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Crudelia, di Craig Gillespie

Bianco e nero, bene e male, Estella e Cruella. Queste le due facce di questo personaggio, doppio nell’aspetto e nella personalità. Ed è proprio questo il tratto distintivo di questa nuova “Crudelia”, estremamente diversa dal villain nato negli anni Cinquanta dalla penna di Dodie Smith e poi trasposto sullo schermo nel film d’animazione Disney nel 1961 (La carica dei 101) fino ad arrivare all’omonimo live action del 1996. Crudelia De Mon è sempre stato un personaggio monodimensionale, completamente folle, e crudele appunto oltre ogni limite, senza mai lasciare spazio a stralci di umanità. Caratteristica che Crudelia si è trovata cucita addosso dalle sue origini fino ad oggi, quando la Disney ha deciso di dedicarle un modernissimo live action, che non può essere più lontano dal classico a cui si ispira, che si limita a citare in poche, fugaci scene, per concentrarsi sulla nascita di questa anti-eroina.

La nuova Crudelia fa il suo ingresso in scena con il nome di Estella Miller, una bambina creativa, eccentrica, e con uno straordinario talento per la moda. Sebbene sua madre le consigli di contenere la sua esuberanza, Estella non è una bambina che passa inosservata e la sua personalità attira l’attenzione dei bulli, alle cui angherie reagisce con una tale grinta da farsi espellere dalla scuola. A questo punto sua madre decide di trasferirsi a Londra per iniziare una nuova vita ma, durante il viaggio, si ferma a chiedere aiuto in una ricca dimora, dove una donna misteriosa sta dando un ballo in maschera. Estella è stregata dall’opulenza degli abiti che riempiono la sala da ballo, si perde tra la seta e i merletti, ma mentre la bellezza le illumina gli occhi, all’improvviso arriva il buio. Sua madre viene spinta giù da una scogliera da tre dalmata indemoniati. Questo il fatal flaw di Estella, l’evento che da ora in poi guiderà ogni sua scelta, nel bene e nel male, tra il desiderio di giustizia e la fame di vendetta.

Estella arriva a Londra ma, senza soldi né un tetto sopra la testa, non ha altra scelta che farsi adottare da due ladruncoli, Jasper e Horace, tingersi i capelli per non attirare l’attenzione con la sua chioma bianca e nera, e vivere insieme ai due fratelli adottivi fino a quando non arriverà il momento di mostrare al mondo il suo talento. Adesso è un’invisibile ed è proprio così che riesce a sbarcare il lunario, rubando, non vista, per le strade di Londra. Con il tempo la banda riesce ad orchestrare colpi sempre più complessi, utilizzando il talento di Estella con la macchina da cucire per realizzare incredibili travestimenti. Pur vivendo una vita di espedienti, Estella non ha mai chiuso in un cassetto il sogno di sfondare nel mondo della moda e, quando ottiene un lavoro nei magazzini Liberty, il sogno diventa realtà. Dopo giorni di vessazioni, viene notata dalla Baronessa von Hellman, il dio della moda nella Londra negli anni ’70, e come per incanto il travestimento di Estella inizia a cadere per far posto a Cruella.

La rivalità con la Baronessa e la scoperta dei suoi segreti più oscuri, alimenta il fuoco creativo di Estella, che finalmente, dopo anni di attesa e duro lavoro, riesce a portare sotto i riflettori Cruella e il suo talento esplosivo. Dalla sua prima apparizione al ballo in bianco e nero della Baronessa, Cruella diventa la sua nemesi, oscurando tutti i suoi eventi mondani con i suoi happening d’avanguardia, che presentano al pubblico creazioni innovative, intessute nel punk e nella rabbia giovanile contro un sistema vecchio e stantio. Cruella rappresenta la moda nata dagli scarti, che strappa il vecchio per ricucirlo in nuovo e creare arte laddove la borghesia benpensante vedeva solo stracci.

Qui risiede il focus del film che punta tutto su un’estetica anticonformista, appariscente, che si impone con forza su un passato ingessato in un sistema di valori che sembrava impossibile da scardinare, con gerarchie sociali ingessate e canoni di bellezza imposti dall’alto, in questo caso dalla Baronessa e dal suo entourage. Cruella invece rompe gli schemi, e la sua arte di rottura è cucita a doppio filo con la musica del film, che accompagna le apparizioni della nuova dea della moda con grandi classici del rock come Nina Simone, Queen, Bee Gees, Blondie, Clash, Supertramp, The Doors, Electric Light Orchestra, Connie Francis e Florence and the Machine che hanno composto per il film il brano Call me Cruella.

Cruella è rock in ogni sua fibra, urla, ringhia, morde, ma la sua determinazione a vendicarsi della Baronessa affonda le radici in una storia familiare che travalica la rabbia giovanile e l’ambizione. Nell’origine più profonda della sua rabbia nasce il suo lato più oscuro, il doppio negativo di Estella, che schizofrenicamente entra ed esce di scena, come a contendere la sua anima tra bene e male. Ma è proprio questo aspetto che conferisce per la prima volta non solo una motivazione alle azioni di Cruella, ma la possibilità di far emergere tutti i lati di un personaggio che non aveva mai avuto lo spazio sufficiente per raccontare la sua storia.

In questa prospettiva anche la sua profetica crudeltà è ridimensionata per far posto a un villain, come la Baronessa, al cui cospetto Cruella appare misericordiosa e benevola, ma soprattutto che non esercita la sua crudeltà solo in nome della vanità e di un narcisismo sterile, ma che impersona la ribellione giovanile, il giovane che uccide il vecchio per emanciparsi e creare qualcosa che nessuno aveva mai osato fare prima. Lo stesso coraggio che ha avuto la Disney nell’uccidere la vecchia “Crudelia” per raccontare il suo personaggio dalle origini, osando, rischiando, superando il classico per farlo rivivere in un’opera contemporanea.

Mulan, di Niki Caro

Leale, impavido, sincero. Queste sono le virtù di un guerriero dell’esercito imperiale cinese, integro e fedele ai suoi valori fino alla morte. Questi sono i tre capisaldi su cui si fonda l’addestramento di un uomo alla guerra, in una Cina in cui violare la legge poteva costare la morte o peggio la perdita dell’onore al cospetto della famiglia e di tutto il Paese. Questo è il rischio che corre Hua Mulan, una giovane donna che sfugge al suo destino di angelo del focolare per arruolarsi nell’esercito travestita da uomo e, grazie al suo coraggio e agli onori guadagnati sul campo entrare nella storia della Cina.

A narrare le sue eroiche imprese è una ballata tradizionale, la cui versione più nota è un poema che risale all’epoca Wei (tra il 386 e il 538 d.C.) che ha come protagonista una donna che si arruola nell’esercito al posto dell’anziano padre, quando l’imperatore chiama alle armi “i figli della Cina” per arginare l’invasione delle feroci tribù nomadi. Nascondendo la sua vera identità, Hua Mulan impara le arti marziali e l’uso della spada fino a diventare uno dei guerrieri più abili dell’armata settentrionale, a essere nominata comandante e ricoperta di onori anche quando il suo travestimento cade.

