Teatro dell’Orologio

Re Lear, di Stefano Sabelli

Dal nulla verrà nulla. Questa è la maledizione che il vecchio Re Lear lancia a Cordelia, la figlia che ama di più ma che non è capace di pesare il suo amore con l’adulazione nel momento in cui lui chiede alle sue figlie di dimostrare a parole il loro amore in cambio di un pezzo del suo regno. Così inizia la tragedia portata in scena da Stefano Sabelli al Teatro dell’Orologio, che immerge il dramma shakespeariano in un’atmosfera balcanica colorata e costantemente sopra le righe, in cui un ruolo fondamentale giocano gli scatenati musicisti della Riserva MOAC & Bukurosh Balkan Orchestra. Se Lear è un Re zingaro, le sue figlie Goneril e Regan diventano le lascive concorrenti di un concorso di bellezza, che non esitano a mettere in gioco tutta la loro fisicità, oltre che l’adulazione più sfrenata per essere incoronate Miss delle nuove Regioni di Bretagna.

Completamente diverso è l’atteggiamento di Cornelia che, serrata nei suoi abiti rigorosi, non lascia intravedere neanche un briciolo dell’affetto debordante che ostentano le sue sorelle e, salda sulle sue posizioni, preferisce l’onestà all’ipocrisia a costo di perdere ogni cosa. Lear divide il suo Regno fra due figlie adulatrici e ripudia Cornelia, ma è proprio questo l’inizio della fine perché questo gesto sconsiderato fa perdere al re zingaro il senno e la rosa dei venti del suo roboante carrozzone, e lo costringe a vagare per il suo regno perduto in cerca d’amore in una tempesta d’odio.

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Il Re Lear messo in scena dalla Compagnia del Loto è un’ode alla decomposizione lenta ma inesorabile dell’uomo, che si materializza prima in quella del suo regno, poi della sua famiglia, e infine della sua mente, mentre intorno a questo teatro-mondo esplodono ritmate fanfare Gipsy, ad annunciare il crollo dell’impero dei vecchi per far posto ai giovani, che mettono in campo tutte le armi a loro disposizione per trovare il loro posto nel mondo. Ma se Goneril e Regan si aggirano nel regno come Erinni affamate, pronte a risucchiare la vita di chiunque intralci il loro piano diabolico, Cornelia non usa altro che l’amore e la compassione, cercando l’alleanza di tutti coloro che un tempo erano fedeli al vecchio re. Chi vincerà questa sanguinosa battaglia? Nell’adattamento di Stefano Sabelli così come nel dramma shakespeariano l’unico vincitore di questa tragedia umana è l’odio, che travolge gli uomini come ramoscelli in balia della tempesta, e con il suo alito di morte è in grado di radere al suolo anche i regni più fiorenti e le menti più brillanti.

Nord Nord Ovest, di Marco Sanna

Il tempo goccia via in uno stillicidio che rode l’anima e la mente. Precipita dal soffitto scuro della scena e riempie vasi che vanno svuotati, come la memoria che sostiene l’esistenza e talvolta si vorrebbe liberare dalle zavorre. Le pareti nere intrappolano il palco senza scampo, la plastica rifrangente sul pavimento è una bruma umida su cui sembra impossibile restare saldi, gli abiti scuri reclamano un funerale. Fibre di abulia si intrecciano ai volti dei giovani attori, fantasmi tenuti in vita da ricordi distanti e sbiaditi, ma ancora troppo resistenti per essere recisi. “Nord-Nord Ovest”, della compagnia sarda Meridiano Zero Teatro, celebra l’attesa delle fine, il desiderio che l’onda del tempo travolga la memoria fino a cancellarne le tracce.

Non c’è tempo per l’improvvisazione, non c’è forza per rinnovarsi e reinventarsi, l’unico stimolo che si innerva nei corpi dei quattro attori è quello di reiterarsi sempre. Parole, gesti, idee non trovano sbocco in nulla che non sia già stato detto, fatto, pensato. Il tempo si dilata nei dialoghi e molto di più nei silenzi, pause estenuanti e corrodenti. E allora l’unico scopo in quel limbo del ricordo è quello di celebrare un rito sempre uguale. Si apparecchia la lunga tavola di legno, si sorbisce il brodo, si mescola e si aggiunge il sale, si gira attorno al desco senza che nulla cambi, che un vero dialogo si instauri. È una tradizione che non muta, che è ancorata al passato e legata ad essa. E allora il brodo rimane sempre sciapo, perché nulla di vecchio può insaporirlo e il nuovo è solo vagheggiato, ma mai afferrato. È l’affresco di un teatro che non sa innovarsi, che ripete se stesso e aspetta per cena un Godot che sa già che non si presenterà.

