dramma

L’uomo che uccise Don Chisciotte, di Terry Gilliam

L’uomo che uccise Don Chisciotte è la rilettura del capolavoro della letteratura spagnola attraverso l’ottica grandangolare di Terry Gilliam. La sua creatività lucida e ludica – se mi passate questo facile anagramma, che è più uno scambio di consonante – ha creato col tempo, molto tempo, quasi 25 anni, una storia surreale e grottesca, un film che è un inusuale connubio di visionario e concreto: la realtà che sa illudere più della fantasia, la quale compenetra la vita reale fino a trasformarla e successivamente negarla per diventare infine rappresentazione morale dell’uomo moderno, o forse più postmoderno.

L’uomo che uccise Don Chisciotte, oggi, è un film ben diverso da quello progettato nella prima produzione andata a rotoli nel 2000. Anche se è rimasto un piccolo nucleo tematico vagamente riconducibile al romanzo Un americano alla corte di Re Artù di Mark Twain con cui era stato creato un incantevole mash-up, nella nuova produzione, arrivata dopo varie vicissitudini su cui si è speculato tanto da far capire la differenza tra “recensione” analitica e “critica” immotivatamente distruttiva.

Don Chisciotte

A lungo è stato il film che sembrava non dover mai veder la luce nel buio della sala, pertanto non poteva che meritarsi, da parte mia, una recensione che sembrava non poter essere messa nero su bianco per veder la luce del vostro schermo retroilluminato. Credo che nessuno degli addetti ai lavori possa dissentire, quantomeno per empatia: varie peripezie mi hanno portato a riprendere gli appunti, rivedere la pellicola e ragionare di nuovo a freddo sulle tematiche. Devo dire che la stratificazione dei significanti è tale da richiedere visioni successive e questo accade solo con film profondamente interessanti. Da Terry Gilliam non ci si poteva aspettare niente di più e niente di meno.

«Ho capito subito che nella sceneggiatura c’erano più livelli da scoprire, e in più era anche molto divertente. Era un modo originale di raccontare la storia di Don Chisciotte, mostrandola da una certa angolazione. L’ho trovata geniale.»

Adam Driver
Un assaggio dello storyboard del film lo trovate sul sito di Pablo Buratti

Come già aveva fatto Cervantes, Gilliam gioca con gli specchi e i simulacri, comunica attraverso le allegorie e lascia libera l’interpretazione del messaggio morale se sia la realtà a “uccidere” ogni illusione o se vivere sognando possa in qualche maniera far digerire la cinicità del quotidiano e lasciar sopravvivere ciò che di epico e cavalleresco ci sia in ognuno di noi.

A tal proposito, è illuminata la scelta di spostare l’attenzione del protagonista dalla ricerca di una vita valorosa come cavaliere errante al sogno condiviso dei personaggi principali di sfondare nel mondo del cinema, la macchina delle illusioni per eccellenza. Solo la mdp è reale. Tutto ciò che è diverso da essa, ciò che riprende, ciò che produce, è comunque finzione, simulacro della realtà. Ma come si fa a non perdersi in essa quando la fascinazione è così suggestiva?

Quello de L’uomo che uccise Don Chisciotte è un magnifico modo per modernizzare la spinta iniziale che origina le avventure del cavaliere dalla triste figura, per immedesimare il pubblico di qualsiasi età, anche il gamer più appassionato che di realtà virtuale e illusione del reale può insegnare a chiunque per quanta ne divora, o ne è divorato.

Toby [Adam Driver: Blackkklansman, Star Wars: Gli ultimi Jedi], cinico e disilluso regista pubblicitario, trova una copia del suo film sperimentale di quando era un giovane studente idealista di cinema. Si tratta della sua personale rivisitazione del Don Chisciotte, girata in un pittoresco villaggio spagnolo, sfruttando riprese dal vivo e attori non professionisti, «per uscire dai cliché» (che poi, in realtà, è da sempre lo stereotipo più in voga tra gli esordienti), secondo uno stile smaccatamente neorealista. Il mondo dello show biz lo ha reso un insensibile arrogante egocentrico narcisista, ma partire alla riscoperta di quel nostalgico passato lo porta ad incontrare quel vecchio calzolaio, Javier [Jonathan Pryce: Brazil, The wife – Vivere nell’ombra], che era diventato il suo protagonista e che non è mai più riuscito ad uscire dalla parte.

L’uomo che uccise Don Chisciotte

Ma il suo piccolo e modesto film non ha finito di provocare sventure: come altri del posto – Los Sueños è il nome del paesello (ammicco!) – anche Toby dovrà assecondare il redivivo “cavaliere dalla triste figura” che lo ha eletto suo fedele scudiero e così facendo ritroverà perfino un amore dimenticato, la dolce Angelica [Joana Ribeiro], non più “donna angelicata”, ma anch’essa vittima della situazione e corrotta dal desiderio di gloria, fama e ricchezze.

La convivenza con la fantasia sfrenata di Javier gli fa perdere l’aderenza con la realtà fino a viaggiare al suo fianco fra tornei cavallereschi improvvisati, giganti da sconfiggere, donzelle da salvare, cattivi da uccidere e grandi imprese da compiere per rinnovare gli antichi valori perduti di un’epoca fantastica in tutti i sensi.

Follia. Amore e morte. Eros e Thanatos. Follie d’amore. Amore per i classici. Amore e passione. Passione per il cinema.

Tematiche che Gilliam riesce nell’intento di racchiuderle in scatole intrecciate e comunicanti in un intricato gioco di intarsi che si uniscono e danno vita a nuove riflessioni che s’incastrano in un flusso continuo simile alle famose scale di Escher.

Questo straniamento dalla realtà, in un percorso onirico che porta alla luce sogni e rimossi freudiani, insieme al suo contrario, la contaminazione del fantasy con elementi della realtà, è un tema ricorrente nella sua filmografia: Brazil, Tideland, Le avventure del Barone di Munchausen, L’esercito delle 12 scimmie, Time bandits, The Zero Theorem, Parnassus.

Tutti questi ribaltamenti trovano il contraltare nel film che pubblico e critica hanno bollato quasi unanimemente come anomalia che va controcorrente al resto: I fratelli Grimm e l’incantevole strega. La verità è che in quel diverso contesto, dove è chiara la matrice fiabesca, il regista va ad operare comunque un twist concettuale esplicitando le basi reali che, rielaborate dagli scrittori sottoforma di allegorie, portano proprio alla scrittura della fiaba. La coerenza del lavoro di contaminazione reciproca tra fantasia e realtà risulta ancora più evidente dopo L’uomo che uccise Don Chisciotte, e soprattutto sapendo che a questa trasposizione ci lavora da 25 anni.

L’uomo che uccise Don Chisciotte

Considerata nella sua totalità, la fase di produzione attraversa come un meteorite sconosciuto tutta la pazzesca filmografia del Monty Python regista. Quante volte Terry Gilliam deve aver sfiorato l’estinzione! Deve essersi davvero sentito un dinosauro se nel frattempo ha deciso di scrivere la sua autobiografia pre-postuma quando ha ancora così tanto da dire!

Di solito la si pubblica perché si è messo un punto. Quindi è l’ultimo film? È stato preso da megalomania? È furbo? Forse un po’, ma se t’incaponisci tutto questo tempo su un progetto fatto e disfatto talmente tante volte che sembra maledetto, forse non è furbo il termine che tutti penserebbero… Pazzo? Sì, forse è un vocabolo più calzante, ma se s’intende una follia buona, quella che va a braccetto con la creatività, quel caos interiore che fa partorire una stella capace di danzare.

A mio parere, l’autobiografia sancisce un traguardo raggiunto, come una maturità o una laurea e il film L’uomo che uccise Don Chisciotte rappresenta l’elaborato di fine corso. È mettere un punto su qualcosa che sembrava irrealizzabile. È celebrarne la riuscita in faccia a chi non voleva e tuttora bistratta per invidia. È mettere il punto e lasciare un’eredità per chi vuol capire e per chi verrà a scontrarsi con gli stessi problemi. Mi piace pensare che sia un punto ma che si possa voltar pagina e trovare nuove pagine bianche da riempire con la stessa passione, goliardia, fantasia e autoironia che sono per questo autore un marchio di fabbrica distintivo.

L’uomo che uccise Don Chisciotte

«Credo che Terry abbia continuato a ritardare questo film solo per farmi invecchiare abbastanza da poter interpretare Don Chisciotte. E così è stato!»

Jonathan Pryce

Sono note a tutti ormai le vicissitudini che hanno portato a procrastinare le riprese del progetto iniziale, grazie al documentario Lost in La Mancia. Quello che però è poco noto è che pare che una maledizione aleggi sopra chiunque sia intenzionato a trasporre l’opera di Cervantes. Un nome su tutti: Orson Welles. L’idea del suo Don Quixote nasce nel 1955 mentre si trovava in Spagna per alcune riprese organizzate dalla RAI, ma durante la lavorazione, il regista ha visto dilatarsi la mole di girato ben oltre l’immaginabile fino a perderne probabilmente il nucleo tematico dominante e diventando uno, nessuno e centomila film possibile e, quindi, di fatto, impossibili. Oggi di tutto quel lavoro resta un mediometraggio montato da Jess Franco, che solo in una minima parte rende giustizia alla genialità di Welles. Da quello che si evince si trattava di un film fortemente sperimentale – come quello di Toby (ammicco ammicco!) – nelle intenzioni, un’opera con una forte connotazione metacinematografica – come l’opera di Gilliam – e con gli unici quattro attori lasciati completamente liberi di improvvisare.