Da qui parte Niki Caro per il suo live action di Mulan, più vicino all’antica ballata che al film d’animazione Disney del 1998, entrato nella memoria per l’ironia scoppiettante con cui riusciva a raccontare un dramma esistenziale ricco di valori come l’onore cavalleresco e la devozione alla famiglia. L’intreccio è quasi sovrapponibile e segue il “viaggio dell’eroe” della giovane Mulan, da sposa mancata a guerriero, passando per tutte le prove che deve affrontare, dall’abbandono della casa paterna all’addestramento nell’esercito imperiale durante il quale deve gelosamente custodire la sua identità femminile per non essere giustiziata per alto tradimento.

Eppure, per quanto il suo cammino sia irto di insidie, tra cui il feroce Bori Khan, la strega Xianniang, e il suo stesso esercito, pronto a voltarle le spalle una volta svelata la sua vera identità, Mulan trova se stessa solo sul campo di battaglia, ed è più abile con la spada che a versare il tè come si conviene a una futura sposa. Ed è proprio l’affermazione della sua identità in quanto donna-guerriero e della dignità del suo ruolo e del suo valore all’interno dell’esercito, a prescindere dal sesso o dagli abiti che indossa, che ancora una volta fanno di questo personaggio un’eroina estremamente moderna.

Il suo coraggio trascende la legge, il pregiudizio e la tradizione e la sua lotta per essere accettata nella sua natura di combattente, non solo dalla sua famiglia e dal suo villaggio, ma da tutta la Cina, diventa esemplare, a prescindere dall’epoca in cui la sua storia viene proposta, che sia in una ballata cinquecentesca, in un film d’animazione degli anni ’90 o in un live action infarcito di effetti speciali di ultima generazione. Eppure, senza nulla togliere all’eccezionalità del personaggio che basta da solo a scrivere la sua storia, la chiave narrativa scelta da Niki Caro per il suo Mulan non riesce a dare al live action lo stesso dinamismo che aveva il film d’animazione né la stessa freschezza. Spogliato della sua ironia, dei brillanti personaggi collaterali, e della musica, che accompagnava anche le scene d’azione, così come le sequenze più drammatiche, questa versione di Mulan sembra riportare alla luce una storia già nota senza aggiungere a questo viaggio per l’emancipazione nulla di innovativo, se non pochi sprazzi di magia che da sola non basta a rendere quest’opera memorabile.

La Disney Animation guarda avanti con la serie di cortometraggi Short Circuit

C’è voglia di novità in Casa Disney.
Se Frozen II è stato il coronamento della ricetta tradizionale (ma neanche troppo), tra principesse, musiche orchestrali di grande impatto e il classico lieto fine, mentre i live action si confermano un’operazione di marketing ben congeniata e in definitiva vincente – nonostante le critiche mosse dai puristi dei grandi classici – la nuova sfida dello studio di animazione nato dalla genialità di papà Walt è guardare al futuro.
In realtà il prossimo lungometraggio è già in cantiere, decisamente in stato di lavorazione avanzato, dal momento che l’uscita in sala di Raya e l’ultimo drago, questo il titolo, è prevista per l’inverno 2020.

La Walt Disney Animation Studios però va oltre e, più che ai prossimi successi cinematografici, cerca una nuova direzione da intraprendere.
E lo fa nel modo più dirompente possibile: dando parola ai suoi giovani artisti.
O per meglio dire lasciando loro carta bianca. Una strategia coraggiosa che ribadisce – se mai ce ne fosse bisogno – la forza creativa di quella che da più di 50 anni si conferma, anno dopo anno, una fucina di talenti e di idee sorprendenti, capace di plasmare l’immaginario visivo di intere generazioni per di più su scala planetaria.

Il concetto di fondo è molto semplice: agli animatori è stata offerta la possibilità di presentare un pitch, per sviluppare un’idea originale che poteva venire selezionata e diventare così uno short film, supportato e prodotto dallo studio con il suo stuolo di artisti al seguito.
Come dire, “se puoi sognarlo puoi farlo”: da iconico testamento a vero e proprio manifesto programmatico. Quando si dice credere nella forza delle idee.Gli Studios Disney hanno quindi avviato un vero e proprio programma sperimentale, iniziato nel 2016 e che ha visto il coinvolgimento di team creativi, tra disegnatori, 3D artist, musicisti e artisti vari, già rodati in grandi film come Ralph Spaccatutto, Frozen, Zootropolis e Oceania.

Esattamente come per SparkShort, un progetto gemello realizzato dalla Pixar, lo scopo
era finanziare e produrre dei corti di animazione con l’obiettivo di trovare registi e tecniche del futuro.
La parola d’ordine quindi è una sola: “sperimentare”.
“L’obiettivo di questo progetto innovativo – si legge nel comunicato ufficiale – è produrre opere che osino sia sul piano visuale che su quello narrativo, far emergere nuove voci agli studi Disney e sperimentare con le innovazioni tecnologiche”.

Insomma una vera e propria ricerca stilistica a tutto spiano, capace di esplorare le più innovative tecniche di animazione e di rinnovare linguaggi espressivi e metodi consueti.

Il risultato è sorprendente.

14 cortometraggi di una freschezza quasi surreale, vivaci e appassionanti. Inutile negarlo, l’impronta disneyana è fortissima: i temi e i concept sono quelli che conosciamo bene. I character ricalcano fedelmente uno stile che abbiamo imparato ad amare e che ha fatto scuola. Ma se per qualcuno questo è stato uno smentire le premesse del progetto, procedendo di fatto su binari già conosciuti e commercialmente redditizi, non si può negare l’onestà intellettuale di chi guarda avanti facendo della sua eredità culturale non una zavorra ma un elemento di forza.

Perché in fondo la Disney è questo: una rivoluzione culturale fatta con la premessa che il proprio passato non si rinnega mai ma si valorizza e si rilancia nel tempo.

In appena 2 minuti circa (questa la durata media dei mini film), ciascun cortometraggio condensa una vocazione narrativa inattesa, con tutta la vivacità di una ricerca grafica e compositiva da lasciare senza parole.

Presentati in anteprima al Festival internazionale del film d’animazione di Annecy, i corti sono stati mostrati ad Hollywood come anticipazioni di alcune proiezioni selezionate del film Il re leone (2019) oltre che proiettati al D23 Expo, l’evento biennale organizzato dal Disney Official Fan Club.
A partire dal 24 gennaio 2020 i cortometraggi sono stati pubblicati in esclusiva sulla piattaforma streaming Disney+, e resi disponibili in Italia dal 24 marzo scorso.