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Dunque il funerale della tradizione è agognato ma non celebrato. E anche quando si tenta di mettere in scena qualcosa di diverso, quando si osa, quando si prova ad allontanarsi dal passato, inevitabilmente si viene richiamati indietro, attratti da una forza gravitazionale che ancora al suolo brumoso del vecchio, dello stantio. Il salotto decadente viene trasformato in una platea, una scena di meta-teatro in cui ognuno dei quattro attori è costretto ad esibirsi davanti agli altri, a cedere una parte di sé per ricevere approvazione, per costruire i propri confini.
Alla fine, però, c’è la resa dei conti con se stessi. Uno specchio rimanda l’immagine dei quattro attori, ma li distorce, li deforma in una realtà falsata, grottesca, costringendoli ad una danza surreale e sempre uguale.
In questo mondo decadente non si può vivere e non si può morire, si può solo esistere tra le nebbie, figure opache sempre uguali a se stesse, mentre lo stillicidio del tempo erode senza sosta.

Il titolo “Nord Nord Ovest” non è che un richiamo alla provenienza della compagnia sassarese, vincitrice con questo spettacolo di Inventaria Festival 2015. Alla regia e sul palco Marco Sanna e con lui Felice Montervino, Maria Luisa Usai (vista in Giulietta Delli Fiori) e Francesca Ventriglia.

Yesus Christo Vogue, di Joele Anastasi

Scendiamo lentamente lungo un tunnel di orrore e vacuità. Il nostro sguardo viene intrappolato da tre piccoli monitor, tre occhi appesi lungo il breve corridoio, che testimoniano il disfacimento dell’umanità, inquadrando il terrore e screziandolo di vuoto. È un rito di passaggio che scartavetra la patina superficiale di ognuno di noi ed espone le nostre ferite al buio della sala e della storia. È questo pugno allo stomaco il primo obolo da pagare per vedere “Yesus Christo Vogue”, nuovo spettacolo della compagnia Vuccirìa Teatro per la regia di Joele Anastasi.

Una nebbia fitta ci avvolge una volta superata la porta socchiusa. Trovare le poltrone è come cercare un posto nel mondo, e quando riusciamo sembra che i nostri sensi siano ottusi, anch’essi avvolti dal velo nebuloso. Attendiamo con pazienza che tutti compiano il rituale, che tutti vengano lacerati dalla consapevolezza della decomposizione dell’umanità, mentre un Cristo sporco, alcolizzato, drogato è relegato in un angolo della sala, illuminato dall’unico fascio di luce.

Quando il palco si rivela, realizziamo che di esso non rimangono che due strisce appena. Un incrocio di strade interrotte, una croce consumata. La storia non esiste più, il mondo è stato divorato e vomitato e noi sediamo tra le sue macerie fumanti. E mentre il Yesus Christo Vogue viene inghiottito dal buio della nicchia della memoria, due figure emergono indistinte dalla nebbia. La corruzione ha intaccato i corpi dei due esseri umani sopravvissuti, ma soprattutto ha sbreccato le loro anime, che travasano all’esterno l’inquietudine del vivere. La foschia non si dirada, è la nebbia della ragione e della speranza, precipitate nel baratro assieme all’umanità. L’apocalissi ha cancellato l’uomo e l’amore, e ha partorito infelicità e solitudine. Adamo ed Eva della nuova genesi hanno già perso la purezza, la speranza, la capacità di sognare, ma sono condannati ad una vita eterna, senza un passato e senza un futuro, in un costante presente senza redenzione. Sono divinità nate dal fango che non tendono al cielo.