Fortuna per tutti che la maledizione sia finita per L’uomo che uccise Don Chisciotte e che possiamo dire «Quixote vive». D’altronde, si sa, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi e così mi sembra giusto che la mente ingegnosa di Terry Gilliam abbia partorito, come Bugs Bunny, 1001 modi per ingannare il diavolo, meglio di Parnassus. È la scelta del titolo a scatenare questa riflessione, molto più della trama, annodata come un tappeto persiano tra sogno e realtà.

Non “Don Chisciotte” e nemmeno “Don Chisciotte” con un sottotitolo tipo “un’avventura ai confini del sogno” o “la maledizione del tristo cavaliere”… bensì L’uomo che uccise Don Chisciotte.

Ok, “Don Chisciotte” c’è, ma non puoi certo esimerti dal citarlo, sarebbe finezza d’altri tempi e poi il suo nome è una condensazione di immagini, un cluster che rappresenta più concetti per antonomasia.

Don Chisciotte è affetto da una sorta di sindrome di Stendhal: legge i classici nel Seicento e questo vuol dire che s’immedesima in personaggi epici che sono eroi dalle scintillanti armature che viaggiano nel mondo per renderlo migliore, lottando contro il Male, armati soprattutto di virtù cavalleresche che sono poi andate perse nel tempo con il progresso tecnologico. Don Chisciotte ne raccoglie l’eredità, fa suoi quei valori, li incarna, ma ostinandosi a portarli avanti in un mondo che non li riconosce più. Così diventa il diverso che non è omologato e che rifiuta di esserlo. Lo rifiuta a tal punto da aderire ad un mondo di fantasia che diviene la sua personale evasione. La condizione è talmente radicata in lui da non riuscire più nemmeno a separare ciò che è reale da ciò che è mera illusione. Perciò non è pazzo di per sé ma abbraccia la follia poiché è l’unica “realtà” in cui riconosce se stesso, in cui ama se stesso, e nel film di Gilliam questo concetto è strettamente legato a quello di eredità. È come se Don Chisciotte volesse insegnare a vivere a chi è intorno a lui scegliendo un destino tanto epico nella teoria quanto sfortuna nella pratica, piuttosto che morire dentro senza far nulla mentre la vita scorre secondo omologazione di un modello diffuso. La morte è, quindi, considerata parte del percorso intrapreso, la fine di un’avventura personale che potrebbe sancire l’inizio di un’altra storia per chi eredita quella “fortuna”.

Ma il vero enigma che rimane da risolvere è chi sia L’uomo che uccise Don Chisciotte – e probabilmente è anche giusto che il mistero rimanga tale per non lasciare la sfinge senza enigmi. Ma proviamo comunque a formulare qualche congettura dato che non genera nessuno spoiler. Il titolo del film è usato nella maniera ermetica di Ungaretti come un verso in più, per aggiungere significato al resto e moltiplicare le chiavi di lettura.

L’uomo che uccise Don Chisciotte

Dalla tematica del cinema in quanto macchina delle illusioni potremmo essere portati a pensare che sia stato quel “maledetto” film su Don Chisciotte ad “uccidere” l’identità del calzolaio Javier che è rimasto imprigionato nella parte e poi la passione e spontaneità del regista sperimentale Toby per mano della sua copia meschina ed egoista creata dal successo. Le promesse non mantenute, i desideri non esauditi, però, significherebbero una critica estremamente negativa del cinema prima che dello show biz, non certo nuova per Gilliam. Un messaggio non tanto diverso da quello de L’uomo delle stelle di Giuseppe Tornatore. Di nuovo “l’uomo” nel titolo, quasi a voler sottolineare la fallacità umana, a voler attribuire ai comportamenti delle persone le magagne di un’industria cinematografica che sappiamo benissimo quanto sappia investire sul personaggio che rappresenta la moda del momento e non accordare finanziamenti per un progetto culturalmente di interesse nazionale e internazionale come L’uomo che uccise Don Chisciotte.

Chi altro può aver ucciso Don Chisciotte? È possibile si tratti dell’uomo in generale. L’uomo moderno ha ucciso l’hidalgo di Cervantes dal momento che ha abbandonato i valori che lui amava. L’uomo postmoderno, come potrebbe essere Toby insieme al suo entourage, potrebbe aver ucciso l’opera dimenticandone la lezione di vita e preferendo l’ambizione di gloria, fama e ricchezze.

Il gitano viene chiamato “Diaz ex machina” negli end credits per alludere alla sua funzione

Oggi sono in tanti a riscoprire questo classico della letteratura e a proporne delle interpretazioni o a citarlo senza travisarne il messaggio. Dopo Gilliam, anche Galder Gaztelu-Urrutia ha voluto sfruttarne gli insegnamenti per caratterizzare il protagonista del suo Il buco. Se per la produzione spagnola si tratta di un parallelismo metaforico che risulta più politico-sociale, nel visionario Monty Python è la riflessione sulla condizione umana – sul senso della vita! – in tono poetico con spunti riguardanti il retaggio per i posteri, la sottile linea tratteggiata che separa il sogno dalla realtà e la “follia” dall’omologazione travestita da “normalità”, ma soprattutto su cosa si possa o si debba considerare leggendario. Il significato di questo usatissimo gerundio latino, leggenda, è “le cose che sono da leggere”, degne di essere lette. E chi lo decide cosa è degno di entrare nella leggenda? Ormai troppo spesso questo compito è affidato alla moda o all’eccentricità piuttosto che all’esemplarità di pensiero e azione. Se anche voi confrontate con disprezzo i cartoni animati di oggi, privi di messaggi e valori, con quelli degli anni ‘70/’80, forse fin troppo da adulti a volte, allora sapete quanto possa essere attuale il nucleo tematico del Don Chisciotte e quanto sia geniale Gilliam ad averlo attualizzato in una critica allo show business.

E ad incaponirsi a finirlo ne aveva ben donde!

«Penso che il problema di Don Chisciotte sia che quando ti appassioni a questo personaggio e a quello che rappresenta, diventi tu stesso Don Chisciotte. Ti muovi nella follia, determinato a trasformare la realtà nel modo in cui la immagini. Ma che, ovviamente, si rivela molto diversa.»

Terry Gilliam
L’uomo che uccise Don Chisciotte

Infine, un fanatico di cinema classico potrebbe riconoscere una certa assonanza di titoli con uno dei migliori film di John Ford: L’uomo che uccise Liberty Valance. Un western più che crepuscolare dove un John Wayne in grande spolvero interpreta un cowboy solitario che lascia in eredità un west da rivoluzionare all’avvocato James Stewart. Costui non è di certo un pistolero provetto, ma di sicuro ha le qualità per essere un “cavaliere senza macchia e senza paura”, una figura positiva molto più utile per un nuovo mondo in cui sono la legge e l’inchiostro non il piombo dei proiettili a compiere imprese eroiche. Come il Don Chisciotte di Cervantes e di Terry Gilliam il personaggio interpretato magistralmente da John Wayne risulta fuori luogo e fuori (dal) tempo in un’epoca di innovazione politica e sociale. Come Don Chisciotte rimane un nostalgico amante dei bei tempi andati e quando i tempi cambiano in nome del progresso o ci si eclissa con loro in silenzio e solitudine o si può lasciar spazio al giovane lasciandogli in eredità un messaggio indimenticabile, immortale come una leggenda che sa andare al di là di ogni menzogna, oltre ogni illusione, verso un orizzonte che è al tramonto per qualcuno e all’alba per chi verrà dopo.

Come ne L’uomo che uccise Don Chisciotte e in Cervantes, nel metawestern di Ford svelare la menzogna non comporta di rendere pubblica la verità, che resta il fardello di un eroe incompreso per sempre.

«Qui siamo nel West, dove se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda».

L’uomo che uccise Don Chisciotte

In una realtà senza paladini, l’eroe appartiene al mondo dei sogni, non può che venire dal paese di Los Sueños e lì tornare, come un eterno Peter Pan in una Neverland dove si può essere indifferentemente bambini sperduti o leggende viventi: tutto dipende da quanto si è giovani dentro, da quanto si riesce ancora a sognare ed essere felici, di ciò che si ha e di ciò che si è.

Anche le mie parole non rimarranno immortali, per quanto lette, rilette, amate, odiate, capite ma non comprese; ve ne dimenticherete perché così è la vita, non ve ne dovete rammaricare se non me ne rammarico io. Ma se c’è un piccolo granello di sabbia splendente che vi rimane nel cuore, è proprio per quel momento di evasione che vi si è offerto. Un pensiero felice e puoi volare.

Grazie, Terry!

