Deon ha la possibilità di testare la sua invenzione su un robot difettoso e destinato al macero, un gruppo di delinquenti interviene complicando il quadro. Venuti in possesso di Chappie, l’umanoide intelligente e perfezionato, lo includeranno nei loro piani criminali. Come reagirà un robot-bambino di fronte a una vita violenta e perversa?

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C’è ancora una volta un cortometraggio dietro a Humandroid, l’ultimo film di Neill Blomkamp. Se il suo esordio, District 9, era tratto da un corto di 3 anni precedenti (Alive in Johannesburg) dietro Humandroid c’è Tetravaal, cortometraggio girato in forma di trailer che risale addirittura al 2004. Humadroid è fantascienza che predilige nettamente il fantastico allo scientifico, una che rifiuta ogni possibile base tecnica e plausibile per spalleggiarsi con il favolistico. C’è più di uno scivolone in questo film di certo non preciso e inesorabile come District 9: sembra che Blomkamp, pur ambientando e girando sempre in Sudafrica, si sia trasferito con la testa a Hollywood, abbia cioè quietato lo spirito sovversivo che animava i suoi film precedenti preferendogli i più consueti conflitti da cinema di grande incasso e le tenerezze più bieche. Humandroid non punta più ad indignare quindi ma ad intenerire, forse commuovere, girando dalle parti del prevedibile. Gli ammiccamenti sono difatti molteplici, il che non è chiaramente un male di per sé: Blade Runner e Robocop per restare al cinema, ma anche Pinocchio di Collodi. Citazioni che contribuiscono più che altro a farsi un’idea di quanto complesse siano le dinamiche trattate, che nel film vengono invece ridimensionate all’inverosimile, pressoché vanificate. L’innegabile buon occhio di Blomkamp si ferma ad un ritmo incalzante, ad alcune scene d’azione costruite con criterio ma non sorrette da un impianto narrativo convincente. Nel finale tuttavia accade qualcosa di inusuale. In un ribaltamento che ricorda moltissimo la parte migliore di District 9 emerge il cuore di un film che ci ha messo quasi tutta la sua durata per scrollarsi di dosso il desiderio di andare incontro ai gusti del pubblico ad ogni costo.

IL DVD

Humandroid - DVD

REGIA: Neill Blomkamp INTERPRETI: Dev Patel, Hugh Jackman, Sigourney Weaver, Jose Pablo Cantillo, Yolandi Visser, Watkin Tudor Jones, Sharlto Copley TITOLO ORIGINALE: Chappie GENERE: Azione, Thriller, Fantascienza DURATA: 115′ ORIGINE: USA, Messico, Sudafrica, 2015 LINGUE: Italiano, Inglese, catalano, Spagnolo, Turco, Ungherese SOTTOTITOLI: Italiano, Inglese, catalano, Danese, Ebraico, Finlandese, Norvegese, Rumeno, Spagnolo, Svedese, Turco, Ungherese EXTRA: Trailer di The Intruders e Elysium, We are Tetravaal DISTRIBUZIONE: Sony Pictures

La musica di Hans Zimmer (Interstellar, Inception, Freeheld – Amore, giustizia, uguaglianza tra gli altri), la presenza nel ruolo dell’antagonista di Hugh Jackman in versione bullo australiano e quella di Sigourney Weaver nel piccolissimo e stereotipato ruolo dello spietato industriale che guarda solo al profitto non si innestano naturalmente nel corpo di Humandroid, come facevano invece i volti/corpi di Matt Damon e Jodie Foster in Elysium, ma contribuiscono loro malgrado a dare al film un effetto di “normalizzazione”. I veri protagonisti stavolta sono altri: l’invisibile Sharlto Copley, che ha offerto una grande performance fisica, dando credibilità umana a Chappie, l’ottimo Dev Patel e soprattutto duo rap sudafricano Die Antwoord, formato da Ninja e Yo-Landi Vi$$er, nel ruolo dei genitori adottivi del robot ragazzino: le loro scene con questo figlio metallico da educare con pazienza e tenerezza o da sfruttare e ingannare, il cuore del film e la sua parte migliore, che ne fanno una versione blomkampiana di Pinocchio.
Nella confezione di questo giocattolo intelligente vengono sfiorati anche temi importanti come i rapporti genitori/figli, il libero arbitrio, l’etica della scienza e i progressi della robotica, ma manca l’afflato sociale che animava i primi film del regista. Spettacolari come al solito le scene d’azione, rappresentate con un realismo che riesce a farci sospendere l’incredulità, a partire dall’indovinato design di Chappie col particolare delle orecchie che aggiungono espressività a un volto in apparenza incapace di mostrare emozioni.

Tra i contenuti Extra troviamo due trailer, quello di Elysium (altro film di Neill Blomkamp ) e quello di The Intruders, film prodotto e distribuito dalla Sony Pictures. Unico contenuto legato al film è il “documentario” We are Tetravaal, un making of realizzato dall’interno, con gli occhi degli attori e del regista. Interessante perché fa comprendere con efficacia il modus operandi di regia che spesso taglia alcune scene per esigenze di storia; poco incisive, invece, le interviste.