Christoph Waltz

Downsizing – Vivere alla grande, di Alexander Payne

E se la soluzione ai più grandi problemi dell’umanità fosse rimpicciolire l’uomo?

È la tesi portata avanti da Downsizing – Vivere alla grande, il film che ha aperto il Festival di Venezia 2017. Il regista, Alexander Payne, stavolta tira di molto su l’asticella e punta a modernizzare il concetto stesso di commedia innestando ad un plot che parte da un presupposto fantascientifico una ramificazione di riflessioni su concetti che vanno dal concreto materialismo alla filosofica ricerca della felicità, dall’ironia della sorte al sottile confine tra volontà e possibilità.
«La porta per la felicità si apre verso l’esterno».

Payne è stato autore di grandi successi di critica come A proposito di Schmidt, Election, Citizen Ruth o Nebraska, il più recente, che gli è valso la nomination come miglior regia agli Oscar® 2014. Come sceneggiatore invece l’Oscar® l’ha ottenuto: nel 2012 e nel 2005 per le sceneggiature rispettivamente di Paradiso amaro (The descendants) e Sideways – In viaggio con Jack.
«Rimpiccioliscono le persone, vanno su Marte, ma non sanno curare la mia fibromialgia».

Uno scienziato norvegese trova il modo di ridurre la massa cellulare degli organismi viventi. Questa già enorme scoperta scientifica diventa ancora più significativa quando 36 volontari decidono di sperimentare la vita da un altro punto di vista. Rimpicciolire l’uomo diventa quindi un modo per rimediare in una botta sola a sovrappopolazione, inquinamento, crisi economica e sfruttamento delle risorse energetiche. Questa «sostenibilità a misura d’uomo» giunge all’orecchio di Paul e Audrey Safranek.
Paul [Matt Damon, Sopravvissuto – The Martian, The Zero theorem, The Great Wall] è quello che si sarebbe potuto definire “un piccolo uomo”, senza grandi ambizioni, «tendente al patetico», con un lavoro che ama, ma che non gli fornisce né prestigio né guadagni considerevoli, mentre Audrey [Kristen Wiig, I sogni segreti di Walter Mitty, Sopravvissuto – The Martian, Ghostbusters], invece, vuol fare le cose in grande, ha progetti ambiziosi, fra cui la casa dei sogni che, però, mal si abbina al loro tenore di vita.
Quando scoprono da una coppia di amici già sottoposti al trattamento, i Lonowski, che con il loro misero reddito nelle nuove metropoli possono campare di rendita e permettersi lussi da arcimilionari, i coniugi Safranek decidono di miniaturizzarsi, ma all’alba della loro nuova esperienza dire che qualcosa va storto è un eufemismo (che poi sarebbe minimizzare!).
«Riduciti al minimo. Ottieni il massimo».

Il premio Oscar® Christoph Waltz [Bastardi senza gloria, Django Unchained, The Zero theorem] ha volentieri aderito al progetto ambizioso di Downsizing – Vivere alla grande e interpreta Dušan Mirkovic, il nuovo vicino di Paul nella minimetropoli di Leisureland. Insieme a lui in scena ritroviamo quasi sempre una vecchia gloria del cinema, il caratterista Udo Kier, conoscenza comune di Lars Von Trier e Dario Argento. I già citati coniugi Lonowski sono interpretati da Jason Sudeikis [Come ti spaccio la famiglia, Race – Il colore della vittoria] e Laura Dern [Jurassic Park, The founder]. Solo un breve cammeo, invece, per Neil Patrick Harris, noto per aver preso parte alla serie tv How I met your mother, ma più di recente per essere il nuovo volto del Conte Olaf nella nuova versione di Una serie di sfortunati eventi su Netflix, e per James Van Der Beek, il Dawson Leery della serie tv Dawson’s creek.
Chi ricava il massimo dalla sua partecipazione dal nuovo film di Alexander Payne è Hong Chau [Vizio di forma]: l’attrice di origini thailandesi è candidata con merito a numerosi premi tra cui spicca il Golden Globe 2018 come miglior attrice non protagonista.

Le riflessioni che scaturiscono dalla visione di Downsizing – Vivere alla grande sono tantissime e l’effetto domino dei ragionamenti mantiene costante la soglia dell’attenzione dello spettatore che vive un’avventura cinematografica continuamente sospesa tra la commedia e il dramma sentimentale in un contesto fantascientifico che presenta risvolti romantici di natura squisitamente umanitaria. Quando il personaggio di Matt Damon si miniaturizza è costretto a “riciclarsi” e si trova a guardare il mondo che lo circonda da un’altra prospettiva, ma a cambiare maggiormente è il suo modo di percepire sé stesso e i rapporti con gli altri.