14 mini film dicevamo, diretti da altrettanti giovani registi: John Aquino, Trent Correy, Mitch Counsell, Brian Estrada, Jeff Gipson, Jerry Huynh, Brian Menz, Terry Moews, Nikki Mull, Natalie Nourigat, Zach Parrish, Brian Scott, Jennifer Stratton, and Kendra Vander Vliet. Segnatevi questi nomi, perché non c’è dubbio che sentiremo ancora parlare di loro.

Ogni storia è anticipata da una breve introduzione in cui il regista di turno presenta la sua idea di partenza e mostra brevemente le fasi dello sviluppo del corto. L’emozione di questi giovanissimi autori nel parlare del proprio progetto è forse più commovente dei film stessi,
le loro parole riecheggiano durante la visione e ne amplificano la potenza narrativa.

Vi si ritrovano storie personali, ricordi di infanzia, letture, spunti e motivi ispiratori tra i più disparati: una testimonianza appassionante di come la scintilla creativa si possa cogliere ovunque, basta volerla trovare.

Quattordici storie per altrettanti personaggi che vivono avventure a volte semplici, a volte surreali, sempre coraggiose e anticonformiste per spingere lo spettatore, come suggerisce il video di anticipazione, nelle “profondità della nostra immaginazione”.

Ne segnaliamo solo alcune:

Puddles, diretto da Zach Parrish

E se saltando dentro le pozzanghere si finisse in un mondo magico? È quello che capita a Noah sotto gli occhi della sorella maggiore troppo intenta a guardare il suo cellulare per accorgersi di quello che sta succedendo.
Ma basta gettare via il telefono, fidarsi e… inizia l’avventura e il divertimento! Un emozionante e coloratissimo “up side down” per ricordarci che se eliminiamo le distrazioni potremmo scoprire un mondo da cui lasciarsi sorprendere.

Just a Thought, diretto da Brian F. Menz

Lo stile grafico dei fumetti ci accompagna in questa delicata storia d’amore tra i banchi di scuola.
A creare problemi a Ollie, il protagonista, è però proprio il fatto che, esattamente come nelle vignette di un fumetto, i suoi pensieri appaiono visibili a tutti dentro la canonica nuvoletta. E questo è un disastro se sei vicino alla ragazza che ti piace! O forse no…
La ricerca stilistica è curata fin nei mini dettagli per replicare un’esperienza visiva che richiami la carta stampata, compreso il tratto che richiama un certo stile di fumetto grottesco tipico dei primi decenni del ‘900.

Cycles, diretto da Jeff Gibson

Come un nastro che si riavvolge davanti ai nostri occhi, seguiamo la memoria di una casa che ha visto scorrere la vita di una famiglia tra le sue mura. Scene di vita quotidiana, momenti di gioia, preoccupazioni e traguardi anticipano un finale che già conosciamo: la necessità di lasciare uno spazio che si avverte come parte di sé stessi e della propria storia personale.
La particolarità di questo corto è che sfrutta in modo innovativo la tecnica del VR (virtual reality) per offrire allo spettatore le potenzialità della realtà aumentata se si dispone del visore. In questo modo si può vivere la storia letteralmente “da dentro” la casa. Lo spazio diventa protagonista sia narrativo che concettuale.

Jing Hua, diretto da Jerry Huynh

Lo spettatore si immerge in un’atmosfera orientale ma soprattutto nel mondo emotivo di un’artista marziale davanti alla tomba del suo maestro.
Sono i suoi gesti nell’eseguire le tecniche del kung fu a dipingere la realtà circostante che sorge con una serie di pennellate veloci, colme della disperazione di un’allieva che ha perso la sua guida. Vediamo scorrere acqua, inchiostro e colore su una pergamena immaginaria all’interno della quale la protagonista esegue la sua danza. 
Un’animazione vibrante che ricalca i modi grafici tipici dell’arte pittografica cinese.

Elephant In The Room, diretto da Brian Scott

Un ragazzo elegge a suo compagno di giochi un cucciolo di elefante nonostante il padre voglia invece sfruttare l’animale per il duro lavoro nelle piantagioni di banane.
Con coraggio e altruismo il ragazzo aiuterà il cucciolo a riunirsi al suo branco e ritroverà l’intesa che si credeva persa con il genitore. Due famiglie felici unite dalla forza dei sentimenti sinceri.
Una delicata storia di amicizia tra un giovane protagonista e il suo animale, in pieno stile disneyano.

Vi lasciamo scoprire gli altri titoli e le storie che compongono questa serie di piccoli film. Che di piccolo hanno solo la durata, dal momento che le tecnologie sperimentate e i linguaggi artistici investiti nell’operazione non hanno nulla da invidiare ai più grandi successi internazionali nel campo dell’animazione.

Chi ama lo stile Disney di sicuro apprezzerà la ventata di freschezza rappresentata dal programma Short Circuit.

Se siete invece tra quelli che reputano la Disney troppo melensa e finta, vi suggeriamo di approfittare di questa possibilità di ammirare un prodotto sicuramente “da manuale”, declinato però in una serie di linguaggi grafici e tecnici assolutamente originali.

Insomma: tradizione e innovazione, canone e eccezione. Un vero e proprio “corto circuito” creativo con cui la Disney rinnova la scintilla magica che la contraddistingue.

Coco, di Lee Unkrich e Adrian Molina

Emozioni intense e colori sgargianti. C’è tutta la vibrante atmosfera del Messico in Coco l’ultimo lungometraggio d’animazione Disney Pixar che esce oggi nelle sale italiane (in Messico, dove si è tenuta l’anteprima internazionale, il film è uscito lo scorso 27 ottobre).
La storia è quella del piccolo Miguel e del suo appassionante sogno: seguire le orme del più grande musicista del suo paese, Ernesto de la Cruz. Peccato solo che la sua famiglia, parecchie generazioni prima della sua nascita, abbia deciso di ripudiare la musica in modo totale e definitivo.

Durante la caratteristica festa del Dia de Muertos, Miguel si ritrova catapultato nella Città delle Anime, una spettacolare metropoli dotata di tutti i confort dove i defunti, dalle sembianze di colorati e per nulla spaventosi scheletri, conducono la loro esistenza post-mortem. Qui Miguel fa la conoscenza di Hector, uno scheletro spaccone e divertente che tenta in tutti i modi di superare il ponte di fiori che connette i defunti con il mondo dei vivi senza riuscire nell’impresa. Miguel scoprirà così che se nessuno in vita espone la foto del defunto in casa propria, a questi non è concesso tornare a far visita ai suoi cari durante la festività.
Anche Miguel deve trovare il modo di tornare tra i vivi e per farlo ha bisogno della benedizione di un familiare, benedizione che gli zii defunti sono ben lieti di concedere a patto che lui rinunci alla musica per sempre.