L’uomo che uccise Don Chisciotte

BlacKkKlansman, di Spike Lee

Vincitore del Grand Priz della Giuria a Cannes 2018, BlacKkKlansman di Spike Lee rappresenta una nuova maturazione della poetica del regista di Atlanta. Dopo le prove non certo idilliache degli ultimi anni – è sufficiente ricordare Red hook summer o Il sangue di Cristo, senza arrivare al povero remake di Old boy, mai perdonato dai veri fan del Maestro – con BlacKkKlansman, si ritorna alle tematiche sociali raccontate attraverso storie solo all’apparenza banali e ad un’estetica non più esasperata fino all’insopportabile eccesso, ma funzionale alla trama e, soprattutto, al messaggio che si vuole veicolare attraverso il film. Un messaggio che ha l’effetto di uno schiaffo ben assestato in un turbinio di risate: zittisce ogni superficiale commento populista e fa riflettere anche dopo i titoli di coda. Purché si abbia un cervello, logicamente.

La storia di un poliziotto che deve sgominare i complotti di un’organizzazione criminale è un plot come tanti, tantissimi film, forse migliaia.

Ma aggiungiamo che il poliziotto in questione sia afroamericano e che il Male da sconfiggere sia il famigerato Ku Klux Klan (KKK): ecco che il materiale che può far gola allo Spike Lee di capolavori come Fa’ la cosa giusta e Clockers inizia a prendere forma e a risvegliare quella coscienza forse sopita a causa di un’ispirazione non pervenuta.

Poniamo, poi, il caso che questo detective senta in sé una missione, frutto di un mix di inconscia ambizione e di assurda incoscienza:

Per combattere in prima linea la discriminazione razziale, Ron Stallworth [John David Washington] non è solo determinato ad essere il primo afroamericano ad entrare nel corpo di polizia di Colorado Springs. Vuole realizzare un’impresa mai neanche tentata prima di quel fatidico 1979: ottenere la possibilità di infiltrarsi tra le fila del KKK per smascherare le loro macchinazioni sotto traccia e la copertura politica di cui hanno sempre tacitamente goduto. Per uno come lui, dalla parlantina spigliata e dalla battuta pronta, basta una telefonata, ma una volta ottenuta telefonicamente la fiducia come può presentarsi di persona? Occorreva inventarsi qualcosa di valido ed il colpo di genio, in realtà vecchio come una commedia di Plauto o Terenzio, è la sostituzione, il classico scambio di persona. Così ad entrare in scena al posto suo sarà il collega Flip Zimmerman [Adam Driver], ebreo non praticante, innescando un crescendo di tensione man mano che si disinnescano gli equivoci e si scoprono i piani del nemico.

«Mi sento continuamente come fossi due persone».

Nel frattempo, su un fronte che più parallelo e in contrasto non si può, Ron è impegnato ad indagare sui piani di “rivoluzione” del comitato studentesco del Colorado College, dove una bella quanto forte presidentessa, Patrice Dumas [Laura Harrier], promuove attivamente il Black Power e i comizi di Stokely Carmichael [Corey Hawkins], il leader carismatico del gruppo. Un’organizzazione “alla luce del sole” per la rivendicazione dei diritti della popolazione afroamericana contrapposta ai fautori del White Power, della supremazia bianca, del nazionalismo bianco o come lo si voglia chiamare per dire “razzisti anacronistici e ignoranti”, con il loro cosiddetto “impero invisibile”, capeggiato da un David Duke che, nell’interpretazione di Topher Grace, risulta non meno misero, goffo e insignificante dell’originale dietro quella sua maschera da semplice e pacifico cittadino americano. Il David Duke di BlacKkKlansman è un personaggio che si fa portavoce di tutta quella retorica della politica di Donald Trump, criticata anche nelle immagini di repertorio presenti nell’inserto che conclude il film.

«L’America non eleggerebbe mai uno come David Duke».

Se a questo punto vi svelassero che il film è tratto da una storia vera, che la sceneggiatura è stata costruita a partire dal libro del detective Ron Stallworth, pubblicato nel 2014 proprio con il titolo Black Klansman? Da non credere? No. Ormai, dopo tante esperienze di biopic, mockumentary e meta cinema ci siamo desensibilizzati al punto da non lasciarci impressionare più di tanto. Ma questo, in fondo, più che alla trama giova al messaggio, veicolato ovviamente dall’intero film ma reso esplicito soprattutto da un inserto cinematografico, inteso come insieme d’immagini estraneo allo spazio e al tempo diegetico.

«This joint is based upon some fo’ real, fo’ real shit».

Questa trama, già di per sé estremamente pregna di significanti più o meno evidenti e spunti di riflessioni da trascorrerci ore, è infatti racchiusa in due inserti collegabili “solo” ideologicamente ad essa ed al messaggio insito in essa. Nell’incipit Spike Lee propone un cameo molto particolare: Alec Baldwin [The cooler, Zona d’ombra, Getaway], che ha già abbondantemente ridicolizzato Trump con la sua imitazione da antologia al Saturday Night Live, interpreta un senatore razzista ripreso in stile mockumentary nell’atto di registrare un discorso di propaganda elettorale: mentre esalta i presunti «valori dei bianchi protestanti» e demonizza parità, integrazione e matrimoni misti, viene proiettata sulla sua figura qualche scena del film Nascita di una nazione, di David Wark Griffith, una delle opere più importante della storia del cinema mondiale per aver introdotto e diffuso le regole del montaggio analitico con i suoi raccordi sull’asse, sullo sguardo, sugli oggetti e sui movimenti creando quello che poi è diventato un vero e proprio linguaggio tecnico. Il caso, o più probabilmente, un’assurda macchinazione alle spalle del regista, ha voluto che proprio quando le scene si facevano più dense sul piano tecnico-formale, la trama – si tratta, infatti, del primo film narrativo della storia – deviasse verso un risvolto nichilista, sottolineato dal primo montaggio alternato in parallelo, ponendo i membri incappucciati del KKK nella parte dei cavalieri salvatori della patria in contrapposizione ai neri visti come delle bestie senza regole e senza cultura. Sin dalle prime proiezioni il film ispirò proteste, disordini, persino omicidi. Si dice addirittura che da allora il KKK sia rinato a nuova vita. Profondamente turbato Griffith girerà subito Intolerance che condannava ogni forma di violenza e intolleranza, ma ormai il potere del medium di massa aveva avuto i suoi effetti devastanti.  In BlacKkKlansman, Spike Lee prende coraggiosamente posizione nei confronti di chi continua a strumentalizzare i media e diffonde un nuovo messaggio In questo senso potrebbe essere considerato il capolavoro assoluto del regista, il film della maturità acquisita, come avremo modo di analizzare tra poco. Tornando agli inserti, quello finale, invece, è un vero e proprio schiaffo che risveglia le coscienze: un montaggio giustapposto di immagini di repertorio in cui si documentano gli scontri di Charlottesville che hanno portato alla morte di Heather Heyes e i commenti imbarazzanti e fuoriluogo di Donald Trump e David Duke, quelli reali, ed è davvero il caso di aggiungere un “purtroppo”.

«Mi serve il fascicolo di un “ROSPO».

A parte il cameo del regista, l’ambientazione a Brooklyn e gli end credits evocatici, che stavolta si sarebbero rivelati fuoriposto, tutta la poetica, lo stile e le ossessioni di Spike Lee tornano in questo memorabile BlacKKKlansman. E la maturità sta nel fatto che ogni cifra stilistica o elemento poetico è funzionale alla trama o all’intreccio.

Per quanto riguarda la POETICA:

  • tematiche sociali, in questo caso alleggerite dai temi del doppio, dello scambio di identità e della loro negazione, il mimetismo (da attribuire forse più ai coproduttori Jordan Peele (regista di Scappa – Get out) e Jason Blum della Blumhouse Production (La notte del giudizio – Election year, The visit);
  • lotta al razzismo;
  • personaggi femminili forti;
  • attenzione ai dialoghi, mai banali, ma casomai referenziali o autoreferenziali;
  • attenzione nella scelta della musica, sempre ricercata e significativa (Too late to turn back now, per fare un esempio su tutti)
  • citazioni culturali, cinematografiche, metacinematografiche e riguardanti l’attualità.

Le SCELTE STILISTICHE prevedono:

  • fotografia caratterizzata da colori saturi, senza eccedere stavolta;
  • contrasti marcati, stavolta meno “rumorosi” rispetto al solito.

Fino ad arrivare alle cosiddette “CIFRE STILISTICHE” che diventano delle firme personali dell’autore:

  • attori che parlano verso la mdp e relativo sfondamento della parete “proibita”;
  • la famosa “wake-up-call”, la telefonata che sveglia, immancabile;
  • il “double-dolly-shot”, anch’essa immancabile: si tratta di una sequenza in cui il personaggio è inquadrato con un piano ravvicinato, mentre è immobile sul carrello in movimento. Il risultato è uno straniamento dello spettatore che percepisce l’immobilità del soggetto rispetto al cambiamento dello sfondo intorno.

John David Washington [The Old Man & the Gun, Love Beats Rhymes, Malcolm X], ex giocatore di football americano ma, soprattutto, figlio di quel Denzel Washington [Barriere, The equalizer, I magnifici 7] che è stato protagonista di parecchi Spike Lee’s Joint [Malcolm X, Inside man, He got game], ha conquistato pubblico e critica, donando al suo personaggio la spavalderia tipica della sua gente e il posato raziocinio dell’eroe senza macchia e senza paura che occorreva per rendere più evidente il contrasto tra tematica e messa in scena e tra i toni della commedia e la realtà drammatica dei fatti.