Per compiere imprese grandiose non serve essere un grande uomo, 12 centimetri sono più che sufficienti! questa è il primo messaggio che passa costante nella visione del film. Che la felicità sia nelle piccole cose, quelle di ogni giorno, è una seconda morale, magari all’apparenza anche scontata, che s’intreccia alla forza dei piccoli gesti, quelli che, si sa, sono capaci di accendere sorrisi splendenti in chi rappresenta il gradino più basso della scala sociale. Questo sì che è un risvolto davvero inaspettato, che quasi fa ombra alle mille trovate scenografiche della clinica miniaturizzante e di Leisureland, trovate che riecheggiano i surreali prodotti della fantasia di Terry Gilliam, ma che sostituiscono al gusto retro di quella fantascienza un’estetica nitida e pulita da film classico americano che colma il gap tra finzione e realtà. Probabilmente la scelta di non calcare la mano, di non andare mai sopra le righe né con la fotografia né con un editing maggiormente accattivante e nemmeno con effetti speciali più sbalorditivi serve a non distrarre dalle riflessioni, che rappresentano il vero obiettivo di Downsizing – Vivere alla grande. Il pelo nell’uovo: un pizzico in più di ironia e sarcasmo lo avrebbe reso un piccolo grande capolavoro, ma comunque resta un film da vedere, assolutamente.

The Zero Theorem, di Terry Gilliam

Se ne potrebbero scrivere di tesi su The Zero Theorem! E ognuna metterebbe l’accento su di una peculiarità diversa del film, ognuna avrebbe probabilmente un enunciato sorprendente e potrebbe toccare materie che vanno dalla semiotica all’antropologia, dall’estetica alla filosofia del linguaggio, dall’ontologia alla teologia. Si può partire dalla filmografia del geniale Terry Gilliam e cercare i fili rossi che interconnettono le sue opere o si possono evidenziare tratti comuni e differenze con altri registi che hanno trattato l’argomento “senso della vita” secondo stili e modalità “completamente differenti”.

«È tutta una questione di fili… Non puoi fare niente se sei disconnesso».

Fin da subito The Zero Theorem appare come un rebus da risolvere, un dedalo sofisticato che affascina e che non dà possibilità di distrazione, un enigma che, se non si osserva con attenzione, potrebbe sfuggire di mano ed essere travisato.

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Bellissimo trip mentale, criptico come nessun altro Gilliam. Non si poteva scrivere una recensione a caldo, di getto, senza rielaborare come in un sogno. Siamo ai livelli di The mountain, il capolavoro di Aronofsky, il che potrebbe essere un monito per i molti che non l’hanno capito! Sin dai primi passi del protagonista nel mondo in cui vive, la sensazione che si ha è di trovarsi catapultati in un Brazil variopinto e straniante, ma molto maturo, la naturale evoluzione di quel sogno premonitore, una sorta di pazzia lucida che si fa rivelatrice di verità assolute.

Dall’incipit, con un preciso movimento di macchina che asseconda il moto di rotazione di un buco nero, sino ai titoli di coda, che seguono un finale bellissimo e indimenticabile, a cui va aggiunto il significativo epilogo oltre i titoli di coda, lo spettatore è immerso in un mondo solo all’apparenza distopico, ma che è invece simulacro della nostra realtà, allegoria di uno status sociale che potrebbe verificarsi, satira a tratti anche feroce di una generazione che sta perdendo il contatto con la realtà che gli sta veramente intorno per immergersi in una tecnologia che solo in parte, e a volte solo apparentemente, risponde all’innato bisogno di vivere in società.

Ad una festa, tipicamente fonte di socializzazione, l'unico che fa conversazione è l'asociale Qohen, mentre tutti sono "socialmente" impegnati a ballare con i loro dispositivi mobili
Ad una festa, tipicamente fonte di socializzazione, l’unico che fa conversazione è l’asociale Qohen, mentre tutti sono “socialmente” impegnati a ballare con i loro dispositivi mobili

«Viviamo in un mondo caotico e confuso. Così tante scelte. Così poco tempo. Di che abbiamo bisogno? Chi dobbiamo amare? Cosa ci regala gioia? Mancom. Diamo senso alle cose belle della vita. “Società senza confini”».