Inizia allora la frenetica e avventurosa ricerca di quella parte della famiglia da sempre rinnegata che appare a Miguel come l’unica alternativa per non rinnegare il suo sogno. Ad aiutare il ragazzo nell’impresa sarà proprio Hector, in cambio della promessa da parte di Miguel di esporre la sua foto una volta tornato nel mondo dei vivi.
Insieme al buffo cane spelacchiato Dante e alla componente defunta, ma ugualmente ingombrante, della famiglia Miguel imparerà quanto coraggio è richiesto a chi vuole seguire la propria vocazione ma anche quanto ne occorre per fare un passo indietro e non trasformare quel sogno in un’ossessione capace di far dimenticare gli affetti che davvero contano nella vita.
Nel suo atipico percorso di formazione, Miguel dovrà fare i conti con i pregiudizi della sua famiglia e con il difficile e precario equilibrio tra il rispetto per le proprie origini e il desiderio di perseguire una carriera musicale.
L’itinerario per ritrovarsi alla fine del viaggio è il medesimo: Miguel dovrà abbandonare alcune convinzioni troppo frettolosamente acquisite, la sua famiglia dovrà fare altrettanto per recuperare una parte erroneamente rifiutata della propria storia.

L’altra grande protagonista del film è la musica: quella dei mariachi, piena di passione e ritmo trascinante, quella che vibra nelle corde della chitarra e risuona nel cuore di chi la ascolta. Sorprendentemente il film riesce a compiere lo stesso percorso emotivo: affascina visivamente e colpisce dritto al cuore. L’avventura di Miguel infatti ripercorre i colori e i suoni dell’America centrale, ricostruisce l’affresco di un mondo affascinante fatto di sentori forti, di riti ancestrali, di tradizioni orali e di ritmo travolgente.  A cominciare dalla megalopoli in cui vivono i defunti, ricostruita come agglomerato urbano pieno di luci e colori brillantemente sospesa tra gusto art nouveau e comodità moderne.
I miti culturali e l’immaginario visivo del Messico ci sono tutti in quello che forse è il film più ritmato della Pixar, da sempre lontana dal canone del musical disneyano ma che trova questa volta una formula nuova, in cui la musica diventa parte integrante della storia e sua impalcatura portante. Le canzoni originali interpretate dai personaggi sono state composte da Germaine Franco, Robert Lopez e Kristen Anderson-Lopez (questi ultimi due già creatori dei brani di Frozen).

Il ritmo della storia è veloce, serrato, con uno sviluppo ben costruito e scandito da momenti fortemente emozionanti e gag altrettanto divertenti che vedono protagonisti il buffo cane messicano o i simpatici scheletri che declinano meravigliosamente la tradizione dei calaveras (nel folklore messicano i teschi di zucchero dipinti),

L’importanza delle proprie radici, la forza dei ricordi, l’oblio come unica vera morte senza appello, il difficile equilibrio nel conciliare le proprie passioni e coloro che si amano, il potere dirompente del perdono e soprattutto quello evocativo della musica: i contenuti emozionanti sono tanti e i temi musicali costituiscono una cassa di risonanza a cui è impossibile resistere. L’impatto emotivo è travolgente, quindi portatevi i fazzoletti anche se non siete deboli di cuore, fidatevi!
Il titolo Coco è giunto in soccorso alla Disney rea di voler gettare nel tritatutto del marketing anche una festività religiosa come quella del Dia de Muertos (ha tentato di farne un marchio e di appropriarsi dei diritti commerciali per farne appunto il titolo del film), la sollevazione popolare in difesa di una tradizione che ha origini addirittura precolombiane ha convinto la produzione a scegliere un nome diverso. Non vi diremo perché il titolo acquista un significato estremamente commovente… ma vi invitiamo a scoprirlo “a vostre spese”!

Quello che ci preme dire è invece che Coco ci ricorda che in mezzo alle difficoltà c’è uno spirito guida dove meno te l’aspetti, che la memoria – storica, culturale e familiare – è l’unico antidoto che abbiamo contro la morte e soprattutto, lezione classica e mai scontata, quanto sia importante inseguire i propri sogni contro tutto e contro tutti ma, ed è questa la vera lezione del film, non a discapito di tutto.
Il nuovo film di Natale Disney Pixar si conferma in sostanza all’altezza di una lunga tradizione di capolavori: visivamente impeccabile, con una storia emozionante, divertente, ricco di colori, di sfumature, di musica e sopratutto immensamente capace di scaldare il cuore.

Cosa fate ancora davanti al computer? Correte al cinema a scoprire chi è Coco!

La bella e la bestia, di Bill Condon

C’era una volta un film d’animazione incantevole, che parlava d’amore scandendo il tempo a ritmo dei petali di rosa che cadevano al suolo. Una fiaba intensa, vibrante di musica e talmente raffinata da essere il primo lungometraggio Disney a toccare le vette degli Oscar. Sono passati venticinque anni ormai e i petali della rosa fatata de La Bella e la Bestia sono caduti tutti, uno ad uno, per lasciare spazio a narrazioni più moderne e senza dubbio più dinamiche, ma l’incanto di quella pellicola è rimasto intatto nel ricordo di chi l’ha amata. Ed è per questo che un ritorno de La Bella e la Bestia sul grande schermo è accompagnato da un’emozione che è difficile da contenere, che riporta magicamente indietro a un tempo che non c’è più, e che allo stesso tempo carica di aspettative la pellicola di Bill Condon.

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Ma ecco che l’attesa è finita, lo schermo buio si illumina e immediatamente si intravedono i contorni di un castello familiare, nascosto nel folto del bosco, dove vive un giovane principe (Dan Stevens), che vive nel lusso più sfrenato e viene viziato dai membri della servitù, pronti a esaudire ogni suo capriccio. Con il passare del tempo però il Principe era diventato sempre più egoista e arrogante, e quando una notte una vecchia mendicante bussa alla sua porta per chiedere riparo dalla tempesta, offrendogli in cambio soltanto una rosa, lui la manda via senza pietà. Ma le apparenze molto spesso non sono lo specchio dell’anima e infatti la mendicante, provata la sua crudeltà, si trasforma in una bellissima maga (Hattie Morahan) che lo punisce gettando una maledizione sul castello. Il principe viene trasformato in un’orrenda bestia, vera immagine della sua anima, e tutti i membri della servitù in oggetti e mobili animati. L’unico modo per spezzare l’incantesimo è che il principe impari ad amare e sia amato a sua volta prima che cada l’ultimo petalo della rosa, altrimenti sarebbe rimasto una Bestia per sempre e i membri della servitù non sarebbero mai più tornati umani, restando imprigionati nel castello per l’eternità. Ma chi può amare una bestia?

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Il tempo passa e la rosa continua ad appassire. La Bestia e i suoi servitori hanno quasi perso del tutto la speranza fino a che non accade qualcosa di inaspettato. Una ragazza entra nel castello. La fanciulla che si addentra tra quelle stanze oscure è Belle (Emma Watson), la figlia di Maurice (Kevin Kline), l’inventore che la sera prima aveva trovato riparo nel castello per sfuggire ai lupi e, senza aver fatto del male a nessuno, era stato fatto prigioniero dalla Bestia. Belle è una ragazza atipica, diversa da tutte quelle che affollano le strade di Villeneuve sospirando dietro ai pettorali dell’arrogante e rozzo Gaston (Luke Evans).  Lei vuole di più. Il villaggio le sta stretto e così la corte spietata di Gaston, che non somiglia neanche lontanamente al principe azzurro della sua fantasia.