È allora che la morte diviene desiderio. La stasi di vita in cui sono immersi i due sopravvissuti non genera altro che sofferenza, e anche la possibilità di concepire un altro essere umano, unico embrione di cambiamento, sembra dolorosa, infausta. Non c’è nemmeno un Dio a cui appellarsi, scomparso con l’umanità stessa, divorato dalla falsa onnipotenza della sua creatura più bella. Adamo ed Eva sono soli, lottano, si graffiano, si sottraggono all’amore perché non riescono a riconoscerlo. Sono anime dissonanti che non entrano in risonanza e tra loro si genera una cacofonia di vuoto e paura e rabbia.

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“Yesus Christo Vogue” è un’apocalissi in nuce. Ogni essere umano contiene in sé quell’annientamento, quel dolore, che esplode ogni volta in cui assurgiamo a divinità, ogni volta che scagliamo giù Dio e ci sostituiamo a lui, convinti che l’infinito sia ad un passo e basti tendere la mano per afferrarlo. È il cataclisma di fango e superbia con cui l’uomo ha ricoperto il divino. Yesus Christo Vogue, però, ci osserva, sporco e ferito e attende di essere lavato e purificato per redimere l’amore. La nebbia si dirada solo quando viene sostituita dalla consapevolezza.

Vuccirìa Teatro, ancora una volta, non teme di affrontare il buio dell’umanità, le sconfitte dell’uomo che intessono la storia, quella personale e quella del mondo. Già il nome Vuccirìa è di per sé evocativo. È infatti il nome di un famoso mercato palermitano, che se da una parte trae origine dal termine francese boucherie, cioè macelleria, dall’altro, in dialetto locale significa confusione. Un ammasso disordinato di carne, come appunto l’umanità stessa, le sue speranze, i suoi conflitti, le sue bassezze e aspirazioni.
La regia di Joele Anastasi (Yesus Christo), drammaturgo e attore neanche trentenne, si dimostra cruda e di forte impatto, sicuramente evocativa. Adamo, Enrico Sortino, appare sottotono, quasi spaesato, soverchiato in più punti dalla forza e dalla determinazione dell’ultima Eva, l’ottima Federica Carruba Toscano.

I Vuccìria Teatro hanno vinto il “Roma Fringe Festival 2013” e il “San Diego Fringe Festival” con “Io, mai niente con nessuno avevo fatto“, mentre Federica Carruba Toscano è reduce dallo spettacolo Ogni volta che guardi il mare

Ad ospitare “Yesus Christo Vogue” in prima nazionale fino al 26 marzo sarà il Teatro dell’Orologio di Roma.

In punta di piedi, di Biancofango

Una linea bianca taglia a metà la piccola sala Gassman del Teatro dell’Orologio. È una fascia di gesso che separa il dentro dal fuori, il campo dalla panchina, il gioco dalla competizione più dura. È lo scenario minimo su cui si muove “In punta di piedi”, spettacolo che compie 10 anni e celebra la nascita della compagnia Biancofango, formata da Francesca Macrì e Andrea Trapani.

Nella Firenze delle periferie, dei campetti di calcio di terra e fango, dei riflettori spenti, si muovono tre anime diverse, contenute nel corpo di un unico attore. Lo spirito agguerrito di un allenatore senza sogni, la delicatezza di un giovane privo di talento, il caos che genera possibilità nel petto di un giocatore adolescente. È un viaggio minimo su un fazzoletto di terra polveroso e infangato, dove i sogni dei ragazzi sono ancora grandi e forti e quelli degli adulti sbiaditi, confusi con una realtà priva di sensibilità.

Andrea Trapani suda dall’inizio alla fine, espelle attraverso i pori l’autenticità del gioco del calcio, ormai deturpato, snaturato, trasformato in competizione dura, lotta per la sopravvivenza. Una sfida che soverchia le regole e che infanga anche gli animi dei ragazzi, ancora dotati di un frammento di purezza. E allora la linea bianca che separa l’adolescenza dall’età adulta viene acciaccata, calpestata, mentre altre linee, più marcate e indelebili, vengono tracciate. Mastino, il giovane senza talento, è costretto ancora una volta a rimanere in panchina, escluso dal gioco, escluso dai compagni, relegato al margine del campo e della vita in attesa del suo momento. Le catene dell’inettitudine lo inchiodano al sedile di legno, le stesse, forse, che immobilizzano il suo allenatore, incapace di compiere un passo verso i propri allievi, di attraversare la linea bianca senza calpestarla.

Lo spettacolo fa parte de “La trilogia dell’inettitudine. In punta di piedi, la spallata, fragile show”, pubblicato dalla casa editrice Titivillus.