Gli elementi della sfera onirica portano lo spettatore a pensare all’ennesima “sorpresa” da stato alterato di coscienza, ma invece Gilliam si diverte a giocare con le nostre aspettative, ci mette lì dei “MacGuffin” da seguire mentre ci porta per mano verso riflessioni sulla vita, la morte, l’effimero, la fede in qualcosa che dia senso ad un’esistenza, che si tratti di numeri o di qualcosa di soprannaturale. Siamo tutti espedienti narrativi come il “MacGuffin”, di irrilevante importanza ai fini della comprensione dell’universo, ma pura distrazione per fornire dinamicità alla storia del mondo? O siamo strumenti di un grande progetto pronti a rispondere ad una chiamata che ci dia l’istruzione per un twist meraviglioso quanto inaspettato, la stessa chiamata che ossessiona il protagonista di The Zero Theorem: Qohen Leth [intepretato dal due volte premio Oscar® Christoph Waltz]? Un’ulteriore visione fatalistica è veicolata dal responso di un medico della Divisione Patologica, interpellata dal protagonista che ha una sensazione di morte imminente, tipica dei soggetti che, come lui, hanno mille paure, crisi di panico e non hanno più memoria di momenti felici: «Non sta morendo. Anche se dal momento della nascita corriamo tutti verso la morte. La chiami… Il piano divino dell’obsolescenza. Prima o poi, mendicante o re, la morte è la fine di tutto. La vita potrebbe esser vista come un virus che infetta un organismo perfetto fino alla morte».

La Rete Neuronale Mancrive ha, non a caso, una struttura molto simile al monastero tibetano dove abitava Parnassus fino al momento della scommessa con il Diavolo
La Rete Neuronale Mancrive ha, non a caso, una struttura molto simile al monastero tibetano dove abitava Parnassus fino al momento della scommessa con il Diavolo

Gilliam trionfa laddove gli allora fratelli Wachowski, ora felicemente sorelle, hanno fallito con la trilogia di Matrix: le loro scivolate nell’autocompiacimento delle citazioni carrolliane, gli estenuanti combattimenti coreografici allungati a dismisura da rallenty insistiti ed il legame con Akira, il capolavoro di Katsuhiro Otomo, prezioso riferimento quanto impedimento ad una creatività effettivamente originale. Dentro la matrice, come dentro lo specchio, la realtà dietro la menzogna, l’inevitabile fede in qualcosa di trascendente e l’illusione di trovare le risposte, la ricerca di una verità che diventa conoscenza di sé, come sentenziava l’Oracolo di Delphi, e la volontà dell’uomo di andare oltre i suoi limiti e di lottare per ottenere la felicità meritata. Tutto questo è alla base di The Zero Theorem, o meglio del racconto breve The call [“la chiamata”], scritto nel 1999 da Pat Ruskin, un insegnante di scrittura creativa alla University of Central Florida, liberamente ispiratosi al Qoelet o Libro degli Ecclesiasti, sezione della Bibbia che verte sul lamento di un uomo che ha trascorso tutta l’esistenza a porsi domande sulla vita, sul suo senso, su cosa rappresenta morire e su quanto possa esserci dopo la morte. Il Libro degli Ecclesiasti in ebraico è Qohèlet, dal nome del presunto autore, sulla cui falsariga è stato ideato il nome del protagonista del film, che fornisce una prima chiave di lettura dell’opera. Un’altra evidente traccia per la soluzione dell’enigma è data dal reiterato ascolto di una canzone: si tratta di Creep dei Radiohead, il cui testo si fa portavoce della coscienza di Qohen Leth e la spiegazione-riassunto della trama principale, lasciando allo spettatore il compito di interpretare chi sia l’“angelo” e chi, nel film, sia veramente l’essere “alienato” [weirdo] e “repellente” [creep] di cui si parla.

«Attento a ciò che desideri».

I forti contrasti degli elementi scenici comunicano il divario tra mondi interiori e volontà nettamente diverse. Un richiamo a Blade Runner?
I forti contrasti degli elementi scenici comunicano il divario tra mondi interiori e volontà nettamente diverse. Un richiamo a Blade Runner?