Gaston (Luke Evans) a handsome but arrogant brute, holds court in the village tavern in Disney's BEAUTY AND THE BEAST, directed by Bill Condon, a live-action adaptation of the studio's animated classic and a celebration of one of the most beloved stories ever told.
Incredibilmente moderna per il suo tempo, Belle non si rassegna un destino già scritto al fianco dello scapolo più ambito del paese con prole a seguito, ma cerca instancabile l’avventura verso i luoghi esotici di cui ha letto nei suoi romanzi preferiti, sognando di vivere una vita straordinaria. Per questo parte alla ricerca di suo padre con coraggio, attraversa il bosco di notte, affronta i lupi, ed entra senza timore nel castello della Bestia, ignara del fatto che quella sarà l’avventura più spaventosa e affascinante della sua vita.

La Bestia è scontrosa, sgarbata, e fa di di tutto per farsi odiare da Belle, ma lei tiene testa alle sue sfuriate e non si piega a nessuno dei suoi ordini, fino a che con il passare del tempo lo scontro tra le loro personalità non diventa un’incontro di anime. Belle inizia a percepire che dietro quelle sembianze mostruose c’è un uomo cortese, che condivide con lei l’amore per i libri, ed è pronto anche a rischiare la vita pur di salvarla dai pericoli. L’amicizia che li unisce con il passare cambia forma, si trasforma in un sentimento sconosciuto, che fa paura ma scalda il cuore.

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La vera bellezza non è quella esteriore, ma quella che abbiamo dentro. Questa è l’essenza de La Bella e la Bestia, il mantra che si ripete ogni qualvolta questa storia viene alla luce. Dalla penna della scrittrice Gabrielle-Suzanne Barbot de Villeneuve, che ha pubblicato la prima versione di questo racconto, intitolato “La Belle et la Bête”, nel XVIII secolo, a tutti gli adattamenti per il grande schermo e per il teatro che sono seguiti, fino ad arrivare al capolavoro Disney del 1991, che ha messo in scena la storia in una forma così perfetta che ricalcarla era una follia. Eppure Bill Condon ha abbracciato l’impresa tentando l’impossibile: trasformare il film d’animazione in un live action. Sì perché il suo La Bella e la Bestia non è un film che vive di vita propria, con una personalità ben definita, ma una copia carbone del film Disney del 1991, ricalcato pedissequamente nelle forme, nei colori, e persino nella musica, come se l’obiettivo di Condon non fosse dar vita a qualcosa di nuovo, ma resuscitare a forza il vecchio.

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Il rischio di creare qualcosa di diverso e di fallire evidentemente per Condon era troppo alto, vista l’esperienza del recente La Belle et la Bête di Christophe Gans che, pur essendo criticabile per molti aspetti, per lo meno dava alla storia una patina di autorialità. Certo, percorrere sentieri inesplorati può portare spiacevoli sorprese, ma anche capolavori inaspettati, ed è un vero peccato che Condon abbia preferito la via più rassicurante della versione live action di un film che ha fatto la storia del cinema d’animazione. Ma non è detto che ricalcare percorsi già battuti sia una certezza di successo, infatti sebbene le scenografie, i costumi e l’atmosfera della pellicola originale siano stati ricostruiti  alla perfezione nel nuovo adattamento, non sono riusciti a portare con se l’emozione che la caratterizzava in ogni istante. E pur avendo più di vent’anni di vantaggio nell’arte della computer grafica, Condon offusca l’espressività dei personaggi con l’eccentricità delle scene, ottenendo solo una copia sbiadita di ciò che poteva essere, che si culla unicamente sull’emozione di chi in quelle immagini scorge il suo passato di bambino.

Oceania, di Ron Clements e John Musker

L’isola di Motu Nui è il paradiso in terra. La natura ha dipinto quest’isola con i colori più belli della sua tavolozza, dal turchese dell’oceano, al bianco accecante della sabbia, fino alla miriade di sfumature dei fiori che colorano il cuore dell’isola. Motu Nui è il luogo in cui tutti vorrebbero vivere, in cui il cibo non manca mai e nulla di male può accadere, tutti eccetto Vaiana, la giovane figlia del capo dell’isola, che freme all’idea di scoprire il mondo oltre il reef che circonda l’isola. Per lei è incomprensibile che il suo popolo non desideri viaggiare, spingersi oltre ciò che conosce, e si accontenti di pescare nei limiti della barriera corallina e di nutrirsi dei frutti della terra, ma si sa, per un cuore impavido il paradiso non è abbastanza, e il richiamo all’avventura è più forte anche della promessa del futuro più radioso.

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L’unica persona ad assecondare Vaiana nella sua sete di conoscenza è sua nonna Tala, che sa bene che Vaiana è molto più che un futuro capo tribù, perché l’Oceano l’ha scelta per custodire il cuore di Te-Fiti, la dea protettrice della terra, che secoli prima il Semi-Dio Maui le aveva sottratto. Da quando Maui l’aveva svegliata dal suo sonno, un velo di oscurità aveva coperto l’Oceano e tutte le sue isole, portando ovunque morte e carestia. Moto Nui non era mai stata toccata dall’oscurità ma ora il male iniziava a serpeggiare intorno alle sue coste, a divorare la frutta e distruggere il raccolto. L’isola era destinata a scomparire se Te-Fiti non avesse riavuto il suo cuore.

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Quando sull’isola compaiono i primi segni dell’oscurità, Vaiana non esita a disubbidire agli ordini di suo padre di rimanere nei confini della barriera corallina e parte alla volta dell’Oceano da sola con la sua zattera, decisa a cercare Maui e a ridare alla dea Te-Fiti il cuore che secoli prima il semi dio del vento e del mare Maui le aveva sottratto. Maui però non è esattamente l’eroe che immaginava, ma un tracotante combina guai, che senza il suo amo da pesca magico non è nessuno. Ed è solo grazie alla determinazione di Vaiana che Maui ha l’occasione di rimediare ai suoi errori e di restituire la pace alle isole del Pacifico, ma soprattutto di fare il viaggio più importante della sua vita, quello che dimostrerà al mondo che è davvero un eroe.

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Vaiana non è una principessa, ma un’eroina come Merida e Mulan, e non perde occasione per ribadirlo a Maui, che la prende costantemente in giro perché come le principesse dei classici Disney adora cantare e si porta dietro un buffo animaletto. Il suo ruolo è chiaro sin dall’inizio, così come la sua riluttanza a seguire le regole e il suo spirito da guerriera, ed è proprio questo che fa di lei un personaggio moderno e anticonformista, che non tradisce la tendenza più recente della Disney a portare in scena protagoniste femminili forti e indipendenti, che non aspettano di essere salvate dal principe azzurro di turno, ma si rimboccano le maniche per salvare con le proprie forze il loro mondo.