«Improvvisa! Come nel jazz!».

Oltre ai già nominati Adam Driver [L’uomo che uccise Don Chisciotte, Star Wars: Il risveglio della forza, Star Wars: Gli ultimi jedi], Topher Grace [Interstellar, Truth – Il prezzo della verità, Spider-Man 3], Laura Harrier [Spider-Man: Homecoming, Fahrenheit 451 serie tv], Corey Hawkins [Straight outta Compton, Iron Man 3, Kong: Skull Island], del cast, fra new entry e vecchi amici, fanno parte anche Ryan Eggold [La scomparsa di Eleanor Rigby, Padri e figlie, 90210 serie tv], Jasper Pääkkönen [Vikings serie tv], Robert John Burke [Miracolo a Sant’Anna, Person of interest serie tv], Ken Garito [S.O.S. – Summer of Sam], Paul Walter Hauser [Tonya], Ashlie Atkinson [The wolf of Wall Street, Inside man].

A completare il cast due fratelli d’arte. Uno è Michael Buscemi [Animal factory, Insieme per forza] il fratello del più famoso Steve Buscemi. L’altro è una vecchia conoscenza del regista e presente in Fa’ la cosa giusta, Mo’ better blues, Jungle fever e Malcolm X. Si tratta di Nicholas Turturro, fratello di John Turturro, che ha quel ruolo che sin dalla tragedia greca viene definito deus ex machina, ovvero un personaggio, il più delle volte una divinità, che compare improvvisamente sulla scena per dare una risoluzione ad una trama ormai irrisolvibile secondo i classici principi di causa ed effetto; tale espressione è ora, di fatto, assunta per indicare un evento o un personaggio che risolve inaspettatamente la trama di una narrazione, al punto di apparire altamente improbabile o come il risultato di un evento fortuito.

Cameo fondamentale inoltre quello affidato ad Harry Belafonte su un montaggio alternato che crea un parallelo tra il suo intervento all’incontro con gli studenti afroamericani ed il “battesimo” dei nuovi adepti suprematisti del KKK. Un montaggio alternato che può scolpirsi nella memoria come quello de Il padrino, sempre con un battesimo di mezzo, stavolta il rito cristiano è per un neonato, abbinato all’ascesa al potere del nuovo boss.

Dopo la standing ovation di sei minuti, e il premio ovviamente, a Cannes 2018, BlacKkKlansman ha ricevuto un’ottima accoglienza anche negli Stati Uniti, complice anche la scelta di farlo uscire il 10 agosto, anniversario di Charlottesville.

«– Test della verità? Colpi di pistola? Volete coglionarmi? è un dannatissimo bordello! Aaah… teste di cazzo! Mi prendete per il culo? Tu mi stai intortando, tu mi stai intortando, il capo me lo sta mettendo in quel posto: è una grande inculata collettiva! Vi fa ridere? perché se Bridges lo viene a sapere, tutta questa cazzo di operazione verrà chiusa. Sì, fa ridere… E io verrò mandato davanti a una scuola del cazzo nel fottuto ghetto di Five points!
– Ma lo verrà a sapere, Sergente?
– Verrà a sapere che cosa? (buttando il fascicolo in un cassetto)».

BlacKkKlansman è una black comedy dove il riso diventa amarissimo con lo schiaffo della realtà dei fatti di Charlottesville. Per l’intero film si può ridere con le lacrime agli occhi ma sui titoli di testa, viceversa, non ci è permesso piangere con il sorriso: è un pianto di rabbia.

«Non volevo certo che la gente uscisse dal cinema ridendo».

Quello che per altri film di genere costituirebbe l’obiettivo finale, in BlacKkKlansman si trasforma in pochi secondi nel setting di un’altra storia ben più profonda (il riferimento è all’accettazione senza precedenti di un afroamericano nella polizia di Colorado Springs). Il tema del razzismo, tanto caro a Lee, si unisce a quello dell’emancipazione, creando una fitta rete di rimandi. Così il discorso non si limita all’accettazione di un nero nella polizia, ma diventa lotta contro quell’impero invisibile che, celato dietro una maschera da rispettabili membri di una società in giacca e cravatta che non ammette intrusioni esterne, estranee – nemiche, ostili come si tramanda nel termine latino hostes – al loro circolo chiuso, che reputano virtuoso così com’è. Nemmeno le donne vi sono ammesse. Le loro donne. La critica di Spike Lee alla società attuale passa attraverso quest’ambientazione anni ’70, prende come pretesto la storia di Ron Stallworth e poi la trascende, spingendosi a sovrapporre parallelismi forti: l’ebreo non praticante che si trova a dover difendere le proprie origini in un ambiente ostile; l’afroamericano che viene emarginato dai suoi stessi fratelli in quanto poliziotto; il poliziotto nero che deve sentirsi bullizzato nel suo ambiente di lavoro dai suoi stessi colleghi; la donna che non risulta mai abbastanza credibile come sesso forte o che non avere pari opportunità reali sulla scena politica – o terroristica, per giunta! – se non in ruoli secondari, da gregario.

«Sono abbastanza rispettoso per te, agente “ROSPO”?».

BlacKkKlansman è una black comedy dove l’aggettivo non indica il colore della pelle: dietro la farsa, dietro le risate, seppur spesso amare, si fa largo una riflessione profonda sul senso di appartenenza ad una comunità e ad una nazione che finalmente siano unite ed emancipate da ogni forma di intolleranza, sul confine che deve esistere tra rivendicazione dei diritti e terrorismo e su tanti elementi che sembrano insignificanti se non si guarda il quadro generale: la blaxploitation operata dal cinema negli anni ‘70/’80 [si citano Cleopatra Jones, Coffy, Superfly e Shaft, complici, come Tarzan e Via col vento, nella diffusione di dinamiche sociali sbagliate o distorte] o i luoghi comuni che stentano a scomparire sono additati da Lee alla stessa stregua dei discorsi assurdi dei suprematisti bianchi, perché contribuiscono a diffondere immagini che danneggiano il popolo afroamericano. La critica non si limita, quindi, a demonizzare il succitato Nascita di una nazione di Griffith, ma si allarga a puntare il dito sul potere che i media esercitano sulla massa, sulla politica, che è troppo spesso un ulteriore modo di vendere odio, sull’irrazionalità che c’è dietro certi discorsi, certe spiegazioni, sulla giustizia che non esiste senza la verità e su una verità soggettiva che non può generare una giustizia violenta e sommaria. Mai.

Curioso che Adam Driver sia contemporaneamente nelle sale cinematografiche italiane con L’uomo che uccise Don Chisciotte di Terry Gilliam, che tocca alcune tematiche simili: la ricerca di una reale verità e il forte condizionamento – un rumore, un disturbo sarebbe meglio dire – dei mass media sull’opinione del pubblico e sui suoi desideri di felicità.

The wife – Vivere nell’ombra, di Björn Runge

Tratto dal romanzo omonimo di Meg Wolitzer, The wife è un film ordinario nella sua forma più classica, dotato di una certa robustezza emotiva, ma privo di un editing che ne dinamizzi le scene o ne svecchi il decoupage. Qualche tecnicismo di natura registica non avrebbe di certo tolto interesse alla storia in sé. Così, a coinvolgere lo spettatore rimangono “solo” la sceneggiatura, magari non troppo moderna né coraggiosa, della pluripremiata Jane Anderson e la recitazione di tutto il cast, quella davvero al di sopra delle aspettative.
La sorpresa non è tanto nell’interpretazione di Jonathan Pryce, protagonista già in Brazil e in L’uomo che uccise Don Chisciotte di Terry Gilliam, ma forse dalla maggior parte degli spettatori conosciuto per il ruolo dell’Alto Passero nella serie televisiva di gran successo Il Trono di Spade. E di certo nessuno può pensare che Glenn Close [La ragazza che sapeva troppo, Seven Sisters e, ovviamente, Attrazione fatale] possa non rendere qualsiasi interpretazione come qualcosa di memorabile.


L’inaspettato giunge, invece, dai cosiddetti figli d’arte: Max Irons, figlio di Jeremy Irons e dell’attrice irlandese Sinéad Cusack, dopo essere passato un po’ inosservato in film come The host e Cappuccetto rosso sangue, si cala bene nel ruolo di David, il figlio deluso della coppia di protagonisti, aggiungendo forse qualcosa di autobiografico; ancora più sorprendente è stato, invece, poter apprezzare la figlia di Glenn Close, Annie Starke, nata dalla relazione con il produttore John H. Starke. Alla sua prima parte di un certo livello, non fa di certo pensare ad una raccomandazione tra le più classiche. Più di ogni altra considerazione si fa largo il pensiero che buon sangue non menta: Annie interpreta lo stesso personaggio della madre ma la versione giovane nei flashback e riuscire a riconoscere certi sguardi altamente espressivi e vedere quanto possa donare al pubblico, vale già il prezzo del biglietto.
«Io adoro scrivere: è la mia vita».