Qohen Leth [Christoph Waltz] è un operatore di computer di enorme talento, che lavora per la Mancom, una corporazione che controlla il mondo caotico e opprimente dell’ “uomo comune” per vendergli prodotti di cui probabilmente non avrebbe bisogno. Qohen è «il più produttivo degli analisti numerici della Divisione Ricerca Ontologica» che lavora «con dati esoterici che hanno vita propria e sono sostanzialmente più complicati dei numeri». Superato questo scoglio-macguffin che introduce il setting in cui opereranno i personaggi, lo spettatore può sentirsi “libero” di immedesimarsi nelle riflessioni del protagonista, un eccentrico uomo completamente calvo, che fugge ogni relazione sociale non necessaria e vive quasi completamente isolato e in maniera spartana in una chiesa andata semidistrutta in un incendio e rivenduta da una compagnia di assicurazioni. Tutto intorno a lui gli è alieno e lo fa sentire inadatto, fuoriposto, come il suo guardaroba smorto in un mondo in technicolor. A tal punto è preda di angosce esistenziali, paure ingiustificate, crisi di identità, panico e sensazione di morte imminente – drammi che sono tristemente diffusi già nel nostro presente ipertecnologico e ipersociale – che diventa ossessionato dall’attesa di una telefonata che possa dare un senso alla sua vita.

«La natura o l’origine della telefonata rimane un mistero. Ma non possiamo non sperare che ci fornirà uno scopo, dopo aver a lungo vissuto senza».

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Vista la sua richiesta di svolgere un lavoro da casa, la Direzione [Matt Damon] della Mancom, gli assegna l’arduo compito di dimostrare il Teorema Zero, un vero rompicapo che sembra voglia portarlo a pensare che nulla abbia senso nell’universo e che, quindi, qualsiasi sforzo dell’uomo di cambiare la sua situazione di base sia vano, pura illusione, un palliativo che tenga occupati nel lasso di tempo che separa la nascita dalla morte. Ma se Qohen non fosse un uomo comune? Se fosse la volontà che rende Qohen diverso dagli altri, ad essere lo strumento giusto per uscire da una gabbia dorata in cui tutti sono strumenti di un progetto che in realtà non è che un loop da cui non è permesso uscire, se non drasticamente? Sentimenti forti come l’amore e l’amicizia possono essere ancora il motore che possa innescare quel processo di cambiamento volontario di cui si ha bisogno per rompere le catene che costringono l’uomo comune a vivere come topi in trappola? Qohen è «solo un altro sballato in un mondo di sballati» come si dice in Paura e delirio a Las Vegas o, alla fine di tutto, come ne Le avventure del Barone di Munchausen, «tutti coloro che ne avevano la capacità e il talento vissero felici e contenti»?

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«Annoiato dal buddismo? Stanco di Scientology? Allora la Chiesa del Batman redentore è la risposta!».

Per quanto riguarda le sottotrame, zeppe di allusioni più o meno esplicite (la distruzione dei dogmi classici e il cieco abbandono ad una qualsiasi fede possibile, compresa quella di un “Batman redentore” e la sostituzione dell’occhio divino con l’occhio scrutatore della telecamera di sorveglianza di matrice orwelliana) e figure retoriche molto significative (ad esempio, i topi, che rappresentano allegoricamente la condizione dell’uomo, recluso e in trappola, o la significativa ostinazione di due bambine di far volare un aquilone non aerodinamico), bisogna invece fare ricorso all’esperienza pregressa della filmologia di Terry Gilliam. Sono di nuovo presenti alcune tematiche care al visionario regista di Minneapolis: la satira sociale, sempre presente, in maniera più o meno intrinseca a seconda delle situazioni – innescata in tempi non sospetti dai Monty Python in forma di pesci ne Il senso della vita; la distorsione della realtà, che porta i personaggi a vivere avventure in un mondo che è diverso da quello reale e che spesso è frutto di un’alterazione di coscienza dei personaggi stessi come in Tideland, La leggenda del Re Pescatore o L’esercito delle 12 scimmie; l’eterna lotta tra il Bene e il Male vissuta in Parnassus, Time bandits, Jabberwocky, I fratelli Grimm, mentre ci si domanda dove iniziano l’illusione e il sogno e dove inizia la realtà, come in Brazil, ma in verità ovunque in Gilliam, anche nel The man who killed Don Quixote, le cui riprese inizieranno nell’ottobre 2016, finalmente.

«Il tuo stile di vita e’ la nostra priorità».