“In punta di piedi” rimarrà al Teatro dell’Orologio fino al 20 marzo.

Siamo tutti buoni, di Andrea Bizzarri

Se si solleva un lembo del tappeto, cosa si trova? E se si alza tutto il tappeto? È quello che “Siamo tutti buoni”, commedia amara al suo debutto al Teatro dell’Orologio, cerca di svelare.

Scritto e diretto dal giovane Andrea Bizzarri, lo spettacolo è la discesa in un limbo che aspira al paradiso ma che puzza di inferno, è la vita polverosa di chi nella polvere è stato gettato ma soprattutto di chi vi si è gettato.
Un garage sotterraneo accoglie un coacervo di dialetti e umanità, la sporcizia si accumula con il passare delle battute e con essa pregiudizi e stereotipi, che scrostano la patina di perbenismo mettendo a nudo le piaghe dell’ignoranza e una società che brulica nel buio. E infatti la luce è l’elemento più precario. Va, viene, è fioca, non illumina pienamente i personaggi e getta ombre profonde su di essi, marcandone il carattere, trasformandoli in topi incapaci di vivere in pieno giorno. Quel buco umido è la casa di Elèna (Alida Sacoor), giovane immigrata dalla Romania in cerca di una vita migliore, ma è anche rifugio del suo locatore, don Vincenzo (Antonio Conte), i cui tentacoli si fanno largo nel mondo della criminalità. A gravitare intorno a loro altri piccoli pianeti, che hanno abbandonato l’orbita attorno al Sole per sceglierne una più lontana, che scava nelle profondità del suolo e trascina con sé peccati e peccatori. L’equilibrio precario viene rotto da un imprevisto e allora il baratro si rivela nella sua interezza, lambendo i piedi dei protagonisti e degli spettatori.

“Siamo tutti buoni” non sceglie il buono e il cattivo di turno; i giochi di potere, i sotterfugi e le piccolezze appartengono in un modo o nell’altro a tutti, ma nel garage buio è proprio Elèna, discriminata tanto da essere etichettata come ‘bestia’ e spersonalizzata dal fatto che nessuno ricordi il suo nome, a emergere dalla melma e tendere la mano alla normalità, a una felicità che non arriva.

La compagnia Readarto lavora bene, ma su tutti, oltre ad Antonio Conte, spicca la brillante attrice italo inglese Alida Sacoor, che recita con un credibilissimo accento romeno e si muove con naturalezza sul palco-garage. “Siamo tutti buoni” è lo sguardo originale e disincantato sui ‘quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi’ e, potremmo aggiungere, dove i suoi abitanti non li cercano nemmeno.

In scena, al fianco di Antonio Conte e Alida Salicoor, Matteo Montaperto, Riccardo Giacomini, Valerio di Tella e Guido Goitre. Lo spettacolo sarà in scena al Teatro dell’Orologio fino al 13 marzo.

Hitchcock – A Love Story, di Leonardo Ferrari Carissimi

Il teatro è pieno, freme e applaude. Gli spettatori sono accorsi in massa al Teatro dell’Orologio di Roma, attirati dal richiamo ipnotico del maestro del brivido e da una possibile declinazione in rosa delle sue opere nere. Dalla prima di ottobre alle repliche straordinarie di febbraio, Roma attende trepidante l’ultima messa in scena di una delle commedie più brillanti della stagione. Il sipario si apre sul camerino di un teatro, buio come i pensieri degli attori, pronti a entrare in scena per un provino per uno spettacolo teatrale dedicato alla filmografia del maestro del brivido, Alfred Hitchcock: il sogno di una vita per qualsiasi attore e cinefilo che si rispetti.

Lui, Andrea, si pavoneggia in una nuvola di profumo per esorcizzare il terrore di confrontarsi con i grandi attori del passato, ma in fondo al cuore sa bene di essere il migliore attore sulla piazza contemporanea e di sicuro più affascinante di Cary Grant, James Stewart e Anthony Perkins messi insieme. Lei, Lisa, è impeccabile nel suo costume anni ’50, sa di essere bella da far paura come Grace Kelly, ma teme che a far rabbrividire sia soltanto la sua recitazione. È il loro turno. Lui è teso come una corda di violino, lei sa giù che passerà il provino nonostante il suo scarso talento.