A completare il cast c’è anche Christian Slater [Intervista col vampiro, Nymphomaniac] che interpreta Nathaniel Bone, un giornalista che aspira a scrivere la biografia dello scrittore e che cerca, perciò, di portare alla luce non i fiori ma le spine di quel roseto che sembra essere la vita dei due protagonisti. Non è Quarto potere di Orson Welles, questo è da dire anche se scontato, ma il giornalista risulta fondamentale come espediente narrativo per scavare all’interno dei personaggi e per scatenare la riflessione.


The wife diventa, così, pretesto per discutere di guerra dei sessi, discriminazione femminile soprattutto in una delle cattedrali della società patriarcale: l’editoria. Assurdo che per certi versi non sia cambiato molto in quell’ambiente da quando la nostra Sibilla Aleramo lottò per pubblicare il suo Una donna e ancor di più per emanciparsi e autodeterminarsi liberamente secondo le proprie volontà. Assurdo anche che un’occasione come questa di trasporre per il cinema il coraggioso romanzo di Meg Wolitzer si riduca ad una tiepida protesta: il pubblico di oggi, abituato a tifare per la libertà di June e delle altre ancelle nella serie tv The handmaid’s tale forse avrebbe bisogno di un po’ più di profondità se non di azione.
«Ho letto i primi lavori giovanili di Joe… strano quanta sia migliorata la sua scrittura dopo aver conosciuto lei!».

The wife è la storia di una donna forte quanto sfortunata, la cui unica colpa risulta essere quella di aver scelto per la vita un uomo che non la merita. Quante storie di questo tipo avrete sentito raccontare da amici o familiari? Addirittura, nella peggiore delle ipotesi, potreste aver vissuto qualcosa di simile.
«Credo che lei sia stufa e stanca di essere invisibile».

La storia, incastrata in un film che purtroppo non si distacca dalle norme del cinema classico americano e dalla sua forma quanto mai rassicurante, ha un sacco di tempi morti che, però, permettono di apprezzarne, appunto, la recitazione e di riflettere. La storia è importante e rispetta i canoni del film da premio Oscar: come sempre si tramanda, giustamente, se non si ha nulla da raccontare è inutile prendere una penna in mano, mettersi davanti ad una tastiera a scrivere o dietro una macchina da presa a girare. Da raccontare E per una valida narrazione che sappia coinvolgere occorre un conflitto.  Figuriamoci in un film in cui si parla di narrazione in maniera per nulla marginale.

In The wife il conflitto principale riguarda l’autodeterminazione. Subito è sotto gli occhi dello spettatore come l’equilibrio iniziale sia un mero castello di carte:

un anziano scrittore di romanzi di successo, Joseph Castleman [Jonathan Pryce], sta per essere premiato con il Nobel. Nel viaggio verso il coronamento di una carriera magistrale lo accompagnano la moglie Joan [Glenn Close] e il figlio David [Max Irons]. David aspira a seguire le orme del padre, lo idolatra ma senza ottenere né considerazione né tantomeno l’approvazione desiderata. Joan, per il suo Joe, ha rinunciato a qualcosa di ben più grande, per lui ha vissuto una vita di rinunce, di segreti e di menzogne, da promettente romanziera a figura dimessa e marginale, costretta nel ruolo di moglie devota, pronta a sostenerlo nei momenti difficili, a colmarne le mancanze, a ricucire rapporti, a mediare con estrema diplomazia ogni rottura e ad insabbiare con assoluta discrezione qualsiasi scandalo o scappatella.
«Chi è Hersilia Fry?».

Le luci della ribalta quali scheletri tireranno fuori, in quale mostruoso abisso getteranno il loro sguardo inquisitorio?

Il fatto che l’ostacolo al successo di ognuno dei personaggi sia proprio la persona che sta per essere premiata con la più alta onorificenza nel campo della Letteratura rende la storia ben più complessa di un normale conflitto familiare.

Si dice che dietro ogni eroe si celino angoli bui che è meglio tener nascosti, ma cosa può accadere se l’eroe è solo presunto tale, se si è macchiato di un delitto, seppur figurato, distruggendo i sogni letterari della moglie, e non solo i suoi?

Oltre alle riflessioni sul ruolo femminile e sulle delusioni dei figli d’arte, il film punta a ragionare su cosa possa esserci ancora di vero in un mondo in cui, per aver successo, bisogna scendere a patti con i lati oscuri della propria anima, un mondo per cinici calcolatori, esperti di statistiche e marketing. C’è ancora una speranza di meritocrazia? È possibile una sensibilità indiscriminata nei confronti dell’Altro in quanto diverso da noi, ma egualmente meritevole di opportunità di fortuna, come si domandava in altri tempi Cicerone?

Per quanto riguarda i brani musicali è Jocelyn Pook a commentare le scene per lo più con musica da camera priva di brillantezza. Pook ha acquisito risonanza internazionale componendo la colonna sonora del film di Stanley Kubrick Eyes Wide Shut, celeberrimi i brani relativi alla sequenza del ballo in maschera. Altra perla non sfruttata nella maniera adeguata.

In conclusione, The wife è un film che interessa ma non affascina, che fa riflettere ma non illumina. E nell’ombra è difficile brillare.

Di rilievo, per contro, un tentativo di chiudere una struttura ad anello con la citazione verbale e visiva di un verso di James Joyce:
«La sua anima si dissolse lentamente nel sonno, mentre ascoltava la neve cadere lieve su tutto l’universo, come la discesa della loro ultima fine, su tutti i vivi e su tutti i morti».

Presentato in anteprima mondiale al TIFF 2017, The wife è pronto per approdare nelle sale italiane dal 4 ottobre 2018.

Sette minuti dopo la mezzanotte, di Juan Antonio Bayona

Sette minuti dopo la mezzanotte [A monster calls nella versione originale] è un film intenso, dalla grande potenza emotiva, che coinvolge e intenerisce, mentre sullo schermo una realtà diegetica avversa al giovane protagonista si alterna con una dimensione parallela in cui si perde il confine fra sogno e realtà.

Si tratta della trasposizione del romanzo ideato da Siobhan Dowd e portato a termine da Patrick Ness, vincitore nel 2012 della Carnegie Medal per la letteratura (dall’infanzia allo young adult) e della Kate Greenaway Medal per le illustrazioni di Jim Kay, un disegnatore fortemente voluto anche da J. K. Rowling per illustrare i suoi Harry Potter.

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Un doppio nodo lega la trama del libro con la genesi del romanzo: la malattia, che non ha permesso all’autrice di concluderlo, e la ferma volontà di chi le era accanto di non scrivere la parola “fine” su un progetto che ne avrebbe perpetuato la memoria. Un legame che non è sfuggito al regista Juan Antonio Bayona che è stato da subito fortemente attratto dal romanzo, trovando nelle sue pagine argomenti che aveva già esplorato in The Orphanage e The Impossible, «personaggi che si trovano in una situazione particolarmente intensa, su cui incombe la morte». Una morte che non è intesa come fine di un percorso, ma come inizio di una nuova avventura ad un livello ulteriore, concetto che rimanda all’origine ancestrale della fiaba come rito d’iniziazione delle comunità primitive e che è una delle prerogative del film.

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«Questa storia inizia come tante altre storie con un bambino troppo grande per essere un bambino e troppo piccolo per essere un uomo… e con un incubo».
Conor O’Malley [Lewis MacDougall] ha 12 anni e l’adolescenza, si sa, è un periodo cruciale della vita. Per lui ancora più difficile, costretto com’è a crescere troppo in fretta per la separazione dei genitori e la malattia visibilmente degenerativa della mamma [Felicity Jones]. In questo contesto già avvilente si aggiunge la beffarda mano del destino che mette il ragazzo nel mirino dei bulli della scuola. Diviso fra il sopportare e il reagire, ma conscio di dover risolvere i propri problemi in qualche modo, Conor rimane suggestionato dalla visione di King Kong, la versione originale del 1933, e così immagina che il tasso secolare che domina la collina di fronte casa loro, posto proprio al centro del cimitero, prenda vita e si trasformi in un gigante dall’anima di fuoco. Sette minuti dopo la mezzanotte, proprio mentre Conor finisce di disegnarlo, il mostro entra nella sua vita per stravolgerla completamente: gli racconterà tre storie e ne pretenderà un’altra da lui, una verità che custodisce gelosamente dietro un muro di paure e rabbia repressa.

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In Sette minuti dopo la mezzanotte ritroviamo tutta la poetica di Bayona: i legami familiari indissolubili e il soprannaturale che separa e unisce, il disegno artistico, che ha la funzione di tramite fra il mondo reale e l’immaginario, sia che si tratti degli schizzi su carta di Conor sia che si tratti dei racconti del mostro, acquerelli animati, la tecnica attraverso la quale il ragazzo esprime la sua fantasia, i suoi desideri, le sue angosce, come accade nei sogni, con rimossi, proiezioni astratte di paure concrete, ricostruzioni interiori di stimoli esterni e precognizioni.