Come in Brazil si può notare un ciuccio tra gli arnesi del dottore in una delle scene finali, in The Zero Theorem è presente un altro elemento della sfera infantile: un biberon pieno di caramelle
Come in Brazil si può notare un ciuccio tra gli arnesi del dottore in una delle scene finali, in The Zero Theorem è presente un altro elemento della sfera infantile: un biberon pieno di caramelle

«I tuoi sogni sono i nostri sogni».

Girato interamente a Bucarest, con la Arricam Lite in 35 mm poi reso digitale in formato full screen da monitor di controllo, cioè con un’aspect ratio panoramica dagli angoli smussati, che suggeriscono un’artificiosità significativa all’immagine definitiva per l’intera durata del film [vedi epilogo], The Zero Theorem è ambientato in un futuro contaminato da elementi retro, in un non-luogo che va a rappresentare ogni possibile luogo in cui è presente l’umana specie e si fa strumento di meditazioni di carattere universale.

«Sono solo un uomo alla ricerca della verità».

L'insegna "Eats" è un chiaro riferimento a Lewis Carroll
L’insegna “Eats” è un chiaro riferimento a Lewis Carroll

The Zero Theorem è un’opera che farà discutere, cha ha bisogno di un pubblico che sappia sospendere il giudizio e abbia la pazienza di riflettere a posteriori. È un film che può dividere l’opinione pubblica, che può piacere o non piacere, ma chi lo valuterà subito in maniera negativa probabilmente è solo perché non lo ha capito.

«Hai mai avuto la sensazione che il mondo ti rida alle spalle? Che tutti nell’universo facciano parte di un grosso scherzo cosmico?  Tutti tranne te. L’unica ragione per cui non ridi è perché sei la battuta finale».

Una, nessuna e centomila interpretazioni, insomma, e la presente non ha pretese di ergersi a definitiva, in quanto molti spunti rimangono fuori dal discorso per necessità di sintesi e, comunque, l’ultima parola spetterebbe sempre all’autore che, come ci ha insegnato, dopo averlo incontrato in occasione dell’uscita di Parnassus, mischierebbe le carte perché, in fondo, un film è longevo se lascia spazio ad ulteriori riflessioni e, in questo caso, credetemi, potrebbe essere infinita, come l’universo… o forse no?

«Una taglia non va bene a tutti».

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The legend of Tarzan – Trailer e poster italiano ufficiale

«La giungla consuma tutto. Prende di mira i vecchi, gli infermi, i feriti. Prende di mira i deboli ma mai i forti!»

THE LEGEND OF TARZAN di David Yates sarà nelle sale italiane a luglio 2016 in 2D e 3D. Ecco il poster italiano ufficiale.

Dopo aver considerato Henry Cavill, Tom Hardy, Charlie Hunnam e nientepopodimenoché il campione olimpico di nuoto Michael Phelps per il ruolo di Tarzan ha avuto la meglio Alexander Skarsgård già apprezzato in Melancholia e Battleship e vincitore del Best Villain agli Scream Awards 2009 per il suo ruolo nella serie True Blood. L’attore ha trascorso quattro mesi in ritiro senza vedere parenti e amici, costruendo un fisico che è muscolare senza appesantire la corporatura.

Girato nel Congo e a Londra, il film può fregiarsi di un cast d’eccezione che, oltre a Djimon Hounsou, Margot Robbie e John Hurt, presenta la terribile coppia Christoph Waltz e Samuel L. Jackson di nuovo insieme dopo il successo di Django Unchained.

Questo nuovo progetto cinematografico della Warner Bros è dichiaratamente basato sulla trasposizione a fumetti targata Dark Horse Comics dell’opera di Edgar Rice Burroughs. Tutti ingredienti che promettono spettacolo. Godiamoci l’attesa con un ampio trailer.

 

Big Eyes, di Tim Burton

Margaret Keane, la creatrice dei bambini dagli occhi grandi, che negli anni Sessanta tappezzavano tutte le case d’America, ora vive in California e all’età di ottantasette anni continua a dipingere ogni giorno. Sono lontani tempi della guerra legale contro il marito Walter, che per anni si era accaparrato tutti i diritti sulla paternità delle sue opere. Margaret era l’artista, l’unica nella famiglia Keane in grado di distinguere tra un acquerello e un olio e l’unica in grado di trasmettere la sua angoscia attraverso gli occhioni tristi delle sue creature, ma difficilmente usciva dalla sua stanza per mostrarsi in pubblico, lasciando al carismatico marito il compito di pubblicizzare le sue opere. Walter era il volto ufficiale della loro arte, l’uomo immagine di una piccola impresa familiare, che negli anni Sessanta precorreva i tempi dell’arte a basso costo.