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Qui inizia la loro love story o per meglio dire il dramma umano di due attori sull’orlo di una crisi di nervi, che non sanno più cosa inventarsi per rispondere alle esigenze di un teatro contemporaneo che si impone la povertà degli arredi scenici per far spazio all’energia, all’interazione con gli spettatori e all’abbattimento della finzione in favore della verisimiglianza. La decostruzione del teatro classico è diventata la nuova costruzione, il nuovo copione da seguire per rientrare nei gusti di un pubblico sempre in cerca di nuovi linguaggi espressivi, e di una critica annoiata, che esalta la sperimentazione e stronca senza pietà la leggerezza. Lisa e Andrea sono due piccoli ingranaggi di questo meccanismo perverso, costretti ad adattarsi al gusto predominante per sopravvivere, ma intimamente nostalgici di un’epoca scomparsa, elegante e perfetta nella sua compostezza.

La cinematografia Hitchcokiana è il loro paradiso perduto ed è proprio nelle trame dei film più famosi, come Caccia al ladro, Intrigo internazionale, Vertigo, Il Delitto Perfetto, Psycho, La finestra sul cortile e Gli uccelli, che si intesse la loro storia d’amore sfilacciata e il loro male di vivere il teatro contemporaneo. Alternando sul palco la storia privata di Lisa e Andrea, interpretati magnificamente da Anna Favella e Luca Mannocci, e quella dei personaggi hitchcockiani in un intrigo intelligente e ben calibrato tra dramma e comicità, Leonardo Ferrari Carissimi sviluppa un’azione scenica divertente ma profondamente critica verso il panorama teatrale contemporaneo, incancrenito in un’innovazione forzata e sminuito da una critica tracotante che svilisce i gusti del pubblico, attribuendo il successo di uno spettacolo all’inconsapevolezza degli spettatori. Oggi però il teatro è pieno, freme e applaude a ragione uno spettacolo brillante, pungente e divertente come non mai. Forse per una volta il pubblico ha ragione.

Antigone, di Filippo Gili

Antigone ha nel nome la parola ‘contrasto’. Nei fatti, la protagonista dell’omonima opera di Sofocle, in scena al Teatro dell’Orologio fino al 6 dicembre, si oppone alla logica delle leggi umane e tiranniche, alla razionalità cieca di un Creonte che vorrebbe imbrigliare la condotta di Tebe in logiche stringenti, asfissianti, per quanto ponderate, frutto della mente e non della pancia.

La ricerca di luce di Antigone, figlia della relazione incestuosa tra Edipo e sua madre Giocasta, scava in profondità il suo animo e quello di chi le è attorno, sviscera sentimenti celati dalla ragione, porta a galla il dubbio lì dove ci sono solo rigide certezze. Nel ventre di Antigone risiedono la deità e l’umana sorte, che sfidano l’ordine stabilito dallo zio con la tragicità di una giustizia dilaniante, viscerale, femminile. Creonte non accetta la ribellione della nipote non solo in quanto sfida la sua autorità e le sue regole, ma in quanto donna che interferisce con la politica, appannaggio maschile. La disubbidienza di Antigone agli occhi del re di Tebe ha i connotati della Ubris, la tracotanza, il peggiore dei peccati. Ma l’opera sofoclea pone in contrasto anche le generazioni.

Padre e figlio, Creonte ed Emone, si sfidano con la dialettica, con ragionamenti, ma il primo è accecato da una legalità sterile, arida come il suo rispetto per la divinità e l’umano destino, e preferisce privarsi della sua stessa carne piuttosto che cedere al senno giovanile. Nemmeno gli ammonimenti profetici dell’indovino Tiresia, non cieco come da tradizione ma paraplegico, può scalfire l’armatura di ottusità del re di Tebe. La tragedia, infine, si consuma tra sofferenze della mente e del cuore, tra pensiero e istinto, volontà e passione. Antigone, condannata al buio perenne di una grotta, preferisce cercare la luce nella morte e, trascinata in scena dal suo promesso sposo Emone, dormirà con lui un sonno eterno. A perire insieme ai due amanti è anche la ragione asettica e le regole senza radici di Creonte che, seduto nell’ombra, invoca per sé un destino uguale.