Il sogno, altro elemento poetico molto caro al cinema di Bayona, svolge l’antica funzione di guida e mediazione con il mondo esterno, strettamente legato ai miti arcaici, a situazioni riconducibili a fiabe e leggende popolari. Entrambi, sogni e miti, sono il risultato di una complessa elaborazione e deformazione delle fantasie di desiderio: più individuali nei sogni, collettive in quei “sogni” ancestrali delle comunità primitive che hanno il nome di miti. Quella forma primitiva di pensiero è stata sempre presente nell’inconscio umano ed è chiamata archetipo. Presenti indistintamente in tutte le civiltà, e culture del nostro pianeta, sono gli archetipi a costituire la base del mito e di tutti i suoi derivati. Queste sono gli elementi essenziali che compongono il simbolo che assieme ad altre forme ed altri simboli vanno a formare ciò a cui le società hanno dato il nome di mito.

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Dal mito deriva poi la fiaba, una sintesi di archetipi sociali, psicologici e onirici, nonché chiave di lettura del nostro argomento principe, Sette minuti dopo la mezzanotte. Il film, ambientato in una Manchester non troppo caratterizzata, resa anche più gotica di quello che in realtà è, presenta molte caratteristiche in comune con la struttura del mito e, soprattutto, della fiaba: nell’inverosimiglianza dei fatti e nell’indeterminazione spaziotemporale, dove il “qui e ora” diventa un modello universale di “qualsiasi luogo e tempo”, si muovono personaggi classici come un principe, una matrigna-strega, accanto a figure meno frequenti, come lo speziale e il pastore ecclesiastico, ma tutti contribuiscono a veicolare un messaggio che possa fornire a Conor gli elementi per poter reagire agli eventi che lo hanno colpito. La madre buona [Felicity Jones, la Jyn Erso di Rogue One: A Star Wars Story e candidata agli Oscar® 2018 come protagonista] non è necessariamente da contrapporre alla nonna che appare fredda e distante [Sigourney Weaver, la Ellen Ripley di Alien e candidata agli Oscar® 2018 come non protagonista]; se suo padre [Toby Kebbell; Ben Hur, Warcraft – L’inizio] si è rifatto una vita in America non necessariamente è un dramma; la fede cristiana e la fiducia nella medicina non per forza comportano un ritorno concreto secondo i propri desideri.

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«Le storie vere spesso sono fregature».

Non come un golem difensore degli oppressi (mosso anch’esso dalla verità), non come un jinn che debba esaudire i desideri del suo padrone, l’antropomorfo Tasso secolare, quale saggio maestro di vita, guida Conor in un viaggio dell’eroe all’insegna del coraggio, della fede e della verità, virtù cavalleresche che sembravano ormai appannaggio dei soli supereroi, ultimamente. In molti hanno riscontrato una certa somiglianza fra il Groot de I guardiani della galassia e il Mostro di Bayona animato in animatronic, motion capture e CGI, ma in pochi avranno notato le assonanze con i Giganti mitologici, i Titani, tra cui troviamo Prometeo che dona la conoscenza all’uomo e Cronos che governa il tempo. Dall’alto della sua figura di fantastico mentore, il Mostro – una creatura alta 12 metri al quale è Liam Neeson [Taken, Silence], con il motion capture, a dar vita e voce – mette in guardia il ragazzo («stai usando male il tempo che ti è stato concesso») e gli fornisce, attraverso le fiabe e i loro ambigui personaggi, la giusta chiave di lettura per interpretare la propria coscienza e, in una sola parola, crescere.

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«La maggior parte della gente è una via di mezzo».

Le origini della fiaba si perdono nella notte dei tempi. Teorie su teorie, quali quella mitica, indianista, antroposofica, poligenetica, ancora non hanno trovato un bandolo comune della matassa. Quello che è certo è che la tradizione orale, attraverso riduzioni e semplificazioni di antichi miti, stratificati nel tempo e rielaborati in età successive, ha operato una contaminazione di figure tratte dalla fantasia popolare in modo da poter rendere i racconti fiabeschi uno strumento educativo prezioso per tutti, in barba all’opinione pubblica che ritiene che le fiabe siano pensate ad uso e consumo esclusivamente del divertimento dei bambini.

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Sette minuti dopo la mezzanotte è un film che possiamo definire, senza incorrere in obiezioni, fiabesco, che è stato realizzato combinando l’estrema lucidità della sceneggiatura di Patrick Ness con la fervida fantasia scenografica di J. A Bayona, mantenendo una coerenza estetica con il resto della filmografia grazie ad una fidata crew di tecnici: il direttore della fotografia Óscar Faura [The Orphanage, The Impossible], lo scenografo Eugenio Caballero [Oscar® per Il labirinto del fauno], i montatori Bernat Vilaplana [Crimson Peak, Penny Dreadful e premio Goya per The Impossible e Il labirinto del fauno] e Jaume Martì [Penny Dreadful e Gaudì Award per Transsiberian], il costumista Steven Noble [La teoria del tutto, Una, Trainspotting 2], il compositore Fernando Velásquez [The Orphanage, The Impossible]. Oltre alla già citata animazione mista, il regista impreziosisce le riprese con virtuosismi tecnici che in pochi ormai utilizzano: raccordi sull’oggetto e inquadrature reverse che meravigliano come le acrobazie di un abile circense.

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Magari potrebbe sembrare prematuro parlare di nomination agli Oscar® 2018 ma questa avventura gotica in bilico fra sogno e realtà finora è l’opera migliore sotto ogni aspetto. Non a caso ha vinto 9 premi Goya su 12 ai quali era candidato!

Un aneddoto e una curiosità a margine, per concludere.
L’aneddoto: il regista ha scelto di non dare al suo giovane protagonista la pagina del copione che descriveva l’ultimissima scena di Sette minuti dopo la mezzanotte perché voleva che MacDougall avesse la reazione più naturale possibile e autentica possibile. Il risultato è stato davvero notevole.
La curiosità è, invece, per gli spettatori attenti: non rilassatevi durante l’epilogo e fate caso sulla parete alle fotografie raffiguranti il nonno di Conor.

«Chi ci dice che il sogno non sia tutto il resto?».

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Barriere, di Denzel Washington

Per il suo debutto dietro la mdp, Denzel Washington sceglie l’opera teatrale FencesBarriere di August Wilson. L’attore pluripremiato dirige se stesso in un film che è stato inserito nella lista di finalisti agli Oscar® 2017.

Ambientato negli anni Cinquanta, il film Barriere porta sul grande schermo la storia di una promessa mai mantenuta del baseball professionistico, Troy Maxson [Denzel Washington], che, per quanto avesse tutte le carte in regola per sfondare e avere il mondo ai suoi piedi, finisce per fare il netturbino.
«Ho visto solo due giocare meglio di te: Babe Ruth e Josh Gibson»

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La componente prettamente sportiva risulta quasi inesistente dal punto di vista scenico, ma rappresenta sicuramente il nucleo principale attorno a cui ruota la vita del protagonista, il big bang che ha generato quell’universo parallelo che gli ha rovinato la vita. Lo sport, insomma, diventa il MacGuffin per discutere di questioni razziali, conflitti generazionali e drammi interiori.
«Perché i bianchi guidano e i neri raccolgono soltanto?»

Tra battute ironiche sulle discriminazioni, discussioni su denaro, congetture sul futuro e strampalate storielle da vecchi ubriaconi (in questo, come nell’atmosfera fornita da scenografia e costumi, ricorda molto la vecchia sit-com Sanford and son), nel cortile di una piccola casa in una bassa periferia, va in scena la vita. Una vita interpretata da Troy come fosse una enorme partita di baseball, dove non esistono buoni o cattivi, nessun perdente, ma solo vinti e vincitori; e se l’uomo tende a giocare la sua personale sfida con il destino perdendo di vista i valori del gioco di squadra per eccellenza, la famiglia, che lui stesso, nel bene e nel male, ha contribuito a forgiare, fornendo un anti-modello che è perlopiù una presenza ingombrante, un ostacolo da superare, l’ennesima barriera.
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«You have to take the crookeds with the straights!»
[Devi saper prendere sia i lanci dritti sia quelli sporchi]

Le barriere del titolo sono sicuramente gli ostacoli che non permettono agli afroamericani di affermarsi in qualsiasi ambito sociale nel periodo in questione, ma le barriere più difficili da sormontare perché fortemente radicate nelle convinzioni di un padre di famiglia che ragiona a suo modo, magari pensando di tutelare una famiglia che, in realtà, saprebbe affermarsi benissimo anche senza la sua guida, la sua ingombrante figura. Figurativamente la barriera è rappresentata da uno steccato classico americano, una recinzione che dovrebbe isolare la famiglia Maxson dal resto del mondo, un mondo che Troy non ha mai saputo prendere per il verso giusto, forse. Inevitabile in questo contesto lo scontro generazionale e il sollevarsi di nuove palizzate.
«Non hai fatto altro che ostacolarmi per paura che fossi migliore di te»

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I sentimenti che derivano dal fallimento sono facili da intuire, ma non certo da trasmettere allo spettatore. La rabbia che bolle sotto la pelle come una pentola a pressione, la delusione cocente per il mancato successo, che ha portato ad una non accettazione di sé e, di conseguenza, di tutto ciò che intorno a sé, all’interno della recinzione che Troy vuole costruire, non è come potrebbe essere, non è come dovrebbe essere, neanche per chi ami, partner e figli.
«Hai commesso un errore. Hai “sventolato” e non hai battuto. È il primo strike. Sei nel box di battuta. È il primo strike, non farti mettere strike out!»