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Anche il personaggio di Maui è quanto più distante possa esistere dall’archetipo, dotato di una personalità complessa, sfaccettata come i tatuaggi che ricoprono il suo corpo, e quasi impossibile da decifrare. A metà tra l’eroe e l’antieroe, Maui è la spalla ideale della coraggiosa Vaiana, indispensabile per tenere in piedi la tensione drammatica in un lungometraggio quasi interamente ambientato su una zattera dispersa in mare aperto. Ma è proprio questo che rende Oceania un film diverso da tutti i precedenti, a prima vista più coraggioso e meno legato al cliché della Disney, ma a uno sguardo più attento si possono scorgere tutti gli elementi che hanno fatto la fortuna della casa d’animazione più famosa del mondo. Nell’equilibrio perfetto tra presente e passato i registi del film Ron Clements e John Musker, creatori di capolavori come La Sirenetta e Aladdin, hanno portato la Disney nel futuro, con la piena consapevolezza che non è possibile tornare indietro o ignorare il cambiamento dei tempi e dei ruoli sociali dei protagonisti, ma è necessario abbracciare la novità con coraggio e andare oltre i limiti del mondo conosciuto per scoprire qualcosa di inaspettato e bellissimo.

Alla ricerca di Dory, di Andrew Stanton

Ricordi perduti riemergono da un cassetto ormai dimenticato della nostra mente. Prima smarrimento, poi un’improvvisa gioia nell’aver ritrovato qualcosa di prezioso. Tutto questo ovviamente è amplificato se si è un pesce chirurgo della Grande Barriera Corallina che soffre di perdita di memoria a breve termine.

Da qui inizia l’avventura narrata in Alla ricerca di Dory, sequel e spin-off del bel Alla ricerca di Nemo, diretto da Andrew Stanton, prodotto dalla Pixar e distribuito dalla Walt Disney Pictures, uscito nelle sale italiane il 15 settembre 2016. In questo secondo film ritroviamo gli amati personaggi della storia precedente, Marlin, Nemo e, ovviamente, Dory. Ora sarà lei la protagonista, ma anche quella da ritrovare.

FINDING DORY. Pictured (L-R): Destiny and Dory. ©2016 Disney•Pixar. All Rights Reserved.

Improvvisamente la smemorata pesciolina ricorda di avere non solo una famiglia che ha perso da piccola, ma esattamente anche da dove proviene. Non può far altro che partire. Ad aiutarla nella ricerca saranno Marlin e Nemo, che potranno così ricompensare l’aiuto prezioso fornito da Dory nel capitolo precedente. Il gruppo, arrivato vicino alla meta, però, si ritroverà separato. Dory sarà sola ma la caparbietà non le verrà meno, e il desiderio di ricongiungersi ai propri genitori sarà la bussola che la guiderà attraverso varie vicissitudini. Una “Pollicino” acquatica, che invece di ritrovare la strada di casa grazie alle briciole di pane, dovrà seguire le conchiglie, come appreso da un ricordo riaffiorato. Ad aiutarla ci saranno amici nuovi o ritrovati, come lo scontroso polpo Hank, la miope squalo balena Destiny e l’insicuro beluga Bailey.

Contemporaneamente Marlin e Nemo saranno alla ricerca della loro amica. Il rapporto padre-figlio ne uscirà rafforzato perché solo insieme riusciranno a superare gli ostacoli. L’aiuto più importante che avranno sarà, però, una domanda “Che farebbe Dory?”. Mentre nel primo film il contributo dato dalla pesciolina era sì fondamentale ma era Marlin a dover superare i propri limiti e convinzioni per ritrovare il figlio, ora sarà Dory, con la sua impulsività, il filo di Arianna che aiuterà tutti i protagonisti a raggiungere i propri obiettivi nel dedalo della vita.
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Seguire il proprio istinto, le proprie passioni e idee è l’onda lunga su cui scivola questo secondo capitolo. Bisogna sbloccarsi, buttarsi nell’avventura per raggiungere ciò che si vuole. Dory fa così. Non potendo ricordare nemmeno le proprie paure e insicurezze, lei può affidarsi solo al proprio istinto, alla propria indole soccorritrice, al primo pensiero che le viene in mente. L’eterna indecisione di Marlin è sconfitta rispondendo semplicemente alla domanda “Che farebbe Dory?”, che diventerà “Che farebbe Marlin?”, “Che faremmo noi?”.

Il superare i propri limiti e credere nei propri mezzi sono quindi i collegamenti tra i due capitoli della saga ambientata nell’Oceano Pacifico. Alla ricerca di Dory conferma il messaggio del film precedente, con sfondo una storia scritta con passione e positività accompagnata da stupefacenti effetti speciali. Avere difficoltà sia a livello fisico ma anche emotivo dovrà diventare il punto di forza e di partenza nell’affrontare i problemi che la vita ci pone. Avere una pinna atrofica, una forte miopia, delle fobie per l’esterno e gli altri, essere insicuri, saranno dei mezzi fondamentali nel migliorare se stessi. Soffrire di perdita di memoria a breve termine non ti limita nell’affrontare stupende avventure. Il primo ostacolo per nuotare liberi, siamo noi stessi.

Alice attraverso lo specchio, di James Bobin

Alice attraverso lo specchio è un turbine di immaginazione che terrà lo spettatore incollato alla poltrona.

Negli ultimi anni Alice Kingsleigh (Mia Wasikowska) ha seguito le orme paterne solcando mari lontani al timone della Wonderland. Al suo rientro a Londra, la dura realtà della vita sulla terraferma la costringe a fare i conti con questioni economiche e sentimentali: incontra di nuovo Hamish (Leo Bill) che in sua assenza ha incastrato la madre Helen (Lindsay Duncan) in improbabili accordi economici che la giovane Capitana non può di certo accettare. Proprio durante uno dei tanti odiati eventi mondani, Alice trova un magico specchio attraverso il quale ritorna nel fantastico regno di Sottomondo. Il luogo non è più come ricordava: il Bianconiglio, Absolem il Brucaliffo, lo Stregatto, la Regina Bianca (Anne Hathaway), Wilknis e Pincopanco e Pancopinco (Matt Lucas) hanno bisogno del suo aiuto, in uno stato di emergenza prima quasi inimmaginabile: il Cappellaio Matto (Johnny Depp) non è più lo stesso. Ha perduto la sua moltezza e solo Alice può farlo rinvenire, salvandogli al contempo la vita. Riuscirà a lottare contro il Tempo (Sacha Baron Cohen), rubargli la cronosfera e sfuggire ancora una volta dalle grinfie della Regina Rossa (Helena Bonham Carter)?