La drammaturgia di Filippo Gili, regista e protagonista, si compone di un’intimità che si propaga alla scena quasi vuota, sospesa tra buio e luce, rotta dalla veemenza degli attori, dall’impetuosità delle parole, dalla violenza del dramma senza tempo. La compagnia degli attori, poi, splende per sintonia e bravura. Antigone ha le palpebre pesanti e la voce roca di un’ottima Vanessa Scalera, Creonte ha la voce stentorea dello stesso Gili, i conciatori tebani, Alessandro Federico e Omar Sandrini, abbinano perfettamente la leggerezza dell’accento romagnolo alla profondità dei dialoghi. Accanto a loro sul palco del Teatro dell’Orologio Piergiorgio Bellocchio (Emone), Rosy Bonfiglio (Tiresia), Barbara Ronchi (Ismene), Matteo Quinzi (Guardia).

L’Âge mûr nié – Lettere di Camille Claudel, di Paolo Bignamini

Se si vanno e ripescare sul web le fotografie di Camille Claudel, non si può non notare il suo sguardo sfrontato ma screziato di tristezza, i suoi occhi lunghi che non temono lo spettatore e il mondo davanti a sé. Federica D’Angelo prova a riportare in vita quello sguardo, quel temperamento deciso e affatto imbrigliabile in schemi e volontà altrui nello spettacolo L’ÂGE MÛR NIÉ- Lettere di Camille Claudel, in scena al Teatro dell’Orologio. Musa di Rodin e sua amante, Camille è innanzitutto scultrice potente, che plasma il suo tormento interiore, la sua tempesta del cuore in forme mai statiche, sempre in movimento come la sua anime e le sue idee. Il titolo dello spettacolo, L’ÂGE MÛR, trae il nome proprio da un’opera di Camille, un gruppo scultoreo che celebra il dolore dell’artista per la fine del rapporto con Rodin, portato via da un’amante. Nel volto della donna implorante, altri non c’è che il viso affranto di Camille.

La scena nella sala Gassman del Teatro dell’Orologio è buia, nera e vuota come la cella dell’ospedale psichiatrico in cui è stata rinchiusa l’artista per trentun anni. A fendere le tenebre del dolore, otto led sospesi a diverse altezze, ricordi che galleggiano nella memoria e che tengono in vita l’anima, più lucida di quello che gli altri vorrebbero. Federica D’Angelo raccoglie senza esitazione quei frammenti di esistenza, quelle tracce del mondo precedente l’internamento, quelle date che ne hanno intessuto la vita di gioia e dolore e li intreccia ai suoi capelli come una corona splendente, come serpenti luminosi di una Medusa temuta e schivata. Ciò che le lettere e i ricordi ricostruiscono non è follia pura, ma passione, ferocia, ironia, determinazione. Un abito che Camille indossa con orgoglio fino alla fine dei suoi giorni, consapevole che questo la renda un personaggio scomodo, fuori le righe, sacrificabile. Lo spettacolo L’ÂGE MÛR NIÉ- Lettere di Camille Claudel è una produzione ScenAperta Altomilanese Teatri, scritto dalla professoressa di estetica Maddalena Mazzocut-Mis e si avvale della collaborazione dell’Università degli studi di Milano.

La strega, di Laura Sicignano

Per la V edizione del Festival Inventaria, il Teatro dell’Orologio ha ospitato il Teatro Cargo di Genova. Sul palco si muovono superstizione e paura, parlano odio e rabbia ne “La strega”, un’opera di Laura Sicignano tratta dal romanzo di Luca Vassalli “La chimera”. Nel XVII secolo l’inquisizione non è ancora un ricordo, il peccato si paga, l’ignoranza brucia fino a consumare le ossa e l’anima.