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Ad affiancare Denzel Washington nel ruolo di Rose Lee è Viola Davis [Suicide Squad, Prisoners], miglior attrice protagonista ai Golden Globe 2017 ed in lizza per l’Oscar®. Impressionante come riesca a rendere il climax di sicurezza e presenza scenica che il suo personaggio percorre, esternando un caleidoscopio di sentimenti impressionante e suggestivo, ma nello stesso tempo misurato. Al photofinish se la vedrà con un mostro sacro come Meryl Streep [Florence], la veterana Isabelle Huppert [Elle], l’outsider Ruth Negga [Loving], la poliedrica Natalie Portman [Jackie] e la favorita Emma Stone [La La Land]. Chi la spunterà?
«Non temo la Morte. L’ho già incontrata e mi ci sono battuto»

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Ben-Hur, di Timur Bekmambetov

Ben-Hur, diretto da Timur Bekmambetov, regista di Wanted, I guardiani della notte, I guardiani del giorno, ma soprattutto del gigionesco Abraham Lincoln: Vampire Hunter, nonché produttore di successi come 9 di Shane Acker o Hardcore! primo film 3D completamente in soggettiva, è un film che mantiene le promesse di spettacolarità per quanto riguarda le scene epiche della battaglia navale e della corsa mozzafiato delle quadrighe (essendo palesemente a quattro cavalli non è il caso di chiamarle bighe), ma che delude sotto l’aspetto drammaturgico, come se la sceneggiatura non fosse che un mero espediente per collegare i due momenti di maggior dispendio di energie creative, tecniche ed economiche.

La pellicola è il quinto adattamento cinematografico di Ben-Hur: A Tale of the Christ, romanzo scritto da Lew Wallace nel 1880, la cui trasposizione più celebre è il film del 1959, diretto da William Wyler con protagonista Charlton Heston, che si è aggiudicato 11 Oscar nella 32ª edizione, record eguagliato ma mai battuto. Il confronto risulta impari se, a maggior ragione, si mette in relazione il bilancio: se il kolossal di Wyler costò 15 milioni di dollari e, in proporzione all’inflazione e al prezzo dei biglietti all’epoca, ne incassò già solo in U.S.A. circa $720 300 000, questa trasposizione di Bekmambetov dovrebbe stregare i cuori degli spettatori fino all’inverosimile per recuperare già solo il budget che è stato di 100 milioni di dollari, largamente utilizzato per le scene in CGI, quelle girate ai Sassi di Matera e per le fedeli ricostruzioni scenografiche negli studi di Cinecittà.

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Gerusalemme. I secolo. Il nobile giudeo Giuda Ben-Hur e l’orfano romano Messala crescono insieme amici per la pelle prima che come fratelli adottivi. Quando Messala, divenuto comandante delle legioni romane, torna in città per scortare il prefetto Ponzio Pilato, i due fratellastri entrano in contrasto circa le rivolte locali. Così, durante la parata di benvenuto, un ribelle, ospitato con benevolenza in casa di Ben-Hur, coglie l’occasione per uccidere il governatore romano. Il tentativo fallisce ma Messala è costretto dalle circostanze a prendere provvedimenti, condannando la madre e l’amata sorella alla crocifissione e Giuda Ben-Hur alla deportazione come schiavo su di una galea. Ma non tutto è perduto…

«La mia famiglia era una delle più rispettate di Gerusalemme poi siamo stati traditi dal mio stesso fratello».

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Perdono o vendetta?

«Tutti abbiamo una scelta».

Tra questi due sentimenti oscilla la pendola del protagonista, mentre la sua vita s’intreccia con quella di un illustre contemporaneo, Gesù, con il quale s’innesca una serie di parallelismi più o meno velati che comunicano una volontà, purtroppo rimasta in embrione, di fornire una lettura tipologico-allegorica delle vicende narrate filmicamente.

«Abbiamo un’altra possibilità. Usala per provare odio e sarai di nuovo schiavo», afferma con severità Esther, amata sposa di Ben-Hur, facendo suoi gli insegnamenti cristiani, ma lo sceicco Ilderim, interpretato dal premio Oscar® Morgan Freeman [Million dollar baby], fornisce all’uomo, assetato di vendetta, l’occasione migliore per uno scontro all’ultimo sangue, forti del fatto che «nell’arena non ci sono leggi».

«Ricorda, Giuda Ben-Hur: primo a finire, ultimo a morire».

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«Se tuo fratello è l’orgoglio di Roma, sconfiggilo e avrai sconfitto un impero!».

Per quanto encomiabile possa risultare il messaggio finale, l’impressione è che si sia svolta una semplificazione estrema nella costruzione delle emozioni primarie dei protagonisti con conseguente riduzione di tono nello scioglimento finale di quello che, a detta dello stesso regista, è la storia di un eroe tragico di impianto shakespeariano. Non vengono forniti chissà quali elementi che possano cancellare anni di odio covato e sofferenze subite. Forse, per non rischiare di annoiare lo spettatore medio, i dialoghi chiarificatori sono stati ridotti all’osso, ma così facendo lo spettatore esigente non può che sentire in bocca un retrogusto amarognolo che sa di ingenuità, di paura nell’osare e di mancanza di una qualsiasi forma di autorialità.

Eppure il romanzo stesso innesca automaticamente tutta una serie di riflessioni su valori assoluti quali la giustizia e la misericordia e sui parallelismi di sofferenze e sacrifici che la fotografia rende graficamente in maniera molto sbrigativa, lasciando allo spettatore esperto il compito di risistemare i pezzi del puzzle disseminati qua e là: il cavallo bianco Aliyah – che significa “salita”, “ascensione” e “paradiso” ed esprime probabilmente l’amore puro e incondizionato, pronto al sacrificio estremo – preannuncia la sorte di Gesù, alla quale si può ricollegare un’altra inquadratura degna di menzione: Giuda Ben-Hur, interpretato dal “nipote d’arte” Jack Huston [American Hustle – L’apparenza inganna, Outlander], dopo il naufragio, galleggia esanime, in balia delle onde, al centro dell’albero della nave che, spezzato in vari punti, ha assunto l’aspetto di una croce.

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Per quanto riguarda, poi, la figura di Gesù, che ha il volto dell’attore brasiliano Rodrigo Santoro [la voce del commentatore radiofonico in Pelé è la sua e poi, qualcuno forse lo riconoscerà, è stato il Serse di 300], è molto significativo calarlo nel suo lavoro prima che nella predicazione o nei miracoli. Una scelta guidata, magari, da un bisogno di evidenziarne l’umile origine, l’appartenenza a quella classe sociale degli ultimi che vuole elevarsi spiritualmente e che costruisce il proprio destino con le proprie mani e il sudore della fronte attraverso i mestieri più semplici, dispensando sorrisi, osservazioni giuste e gesti di benevolenza, nonostante l’occupazione straniera e le vessazioni subite quotidianamente. Ma, il cinema, impietoso più che mai in questo caso, nel suo widescreen superpanoramico, consegna al pubblico lo sguardo di un attore che “non buca”, non cattura perché non ha il carisma necessario. Un vero peccato, perché magari non serviva un altro attore, solo un po’ di “mestiere” e qualche piano ravvicinato in più, che non avrebbe di certo tolto visibilità né alla tanto attesa corsa delle quadrighe né tantomeno allo spettacolo grossolano del 3D.

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Tra gli altri interpreti, Toby Kebbell è Messala Severus [un veterano ormai di film in costume dopo Prince of Persia, La furia dei titani, L’apprendista stregone, ma noto anche in qualità di doppiatore di blockbuster in CGI come Apes Revolution – Il pianeta delle scimmie e Warcraft – L’inizio dove dà voce a Durotan e Antonidas]. Tanto fumo ma poco arrosto, come il resto del film.

Una piacevole scoperta risulta, invece, Nazanin Boniadi che dà il volto a Esther [Iron Man e qualche apparizione in serie TV come Homeland, CSI – Scena del crimine e How I met your mother].

Chiamato a recitare il piccolo ma fondamentale ruolo di Ponzio Pilato, non delude Pilou Asbæk [Stille hjerte, R], che tutti conoscono come il Greyjoy di Game of Thrones – Trono di spade.

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Musica del nostro Marco Beltrami.

Per concludere, il Ben-Hur di Bekmambetov è sì spettacolare e mozzafiato, ma la profondità della storia non è stata raggiunta. Il cinema d’autore, vera e propria arte, è qualcosa che deve andare ben oltre il mero intrattenimento.

Rusty il selvaggio, di Francis Ford Coppola in DVD

Rusty il selvaggio [Rumble Fish], diretto, sceneggiato e prodotto nel 1983 da Francis Ford Coppola, è basato sull’omonimo romanzo per ragazzi di Susan Eloise Hinton, che ha contribuito a questa sceneggiatura che se, oggi, all’apparenza, risulta ingenua, trova la sua grandezza nelle potenzialmente infinite riflessioni filosofico-sociali che scatena ad ogni visione. Un piccolo capolavoro della storia del cinema che non può mancare nella collezione di qualsiasi cinefilo.