A 151 anni dalla pubblicazione del primo libro del matematico Charles Lutwidge Dodgson, conosciuto come Lewis Carroll, Alice torna nel regno più pazzo e strampalato mai inventato. Così come il primo film, anche Alice attraverso lo specchio vede il suo antecedente nel testo letterario di Carrol, pubblicato nel 1871 con il titolo di Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò. Il racconto è pieno di allusioni a personaggi, poemetti, proverbi e avvenimenti propri dell’epoca in cui l’autore viveva, ma mentre il primo libro gioca sul tema delle carte da gioco, il secondo è incentrato sul tema degli scacchi, per i quali l’autore fornisce uno schema di gioco all’inizio del libro. Eppure, se nella pellicola non si trovano evidenti rimandi a questo nuovo mondo allusivo che fa da scheletro al testo letterario, Alice attraverso lo specchio rimane comunque un film in linea con la tendenza di tutte le pellicole targate Disney che prendono dai testi letterari solo lo spunto, salvo poi costruire storie indipendenti e dotate di un loro autonomo filo conduttore ben preciso. In Alice in the Wonderland la delusione era stata grande nel non vedere una storia all’altezza delle capacità dell’uomo che stava dietro la m.d.p. da presa (altro ci saremmo aspettati dall’imprevedibilmente geniale Tim Burton). In questo caso, invece, tutta la struttura si regge su un unico tema che si svolge coerente dall’inizio alla fine. Tra l’altro, provare a rispettare il testo letterario avrebbe rappresentato una sua paradossale violazione, visto che la veste linguistica e contenutistica dello stesso è talmente complicata e radicata nell’epoca storica durante la quale era stato scritto che qualunque tentativo di trasposizione sarebbe stato, come minimo, sacrilego.

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Si diceva del filo conduttore di tutta la storia: il tempo diventa un’entità fisica palpabile e tangibile (come del resto già la PIXAR aveva fatto con i sentimenti) e grandi e piccini riescono così a visualizzare la figura a cui tanti dolori della vita vengono attribuiti. Tempus fugit, scriveva Virgilio. Non exiguum temporis habemus, sed multum perdidimus, affermava Seneca nel De brevitate vitae, nel quale tanto ha discusso sull’incapacità dell’uomo di dare valore al tempo. In Alice attraverso lo specchio si trova la medesima profondità di approccio nei confronti del tempo sapientemente mischiata a viaggi mirabolanti, ad avventure fantastiche e a personaggi immaginari. Senza alcuna pretesa filosofica, il valore del tempo e della sua relatività nei confronti dell’esistenza umana assume un ruolo preponderante in tutto la trama, adattandosi al target di pubblico che ama le storie impossibili e dense di immaginazione ma che vuole, parimenti, uscire dalla sala carico di spunti di riflessione.

Alice attraverso lo specchio si dimostra così un film ben fatto, godibile se si cancella dalla memoria la pessima esperienza del suo primo capitolo. La componente tecnica soddisfa le aspettative (dalla scenografia ai costumi, dal trucco agli effetti speciali non eccelsi ma sufficientemente adeguati a reggere il peso della storia) con il cast di attori ben amalgamato ed espressivo, per quanto lo si possa essere in un vortice di immaginazione che lascia, a tratti, senza fiato. Sacha Baron Cohen ben mitiga questa caleidoscopica atmosfera di little madness con il suo tocco di dark humour e oscurità. Sulla sua figura si fonda tutta la trama: nessuno avrebbe retto meglio una tale responsabilità.

Il libro della giungla, di Jon Favreau

Se il solo sentir nominare “Il libro della giungla” vi fa intonare il famoso motivetto lo stretto indispensabile, guardando la pellicola diretta da Jon Favreau avrete di che canticchiare.

Il libro del Premio Nobel per la Letteratura Rudyard Kipling ha visto la sua ennesima trasposizione cinematografica, ancora una volta targata Walt Disney Pictures, in uscita nelle sale il 14 aprile. Si tratta di un film live action, ossia con attori in carne e ossa, benché di attore umano ce ne sia uno solo, Neel Sethi, il Mowgli del libro. Il resto, dagli animali alle piante, è frutto delle più moderne tecnologie cinematografiche, come la motion capture e il rendering fotorealistico.

La trama è la solita. Il piccolo Mowgli, smarritosi nella giungla indiana, viene allevato da un branco di lupi e guidato da una pantera nera. Quando la tigre Shere Khan vuole ucciderlo per vendicarsi delle ferite riportate ad opera del padre del bimbo, al cucciolo d’uomo non rimane che scappare e attraversare la giungla alla ricerca del suo posto nel mondo in compagnia di vari animali.
Quando la trama di un’opera è nota, tutto sta nella resa della stessa e Favreau rende “il libro della giungla” un’esperienza per gli occhi. Gli animali sono realistici come mai prima, benché parlino e agiscano con volontà umana, la foresta esplode di colori e piante e adatta se stessa allo stato d’animo del protagonista, il giovane Sethi è un esordiente che non si fa mettere in secondo piano dagli effetti speciali.

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E non mancano gli omaggi al 19esimo film di animazione Disney, l’ultimo prodotto direttamente da papà Walt. Alcuni spettatori ricorderanno infatti la traversata sul fiume di Mowgli sulla pancia di Baloo o gli occhi ipnotici del pitone Kaa presenti nel cartoon, qui perfettamente ricostruiti in live-action. E se non vengono tralasciate le scene cult, non possono mancare nemmeno due brani celebri come “Lo stretto indispensabile” cantato dall’orso Baloo e “Voglio esser come te” intonato dal gigantopiteco King Louie.
A caratterizzare ancor di più i personaggi in pelliccia, un cast di attori prestati al doppiaggio. Tony Servillo è Bagheera, la pantera nera guida di Mowgli, Neri Marcorè è il simpatico e pigro orso Baloo, Violante Placido la materna lupa Rashka, Giancarlo Magalli il re delle scimmie Louie, Giovanna Mezzogiorno il gigantesco pitone Kaa.

Il viaggio che Mowgli compie alla ricerca del proprio valore e del proprio posto nel mondo è avvincente nonostante si conosca la fine. La giungla, quella fisica fatta da piante e animali e quella psichica costituita dalle esperienze del bimbo, intreccia i suoi rami e le sue radici per incastrare il cucciolo d’uomo tra le sue spire. Alla fine, però, sarà lo stesso Mowgli a salvare il regno degli animali grazie al suo ingegno e diverrà un uomo adulto anzitempo, facendo tesoro delle conoscenze apprese.