Recensione di Manuel Porretta

Una corona di mele e candele bianche sono l’enclave magico in cui l’intero spettacolo prende forma. A disporle è una narratrice dalla camiciola bianca, dalla lunga gonna rossa e un medaglione sul petto. La sala Gassman del Teatro dell’Orologio diventa una stalla, una vecchia casupola in cui una vicenda ancora più antica viene rievocata. È la storia di Antonia, neonata abbandonata in una fredda giornata di gennaio davanti alla Casa della Carità di Novara. Ma di carità, nella sua vita, Antonia ne riceverà ben poca. Nel convento dove cresce come esposta è vittima per la prima volta del peccato più grave che possa commettere: la bellezza. Se lo trascina dietro come un lungo strascico, che raccoglie occhiate lascive, sguardi di invidia e disapprovazione, pettegolezzi e odio, come fossero foglie secche e marcite. È una colpa che cresce con l’età, che prende la forma di due grandi occhi neri e ricci ribelli e si concretizza nel dipinto sacro in cui Antonia è il volto e il corpo della Madonna. E non può essere acconsentito che la madre di Cristo sia così bella, che ispiri così tanti pensieri incontrollabili. Quella bellezza è innaturale, è un dono demoniaco, Antonia è senza dubbio una strega. Le chiacchiere diventano maldicenze e le maldicenze diventano calunnie e infine prove di colpevolezza. Antonia si unisce al diavolo, fascina uomini e donne, compie sabba sotto il grande castagno. L’inquisizione è la paura che brucia, è il pregiudizio che arde di livore e ignoranza e Antonia è uno dei pesci tra le maglie strette della rete di odio e superstizione che la Chiesa getta nel mare dei peccatori.

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Lo spettacolo La strega ha decine di volti e decine di voci, ma un’unica attrice: Fiammetta Bellone. Suore, risaroli, camminanti, briganti, preti e comari si alternano in rapida successione, si intersecano al racconto della narratrice, ai suoi occhi rabbiosi e alla bocca arricciata in disgusto per ciò che non vuole tacere. Lo sguardo non fugge, si posa sullo spettatore e attende quasi che ceda, che subisca anch’esso il peso della responsabilità, che non si senta immune dalla colpa. Perché sono proprio il pregiudizio e la paura ad essere messi sotto processo, è un Dio lontano che viene condannato, è il nostro voltarci dall’altra parte ad essere additato. Siamo noi che ci commuoviamo per Antonia, ma siamo sempre noi ad appiccare il rogo che divora chi è diverso.

Dieci, di Elena Dragonetti

Lo spettacolo Dieci è stato il protagonista della nona serata del Festival Inventaria, portato sul palco del Teatro dell’Orologio da Elena Dragonetti per una produzione Narramondo e Teatro Altrove. Nato dall’opera omonima di Andrej Longo, Dieci fa vivere altrettanti personaggi, che si raccontano attraverso monologhi e drammi. Il disegno finale è l’universo denso e policromo dei vicoli napoletani, attraverso cui palpita una vita ferita.

Recensione di Manuel Porretta

Napoli è città particolare e realtà universale. È un dedalo di vicoli, stradine e storie al limite che riscrivono i dieci comandamenti cancellando la firma di Dio e imprimendo su di essi un segno riconoscibile e inconfondibilmente umano. Dieci è il titolo dello spettacolo portato in scena da Elena Dragonetti al Teatro dell’Orologio e firmato insieme a Raffaella Tagliabue, che si è nutrito di crowdfunding per vedere la luce. Dieci come i monologhi, come i protagonisti, come i drammi quotidiani. Dieci ferite, dieci cicatrici dell’animo umano. Dio è troppo lontano per accorgersi della vita che brulica nel dedalo di viuzze, che fatica e pena lontano dal suo sole. A sostituirlo è la camorra, la violenza, il dolore, gli abusi, i cui raggi si insinuano ovunque, tra le fessure delle finestre chiuse, sotto l’uscio di un portone buio. Oltre c’è il nulla, solo catene difficili da spezzare. Eppure nel dramma umano non manca la luce, un lucore puro che riesce a scaturire dalle profondità dell’anima. I vicoli vengono inondati dal buio che scortica la vita, che la abrade fino a farla sanguinare, ma la poesia, l’ironia, la tenerezza che emergono inaspettati, riescono ancora a bendare le ferite, a renderle sopportabili. Ogni monologo è intitolato ad un comandamento, ma il richiamo ad essi non è sempre visibile, non è palese. E allora deve essere l’occhio critico dello spettatore ad insinuarsi tra le pieghe e le piaghe della vita e a portare a galla quel legame che sembra reciso. La fatica di vivere genera sopportazione, spinge alla sopravvivenza, adatta il corpo e la mente ad una realtà difficile. È solo così che i personaggi riescono a trasferire le tragedie e i drammi nel cerchio ampio e labile della normalità. Ed è proprio questo, forse, che sgomenta di più.