«Anche le società più primitive hanno un innato rispetto per gli alienati».

Rusty James [Matt Dillon] vive una vita che non è la sua. Schiavo del desiderio di emulare il fratello [Mickey Rourke], il ragazzo, ancora teenager, è il capo di una poco temibile gang in un’anonima cittadina industriale in degrado, un non-luogo che assume per antonomasia i connotati di un qualsiasi posto in qualsiasi tempo, nel palese intento di fornire all’intera vicenda valori di universalità, come fosse una parabola esemplare. Nel ricordo del fratello, nel continuo confronto a distanza, tra piccoli reati, ingenui atteggiamenti da bad boy e lotte per la supremazia territoriale, il tempo scorre inesorabile senza che per Rusty James si compia una svolta degna di nota.

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Per questo motivo gli orologi campeggiano in ogni scena del film e anche la colonna sonora è contaminata da ticchettii, battiti cardiaci e altri suoni elaborati in modo da scandire bene il tempo che passa ed il destino che incombe. Un’atmosfera surreale che sfrutta moltissimi elementi del registro espressionistico, dal bianco e nero fortemente contrastato alle ombre aggiunte in post-produzione, dalla presenza di oggetti fuori dal contesto ordinario, come la nebbia prevaricante, o fuori dimensione, come il famoso orologio senza lancette, per comunicare allo spettatore uno stato d’animo di angoscia e preoccupazione per la sorte dei personaggi, intrappolati in un loop molto simile a quello che vivono gli animali del pet shop, soprattutto i pesci combattenti del titolo originale [Rumble fish], unico elemento sempre a colori in un film significativamente in bianco e nero.

Lo straniamento visivo va di pari passo con l’alienazione vissuta dai personaggi, soprattutto dal personaggio interpretato da Mickey Rourke, che è diventato da tempo daltonico e che, quindi, coincide, anche se non perfettamente, con il punto di vista della macchina da presa e, di conseguenza, con quello dello spettatore: «Mi dispiace un po’ non vedere i colori».

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I dialoghi amletici fanno da collante alle vicende e la struttura di matrice shakespeariana è confermata dal masque finale, una figura retorica del cinema mutuata dal teatro elisabettiano che permette di inquadrare tutti i personaggi principali nello stesso long take su carrello. Un virtuosismo tecnico-poetico spesso utilizzato da autori come Peter Greenaway o Wes Anderson, ma che raramente troviamo in Francis Ford Coppola e nella corrente della Nuova Hollywood, di cui il regista ha fatto parte e nella quale va annoverato Rusty il selvaggio. Non per niente Coppola lo considera uno dei 5 propri film che gli sono più cari, probabilmente è uno dei più sentiti, dedicato al fratello August «il suo primo insegnante».

Emblematico, poi, il fatto che Rusty James venga chiamato per nome almeno 50 volte, cioè approssimativamente ogni due minuti, mentre non è mai pronunciato il nome del fantomatico fratello, il messia che tutti aspettano torni dal suo lungo viaggio e che, invece, ha maturato, nel suo percorso lontano da quell’angusta cittadina, un profondo senso critico che lo rende un corpo estraneo, in bilico tra il genio e la pazzia. Ma qual è, allora, il senso del suo ritorno? Deve riprendersi il suo regno, come predetto dalle scritte sui muri: “the motorcycle boy reigns”? Deve portare la “luce” all’uomo della caverna?

Il poliziotto che lo detesta e lo vorrebbe di nuovo lontano, mette in guardia Rusty James dicendo: «Voi lo credete qualcosa che lui non è: non è un eroe!». O forse sì, ma non secondo gli stereotipi: forse è l’outsider che ha allargato i suoi orizzonti e che si sente in dovere di liberare il fratello minore dalla prigionia di un codice comportamentale che si è autoimposto per compiacerlo ed imitarlo, per scrollargli di dosso quel destino che, tragico, sembra aspettarlo dietro ogni angolo di strada, per innalzarlo finalmente ad un livello pari o superiore al suo, dando l’esempio giusto che nessuno gli ha dato.

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Il gesto di liberare gli animali dalle gabbie e soprattutto i pesci combattenti dall’acquario assume un significato allegorico che stimola ulteriori riflessioni anche dal punto di vista tecnico.

Le inquadrature, per tutto il film, rimarcano la limitatezza umana: i personaggi sono spesso inquadrati dall’alto a comunicare un continuo senso di inferiorità e in Rusty questo si traduce nella continua sconfitta di fronte a “Quello con la moto” [“Motorcycle Boy”, nella versione originale], come tutti in città chiamano il fratello, nonostante da tempo abbia fatto perdere le sue tracce, in sella alla sua moto. Il tempo e l’assenza hanno alimentato le leggende intorno al personaggio: «Una specie di re in esilio. Accidenti! Gli riesce tutto!», nonostante la sua riluttanza – «Sono un po’ stufo di fare il Robin Hood o il pifferaio magico. Preferisco restare un’attrazione locale, se sei d’accordo…»

I personaggi sono ignari di essere fuori dal contesto e l’unico che se ne accorge, “quello della moto” passa per matto, ma ha il compito ultimo di mettere in guardia Rusty James circa il suo destino: «Ehi, su con la vita! Le bande torneranno. Basterà che sparisca la roba. Sai, La gente ricomincerà a socializzare. Le vedrai ritornare le bande… Se vivrai abbastanza!». Quello che si evince dai discorsi filosofici del carismatico fratello maggiore è che si vinca o si perda, in quella gabbia in cui vivono, il sapore che si sente tra i denti, mescolato al sangue e al sudore, è quello amaro della “vittoria di Pirro”, imprigionati come sono in un’impasse simile a quello dei pesci combattenti, oggetti d’intrattenimento senza alcuna libertà d’azione, ingranaggi di un orologio che segna solo il tempo che passa.

«Appartengono al fiume. Non combatterebbero se fossero nel fiume. Se avessero spazio»

Le inquadrature dal basso, utilizzate per attribuire importanza al soggetto, sono pochissime e sono compatibili, infatti, proprio con i tentativi di fare qualcosa per uscire dallo status quo. Anche gli elementi espressionisti decontestualizzati, ma non certo fuori posto, contribuiscono a comunicare evasione: l’angoscioso pensiero, il delirio della febbre, il viaggio astrale sono occasioni per utilizzare distorsioni sonore e visive, contrasti più forti, architetture e ombre incombenti, nebbie inverosimili, inquadrature fuori bolla, time lapse, sovrimpressioni e dissolvenze incrociate multiple, sono tutti elementi che spesso sconfinano anche nella realtà filmica, che assume, quindi, i connotati di una pseudo-realtà che si rivela costruita fin da subito su di un castello di carte, su illusioni inconcludenti che hanno il cluster più evidente nella prigionia autoinflitta di Rusty James.

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L’unica svolta possibile è uscire prepotentemente dalla gabbia, liberarsi delle zavorre che non permettono di spiccare il volo, compiere un viaggio che possa aprire gli orizzonti, un viaggio in moto, in solitaria, come lo ha fatto “quello della moto”.

L’esortazione «Voglio che tu segua il fiume fino all’oceano» segna la svolta nella vita dei due protagonisti e l’emancipazione definitiva del piccolo pesce da combattimento che prende finalmente il posto del fratello in sella alla moto e parte verso un nuovo destino, stavolta reale e di prospettiva, frutto del crepuscolo del mito, dalla morte di ogni leggenda.

Nell’ultima inquadratura, i gabbiani volano liberi intorno a Rusty James, che osserva l’oceano, sconfinato come il cielo, mentre tutta sembra comunicare libertà.

IL DVD

REGIA: Francis Ford Coppola INTERPRETI: Matt Dillon, Mickey Rourke, Vincent Spano, Diane Lane, Diana Scarwid, Nicolas Cage, Dennis Hopper, Tom Waits, Lawrence “Larry” Fishbourne, Chris “Christopher” Penn  TITOLO ORIGINALE: Rumble fish GENERE: drammatico DURATA: 90′ ORIGINE: USA, 1983 LINGUE: Italiano 5.1, Italiano 2.0, Inglese 5.1 SOTTOTITOLI: Italiano EXTRA: Making of – Clip musicale “Don’t box me in” – “The percussion bassed score” – Scene tagliate DISTRIBUZIONE: CG Entertainment

Pubblicato da CG Entertainment, Rusty il selvaggio è disponibile in dvd e blu ray, corredato da una nutrita sezione extra composta dalla sequenza di scene tagliate, dall’interessante Making of corredato di storyboard, in cui spicca il dietro le quinte del viaggio astrale di Rusty James mentre è esanime dopo una rissa, e da un ancora più suggestivo The percussion bassed score, che approfondisce la realizzazione della colonna sonora a cura di Stewart Copeland [Wall Street, Talk Radio], ex-batterista dei Police, scioltisi proprio l’anno precedente al film.

Molto istruttivo ascoltare come, in tempi lontanissimi dalle odierne tecniche digitali, si dovevano creare artigianalmente i temi musicali che, per questo film surreale, basato sul circolo vizioso e sulle prigioni mentali, non potevano che essere replicati in un loop.

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