Il viaggio di Norm, di Trevor Wall

Il Polo Nord è in pericolo? Ci pensa Norm, un simpatico orso bianco che non sa cacciare, ma sa comunicare anche con il linguaggio umano e, soprattutto, sa ballare divinamente! Questi suoi interessi che esulano dal tradizionale modus vivendi dei suoi simili, lo rendono triste e solo, specialmente da quando è scomparso il nonno. Le potenzialità di Norm, come accade per la maggior parte dei “multipotentialite” come lui, vengono soffocate per paura di un fantomatico disordine sociale o assurde ragioni simili. Anche il padre, sovrano dell’Artide, gli ricorda le regole di un regno, dove «si caccia, si regna, si dorme» e dove non c’è spazio per nient’altro, salvo delle buffe esibizioni occasionali per turisti organizzate da Stan, fratello di Norm, anche lui attratto dal palcoscenico, anche se da dietro le quinte. Chi come Norm, invece, aveva il dono della parola era il nonno che, oltretutto, rappresentava un modello di re istintivo e perspicace che «sente la sofferenza dei ghiacci».
Quando Greene, un magnate senza scrupoli, cerca di realizzare, a dispetto del suo nome che rimanda alla natura e alla green economy, un immorale progetto di urbanizzazione del Polo Nord, infischiandosene dell’impatto ambientale e dei potenziali danni che il surriscaldamento della calotta polare può provocare all’ecosistema artico e al mondo intero.
Su consiglio del gabbiano Socrate e dell’orsa Elizabeth, Norm va a risolvere il problema all’origine: a New York. E così, tra rivisitazioni etimologiche della “pole dance”, esibizioni di twerk, brani pop famosi ed orecchiabili, sofisticate operazioni di marketing, tra cui un flash mob a Times Square, e rocamboleschi inseguimenti per le strade trafficate di Manhattan, l’eroe dei ghiacci del Nord mette in atto il suo piano per salvare la sua casa e il mondo intero.

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Impresa impossibile? Forse, ma Norm non è da solo! Ad aiutarlo ci sono Olympia, una bambina prodigio, figlia della direttrice marketing di Greene, e i tre lemming, roditori artici di piccole dimensioni, i perfetti compagni di team per un multipotentialite, specialisti di missioni impossibili, pronti a tutto e praticamente indistruttibili, grazie alla loro speciale costituzione fisica, tanto leggera e soffice da essere a prova di urto. I lemming svolgono egregiamente sia la macrofunzione comica sia una microfunzione di coro, in tutti i sensi! Il pubblico viene letteralmente calamitato dalle loro gesta, eroiche e non! Un po’ come accaduto in passato con i pinguini di Madagascar o i Minions di Cattivissimo me. Chissà che non possano un giorno avere anche loro uno spin off incentrato su di loro. Sarebbe un bel risarcimento per la loro reputazione, meschinamente ridicolizzati da un “documentario” del 1958 della Disney intitolato White wilderness, che include varie scene di lemming che sembrano buttarsi da un’alta scogliera. In realtà, le scene in questione sono state costruite ad arte in Manitoba. Una farsa che ha affibbiato ai lemming la nomea di animale con la tendenza al suicidio di massa, cosa che non ha alcun fondamento scientifico. L’unico dato di fatto che può, in qualche modo, aver contribuito alla creazione di questo falso etologico è che i lemming sono soliti migrare in gruppi numerosissimi e, di conseguenza, molti di loro possono morire per cause accidentali oppure per la pressione degli altri individui che può provocarne la caduta in corsi d’acqua e dirupi. A causa della loro associazione con questo bizzarro comportamento, la sindrome del lemming è una diffusa espressione utilizzata per riferirsi in maniera metaforica a persone che seguono acriticamente l’opinione più diffusa, con conseguenze pericolose o addirittura fatali. Forse non a caso è stato scelto questo tipo di animale per affiancare un orso polare con problemi da multipotentialite.

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Per chi legge il termine per la prima volta, per multipotentialite s’intende una persona che nella vita ha molti interessi, diversi tra loro e spesso neanche interconnessi. Non ha un’unica vocazione, ma il suo percorso segue molti sentieri in sequenza o contemporaneamente, o entrambi. Spugna dalla straordinaria capacità assorbente per quanto riguarda l’apprendimento, intellettualmente e artisticamente curioso e pronto all’esplorazione di tutto, il multipotentialite riesce in poco tempo ad aver padronanza di nuove competenze ed è eccellente a produrre idee in modo creativo che connettono le diverse materie di cui si interessano. Sarebbe un incredibile innovatore e risolutore di problemi, se non fosse ostacolato dal tradizionale modo di vedere il mondo. Ma, come molto, troppo!, spesso accade il “diverso”, che in realtà è solo “divergent”, come Norm, in quanto anticonvenzionale ed eccentrico, viene emarginato dalla comunità di orsi, preso in giro dai caribou di turno, costretto a nascondere la propria identità, unica ed irripetibilmente magnifica.

Come magnifica è stata l’originale tecnica di filmare lo storyboard con artisti che recitano e ballano dal vivo, per poi passare il materiale al team di illustratori e animatori, per rendere più realistiche possibile le espressioni, le emozioni e la gestualità dei personaggi del film. Mentre per l’ambiente artico il regista Trevor Wall e la crew, che lo segue dai tempi della televisione e del successo Sabrina: i segreti di una vita da strega, hanno preferito un design più da cartone animato che superrealistico, per le sequenze di Manhattan e i vari grattacieli hanno utilizzato immagini computerizzate in modo da costruire uno spazio urbano stilizzato, modellato direttamente su edifici reali, ad esempio il Walt Disney Concert Hall di Los Angeles ha fatto da modello di riferimento per minacciosa casa futuristica dell’immobiliare Greene. Di nuovo la Disney. Un’altra allusione negativa nascosta nel sottotesto? I nomi derivati dalla cultura greca, Socrate e Olympia, e la scelta di fare di un orso bianco il re dell’Artide confermano la presenza, quantomeno, di un sottotesto ben studiato: la parola Artide viene dal greco ἀρκτικός (arktikos), ossia “vicino all’Orsa”, cioè a Nord, e deriva a sua volta da ἄρκτος (arktos), che significa proprio “orso”. Il riferimento è sia alla costellazione dell’Orsa maggiore, che si trova nell’emisfero settentrionale della volta celeste, sia alla costellazione dell’Orsa minore che contiene Polaris, la stella polare, fin dall’antichità punto di riferimento fondamentale perché stabilmente fissa al Nord geografico, secondo la percezione umana. Non poteva, quindi, che essere un Ursus maritimus, come lo chiamerebbe Olympia, il simbolo della difesa di un ecosistema il cui stato di salute è il fulcro del destino dell’intero pianeta.

«Sta arrivando qualcuno! Siate naturali!»

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Originariamente realizzato per il mercato home cinema, Il viaggio di Norm è anche e soprattutto questo: una favola ambientalista che tocca il tema della diversità come valvola di innovazione, attraverso una forma divertente e scanzonata, ma soprattutto molto semplice, in modo che i contenuti possano arrivare dritto al cuore anche degli spettatori più piccoli, senza alcuna difficoltà di comprensione. Il viaggio dell’eroe è più che mai di natura formativa, spirituale, educativa, alla scoperta di sé – e della rivoluzione a cui porta il “think different” –  e alla ricerca di quel coraggio che serve per credere nelle proprie capacità, anche se sono fuori dalla norma. Tanto, in fondo, chi decide cosa è “normale” e cosa non lo è?