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I quadri firmati Keane erano amatissimi dal pubblico, ma duramente attaccati dalla critica, che li considerava kitsch e dozzinali e per questo non gli lasciava spazio nelle gallerie d’arte, così il brillante Mr Keane aveva deciso di promuovere autonomamente la sua arte e di diffonderla in modo capillare in tutta san Francisco ad un prezzo abbordabile, dai bagni dei Jazz Club alle riproduzioni su carta, in vendita per pochi spiccioli anche nei supermercati. L’aura dei quadri dipinti da Margaret svaniva nelle loro infinite riproduzioni e con essa il loro valore emotivo, fatto a pezzi dal ghigno di Walter Keane che si dichiarava spudoratamente l’autore di tutti i bambini dagli occhi grandi e inventava storie improbabili sulla loro genesi per attirare l’attenzione del pubblico. Tutti volevano un Keane in casa, che fosse una tela originale o una cartolina, e la loro fortuna economica cresceva esponenzialmente con le vendite di massa. Ma il peso dell’enorme bugia che stavano raccontando da oltre vent’anni si faceva sempre più pesante sulle spalle di Margaret, fino a che un giorno, tormentata dalle visioni e dalla frustrazione, è fuggita alle Hawaii e ha trovato il coraggio di raccontare al mondo tutta la verità sui Keane.

 

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Le villette a schiera della periferia di San Francisco, illuminate da un sole pieno e con i giardini curati come opere d’arte, sono l’immagine perfetta dell’ipocrisia, la copertina immacolata di una schiera di famiglie corrotte dall’infelicità. In questo paradiso urbano Walter e Margaret Keane incarnano alla perfezione il volto di un’epoca in cui l’uomo tiene le redini della famiglia, prende tutte le decisioni importanti, ed è considerato un pittore più affidabile di una donna, capace soltanto di sfornare torte e di sfoggiare acconciature permanentemente impeccabili. L’orrore è dietro la porta di casa, non fuori, e Tim Burton rappresenta il contrasto tra realtà e apparenza tratteggiando questo mondo paradossale con le pennellate brillanti delle cartoline d’epoca, senza cedere neanche una volta alla tentazione di usare delle tonalità cupe che lo contraddistinguono.

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Il paradiso della classe borghese è il nuovo orrore, e Burton sceglie coraggiosamente di rappresentarlo con un tratto pop che a prima vista sembra estraneo al suo stile, ma che ad un’occhiata più attenta lascia intravedere la compostezza delle villette a schiera di Edward mani di forbice e i colori caldi di Big Fish, anche se ad eccezione di poche, brevi sequenze in questo universo non ci sono elementi fantastici. Burton si attiene strettamente al realismo dei fatti, sebbene i bambini dagli occhi grandi abbiano in sé un enorme potenziale perturbante, e sorprendentemente sembra più attratto dal dramma intimo di Margaret Keane che dalle creature inquietanti che prendono vita dal suo pennello. Le creature più bizzarre che si dibattono sulla scena stavolta sono gli uomini stessi, fantocci vuoti dai tratti caricaturali, che si comportano in modo grottesco come Walter Keane (Christoph Waltz) che domina incontrastato, relegando la più sommessa Magaret (Amy Adams) tra le mura di casa con il tacito sostegno di una società maschilista, che attribuisce un valore artistico maggiore a una cartolina a basso costo che alla pennellata di una donna.

Big Eyes di Tim Burton: al cinema il giorno di Natale

Big Eyes, il biopic diretto da Tim Burton che racconta la storia della coppia di artisti Margaret e Walter Keane, famosi negli anni Sessanta per i loro “bambini dagli occhi enormi”, arriverà nei cinema americani il prossimo 25 dicembre. Ad interpretare i coniugi Keane saranno Amy Adams e Christoph Waltz.

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Il film segue da vicino il rapporto conflittuale tra Margaret Keane (Amy Adams) e suo marito Walter (Christoph Waltz),  che si autoproclamava autore dei famosi dipinti che ritraevano i bambini dagli occhi grandi, realizzati in realtà dalla moglie. Le loro opere alla fine degli anni Cinquanta erano al culmine del successo, e il film si concentra proprio sul momento in cui Margaret rivendica la propria indipendenza dal marito come artista e come donna,  dimostrando in tribunale di essere la vera autrice dei dipinti per cui Walter rivendicava i diritti.

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